SEBASTIA E L’ARCHEOLOGIA DI GUERRA DI NETANYAHU da IL FATTO e ANSA
Sebastia e l’archeologia di guerra di Netanyahu
di Riccardo Antoniucci e Filippomaria Pontani 12 Dicembre 2025
Patrimonio Unesco. Ministri e coloni israeliani hanno espropriato 180 ettari dell’area che ha visto passare Fenici, Romani, Bizantini. Obiettivo: riscrivere la Storia
È cominciata come tante altre volte. Con dei rilievi archeologici avviati sotto il sole di maggio, senza uno scopo preciso. Poi è arrivato un volantino dell’esercito, a luglio. Una piccola area veniva chiusa per “esigenze di sicurezza” (in realtà: piazzare un pennone per un’enorme bandiera dello Stato ebraico). Infine, un mese fa, in pieno periodo della raccolta delle olive, la misura più pesante. L’amministrazione civile israeliana, l’autorità che gestisce circa il 60% dei territori palestinesi (la cosiddetta Area C della West Bank), ha emesso un decreto di esproprio “temporaneo” di ben 180 ettari di terreno (un’enormità, il più grande dal 1967) nel governatorato di Nablus. “A beneficio della conservazione del sito, del miglioramento dell’accesso dei visitatori e dello sviluppo dell’area”. Il sito archeologico è quello di Sebastia, uno dei più grandi e antichi della West Bank e patrimonio Unesco, adiacente all’omonimo villaggio palestinese, che è in Area B (zone ad amministrazione condivisa in cui l’Anp ha formalmente funzioni di governo ma la sicurezza è affidata alle forze israeliane). Gli abitanti palestinesi vivono di turismo da decenni, e di sera passeggiano tra le colonne millenarie. Ma ora sono accusati di non aver conservato adeguatamente, nell’area, quella parte di reperti relativi alla storia del popolo ebraico.
ituata su una collina da dove nei giorni chiari si vede il Mediterraneo, circondata da terreni fertili ma arida, finché i Romani non vi portarono l’acquedotto, Sebaste fu rifondata da Erode il Grande (quello della Strage degli Innocenti) sul ben più esiguo sito dell’antica Samaria, capitale del re israelita Omri e dei suoi successori (884-722 a.C.). Oggi i lacerti delle vetuste mura di Omri spariscono tra le imponenti rovine della Sebaste romana: foro, stadio, via colonnata, tempio di Augusto, tempio di Proserpina, e il più bel teatro di Palestina; poco più in là, ecco la chiesa bizantina dedicata all’Invenzione della Testa del Battista seppellita qui da Erodiade, e infine la cattedrale di San Giovanni, ricostruita dai Crociati nel XII secolo e poi ridotta a moschea dal Saladino. Ancor oggi Sebastia ha un arcivescovo greco-ortodosso, Atallah Hanna (Teodosio), che per di più difende strenuamente i diritti dei palestinesi e denuncia la pulizia etnica dello Stato ebraico (e per questo più volte arrestato e interrogato).
A fronte di una storia così stratificata e plurale, è il passato israelitico che ha maggiormente interessato gli archeologi, che hanno voluto riconoscere qui un grande centro di potere: le mura di tipo fenicio, i 65 cocci (òstraka) con scritte notarili in antico ebraico, le 200 placchette d’avorio istoriate (a incisione, a bassorilievo, con pietre preziose), immagini di sfingi, leoni, del dio Horus – perché non metterle in relazione con il “palazzo d’avorio” del re Achab citato dalla Bibbia in I Re 22, 39, e forse anche con il lusso di Samaria denunciato dal profeta Amos? Non è dunque “l’incuria del sito e il disinteresse dei proprietari e delle autorità palestinesi nei confronti dei danni e delle distruzioni che vi si verificano” a motivare l’esproprio, bensì, secondo esperti e attivisti, un disegno molto più politico, e molto comune, legato al progetto della destra israeliana di espandere le colonie nella zona che ormai chiamano (anche nei documenti ufficiali) “Samaria”.
Solo quest’estate, solo nella provincia di Nablus, sono stati notificati oltre 60 ordini di confisca. La vicenda di Sebastia inizia a maggio del 2023, quando il governo stanzia 30 milioni di shekel (circa 9 milioni di euro) per condurre qui nuovi scavi e “trasformare il sito in un’attrazione pubblica” per gli israeliani. Il parco era già luogo turistico da decenni, gestito dai palestinesi che ne traevano la principale fonte di reddito. Ma il ministro del Patrimonio che ha chiesto i fondi a Netanyahu è Amihai Eliyahu, esponente del partito estremista Otzma Yeudith di Itamar Ben-Gvir, che ha plaudito alla distruzione di Gaza, e sostiene i coloni. È un sostenitore degli insediamenti illegali anche il ministro dell’Economia Bezalel Smotrich, che infatti ha stanziato altri 40 milioni di shekel per lo sviluppo di insediamenti israeliani nei “siti storici” della West Bank.
Il piano di sviluppo israeliano per Sebastia prevede di recintare il sito e costruire una nuova strada di accesso collegata all’autostrada 60, che aggirerà del tutto il villaggio palestinese isolandolo. L’area sottoposta a confisca, 180 ettari, include terreni agricoli di Sebastia e del vicino villaggio di Burqa. “Finora non è stato avviato alcun lavoro di costruzione – dice al Fatto il sindaco di Sebastia, Mohammed Azem – hanno solo mandato un funzionario a incontrare i residenti per informarli che d’ora in poi è vietato accedere ai loro campi”. Ma i lavori arriveranno, e anche se residenti e ong internazionali hanno lanciato una campagna internazionale per salvare Sebastia, il governo israeliano ha tutto il potere di sequestrare il sito come è già successo per l’Herodion o al monte Garizim. Ma lì i villaggi palestinesi erano più lontani. “Credo che la comunità internazionale non si renda ancora conto della gravità della situazione”, dice Carla Benelli, archeologa di Pro Terra Sancta: “Qui le case sono adiacenti al sito archeologico, e se questo governo resterà in carica la confisca proseguirà”.
Per questo, molti archeologi si sono schierati contro la decisione. Anche israeliani. Non solo la nota ong Emek Shaveh, nata per difendere i diritti dei palestinesi alla gestione del patrimonio culturale condiviso tra tutte le comunità di fede, e che parla di “un atto che porrà fine a secoli di continuità culturale tra gli abitanti di Sebastia e l’acropoli del sito, danneggerà il turismo e l’economia olivicola della città di Sebastia e probabilmente porterà anche a una presenza militare permanente” israeliana. Ma anche la (moderata) associazione degli archeologi israeliani, che ha criticato il progetto. Che viola, si fa notare, la Convenzione dell’Aia sulla protezione dei beni archeologici nei conflitti – e alla risoluzione Onu del 1967 sui Territori. L’archeologia è usata come arma per perseguire l’occupazione illegale, il tutto mentre sui social e in tv compaiono spot promozionali “Per la Giudea” che invitano gli israeliani (in particolare i soldati) a visitare i siti archeologici della Cisgiordania e gli insediamenti illegali dei coloni. E mentre alla Knesset si discute un disegno di legge per trasferire l’autorità dei siti archeologici dell’area C a un organo controllato dall’esecutivo.
“L’obiettivo che i coloni e questo governo estremista stanno perseguendo è produrre un capovolgimento ideologico in Israele”, ragiona Raphael Greenberg, professore di archeologia di Tel Aviv e fondatore di Emek Shaveh. “Dal 1948 gli insediamenti israeliani si sono sviluppati sulla costa, come Tel Aviv. Ora i sionisti religiosi vogliono portare al centro del progetto dello Stato ebraico le zone collinari della Cisgiordania. L’archeologia è uno dei principali terreni dove misurano il loro disegno”.
Confiscati terreni privati nel villaggio palestinese di Sebastia
Pro Terra Sancta denuncia, come 260 campi da calcio, anche porzioni del sito archeologico
Redazione ANSA 10/12/2025
Pro Terra Sancta esprime “profonda preoccupazione” per la recente confisca di circa 1.800 dunum, circa 200 ettari, di terre private nel villaggio palestinese di Sebastia, un’area pari a circa 260 campi da calcio che comprende terreni agricoli, case e porzioni del sito archeologico.
“Si tratta di un provvedimento di vasta portata che incide direttamente sulla vita delle famiglie locali e sull’integrità di un patrimonio storico e culturale unico”, denuncia l’associazione spiegando che “il sito archeologico di Sebastia non è un’isola separata, ma parte integrante del villaggio, delle sue tradizioni e della sua economia, fondata in larga parte sugli uliveti ora a rischio.
Separare l’area archeologica dal tessuto urbano e agricolo significa spezzare un legame secolare e privare centinaia di famiglie della loro principale fonte di sostentamento, compromettendo anche le esperienze di turismo comunitario sviluppate negli ultimi anni”.
Pro Terra Sancta rimarca che “Sebastia è di tutti: non è solo un sito archeologico, è un villaggio vivo, fatto di famiglie, bambini, uliveti, memorie condivise da cristiani e musulmani. Il diritto internazionale vieta questa forma di occupazione in Area B e noi lo ricordiamo con forza: non si può usare l’archeologia come pretesto per controllare il territorio e limitare la libertà delle persone. Oltre alla parte archeologica, qui parliamo di case private, di piccoli esercizi commerciali, di una guesthouse e di stanze che abbiamo reso accessibili anche alle persone con disabilità: sequestrare queste proprietà significa spezzare relazioni, interrompere percorsi di lavoro e condannare molte famiglie a una precarietà ancora più grande”.
Quindi la onlus lancia un appello alla società civile italiana – associazioni, parrocchie, scuole, amministrazioni locali e singoli cittadini – di “unirsi a noi nella difesa della dignità e dei diritti di Sebastia: informandosi, facendo sentire la propria voce, promuovendo iniziative di sensibilizzazione e sostenendo concretamente la comunità che abita questo luogo. La credibilità dei richiami al diritto e ai diritti umani passa anche da villaggi come Sebastia, che non possono essere lasciati soli”.
Accanto alla voce di Pro Terra Sancta c’è quella di chi questa situazione la vive ogni giorno. “Lavoro nella guesthouse del Mosaic Centre a Sebastia e, insieme alla mia famiglia, vivo di queste terre”, racconta Shady Al-Shaer. “La decisione di confiscare circa 1.800 dunum impedisce a molti di noi di raggiungere e coltivare i propri campi. In queste aree ci sono ulivi che le nostre famiglie curano da generazioni: sono alberi da cui dipende il nostro sostentamento quotidiano, eredità dei nostri padri e dei nostri nonni. Perderli significa perdere una parte della nostra storia e della nostra identità, oltre che la principale fonte di reddito”.
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