DI TATTICA SI MUORE. IL PARTITO DECIDA COSA VUOLE ESSERE da IL MANIFESTO
Di tattica si muore. Il partito decida cosa vuole essere
Antonio Floridia 14/12/2025
Il conresso «Non so più cosa son, cosa faccio…»: la celebre area mozartiana si attaglia alla condizione del Pd. Grandi sommovimenti sono in corso, molte questioni si stanno aggrovigliando e non sappiamo se l’Assemblea nazionale di oggi comincerà a sbrogliarle
«Non so più cosa son, cosa faccio…»: la celebre area mozartiana si attaglia alla condizione del Pd. Grandi sommovimenti sono in corso, molte questioni si stanno aggrovigliando e non sappiamo se l’Assemblea nazionale di oggi comincerà a sbrogliarle. Uno dei temi all’ordine del giorno è quello dei tempi del prossimo congresso: le solite beghe interne, si dirà, Ma non è così, è una questione che chiama in causa il futuro di questo partito.
Secondo lo Statuto vigente il segretario del partito ha un mandato triennale. Quello di Elly Schlein scade nel marzo 2027, ovvero a ridosso della data probabile di svolgimento delle elezioni politiche. Si pone dunque un problema di anticipo o di posticipo del congresso. Stando ai rumours, la segretaria sarebbe stata tentata dall’anticipo, da intendere come una sorta di reinvestitura come leader del partito e della coalizione in vista delle elezioni. Pare che, per fortuna, questa ipotesi sia tramontata: sarebbe stato un errore clamoroso. In primo luogo, Schlein non ha alcun bisogno di una rilegittimazione: de iure, e poi, soprattutto, de facto, ha tutti i titoli per guidare e rappresentare il partito elle elezioni, dopo averlo salvato dal baratro in cui si trovava due anni fa. Ma, soprattutto, per un altro motivo: il Pd non ha bisogno dell’ennesimo, vuoto rituale di legittimazione plebiscitaria della leadership. Un congresso pre-elettorale non sarebbe servito a discutere veramente, e a fondo, sull’identità e il progetto di un partito: e, oltre tutto, avrebbe sottratto tempo ed energie a ciò che appare come il compito più urgente: costruire il progetto della coalizione con un largo coinvolgimento di forze sociali e intellettuali.
Dunque, di congresso se ne riparlerà nel 2027, dopo le elezioni; ma sarebbe bene invece si cominciasse subito a parlare d’altro: che tipo di congresso serve al Pd? È del tutto evidente, come mostra da ultimo il caso del ddl sull’antisemitismo, che il Pd è un partito in cui convivono sempre più malamente visioni diametralmente opposte di quella che dovrebbe essere la sua ragion d’essere. Stanno venendo meno anche le regole condivise, il più elementare senso degli obblighi che comporta, ad esempio, il far parte di uno stesso gruppo parlamentare. Il senso di una comune appartenenza diviene sempre più flebile, non solo tra i gruppi dirigenti. Nel Pd si continua a discutere poco, ma soprattutto male. L’intero modello di partecipazione e democrazia interna andrebbe ripensato.
Se ne può uscire solo se si fa un vero congresso, non le solite primarie tra i candidati-segretario, ciascuno dei quali con una generica mozione di accompagnamento e la filiera collegata di nominati negli organismi: occorre una discussione seria, profonda, punto per punto, nero su bianco. È possibile farlo. Vorrei qui ricordare un comma dello statuto vigente che è poco noto, ma che potrebbe essere utilizzato proficuamente, l’articolo 12, comma 3. «Le fasi congressuali si articolano nel seguente modo: Prima fase, entro dieci giorni successivi alla Direzione nazionale che approva il Regolamento , è possibile presentare alla Presidenza della Direzione nazionale: a. documenti politici; b. contributi tematici. I primi devono essere sottoscritti da almeno il 15% dei componenti della direzione nazionale. Nei successivi 40 giorni i documenti politici e i contributi tematici vengono discussi e votati dalle iscritte e dagli iscritti nelle assemblee di circolo. I documenti politici sono posti al voto degli iscritti nei circoli in alternativa tra loro (corsivo aggiunto)».
A dimostrazione dell’assoluta incongruenza del sistema di governance del Pd, si prevede poi però che la «seconda fase» si svolga sulla base del consueto meccanismo delle primarie aperte: non si dice nulla sul fatto che i candidati-segretario debbano o possano collegarsi a uno o più documenti politici approvati nella prima fase. Potrebbe così accadere che la mozione del segretario eletto contraddica un documento politico votato dagli iscritti. Ma quanto può reggere una situazione del genere? In attesa che si rimetta mano allo Statuto, si può fare però quello che non è vietato, ossia, che siano i candidati alla segreteria i primi firmatari e proponenti dei documenti politici su cui chiamare gli iscritti a votare. Forse si potrà fare una vera discussione politica, tutti potrebbero fare uno sforzo di chiarezza, con un benefico effetto generale, e si potrebbero costruire delle vere correnti politico-culturali.
Ad esempio, i documenti sulla politica estera: dovrebbe essere un fatto di onestà politica e intellettuale che, su questo tema, ce ne siano almeno due, o anche più: un iscritto avrà pur diritto di votare e dire come la pensa sul riarmo? O sul ruolo dell’Italia nella Nato? E l’opinione pubblica potrà una buona volta verificare che peso reale hanno nel partito le posizioni «riformiste», tanto debordanti sulla stampa.
La via cilena al suicidio del socialismo
Marco Boccitto 14/12/2025
La casa degli spiriti Nessun sistema è immutabile, diceva anche Salvador Allende. Ma difficilmente immaginava il genere di mutanti che un giorno avrebbero occupato la scena politica del Cile
Che nessun sistema è immutabile lo diceva anche Salvador Allende. Ma certo il presidente che i cileni portarono alla Moneda con «un gesto di imperdonabile condotta», come scrisse Eduardo Galeano, che non passò affatto inosservato a Washington, difficilmente immaginava il genere di mutanti che un giorno avrebbero occupato la scena politica del Cile.
José Antonio Kast, il più che probabile prossimo presidente, era un bambino quando la «via cilena al socialismo» venne brutalmente interrotta dal golpe di Pinochet. Ricorderà però la soddisfazione che si respirava in casa. Il padre era un nazista riparato in Cile nel dopoguerra. Fece fortuna con le salsicce.
Oggi, se verrà eletto, Kast figlio dovrà ringraziare i soliti Stati uniti, che ingolositi dal litio e dal progetto di una barriera anti-antifa sempre più larga non hanno esitato a metterci lo zampino. In modo meno cruento rispetto al 1973, ma altrettanto volitivo. Soprattutto, Kast ringrazierà l’harakiri di una sinistra che non ha saputo capitalizzare la chance avuta con la presidenza di Gabriel Boric.
È vero che il Cile ha già avuto un presidente di destra dopo la transizione democratica. Ma Sebastián Piñera nei suoi due mandati ha curato essenzialmente gli interessi di una oligarchia più sensibile al denaro come volano di potere che all’ideologia. Ed è stato infine spazzato via da una straordinaria mobilitazione a trazione giovanile. Un movimento da cui è emerso un leader, Boric appunto, divenuto nientemeno che presidente.
I problemi sono venuti quando si è incartato con un progetto di Costituente che puntava in alto ma si è schiantato ingloriosamente contro il 55,7% dei cileni andati alle urne per tenersi la Costituzione di Pinochet. Da lì in poi è stato tutto un balbettare, se non rinnegare, con un trattamento riservato alle popolazioni indigene e altre posture poco degne di un governo di sinistra. Da oggi sarà tutto un migranti da cacciare, dissenso da reprimere, diritti da motosegare à la Milei, megacarceri come funghi in stile Bukele, come si conviene a un governo di ultradestra.
Morale: una via al socialismo, quale che sia, una volta che si è in pista andrebbe percorsa fino in fondo.
No Comments