ONU: “L’ECONOMIA PALESTINESE È COLLASSATA” da IL MANIFESTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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ONU: “L’ECONOMIA PALESTINESE È COLLASSATA” da IL MANIFESTO


Onu: «L’economia palestinese è collassata»

Chiara Cruciati  26/11/2025

Terra rimossa L’allarme delle Nazioni unite: tornati indietro di 20 anni. Gaza affoga nelle piogge, in Cisgiordania il governo premia i coloni con le terre mentre l’ong B’Tselem denuncia: né indagini né arresti per gli omicidi commessi in West Bank

Il disegno di legge approvato ieri dalla commissione esteri e difesa della Knesset è volta, nelle dichiarate intenzioni del Likud che l’ha scritta, a «rimuovere le discriminazioni e ripristinare il naturale diritto dei cittadini israeliani alla loro terra».

Prevede la rimozione degli ostacoli all’acquisto di terre nella Cisgiordania occupata, a oggi già possibile ma solo passando per compagnie registrate al Cogat, l’ente che «gestisce» per Israele gli affari civili nei Territori palestinesi occupati. Illegalmente, secondo il diritto internazionale, fattore che non ha mai inciso sull’appropriazione di terre altrui.

CI SAREBBE da ridere se non fosse solo l’ultima iniziativa di un processo di colonizzazione e apartheid lungo otto decenni. Il Likud nella sua proposta non fa menzione degli ostacoli legislativi che impediscono ai palestinesi cittadini israeliani di acquistare terre nello Stato di cui sono parte (Israele, appunto), né delle continue confische subite dai palestinesi in Cisgiordania. Né tanto meno delle violenze quotidiane e brutali con cui i coloni israeliani fanno avanzare l’agenda di Stato.

L’elenco è troppo lungo per le colonne di un giornale. Per citare le ultime: l’incendio appiccato ieri a una fattoria nel villaggio di Mukhamas, vicino Ramallah, e la creazione dell’ennesimo outpost a Shallal al-Auja da cui pochi mesi fa hanno cacciato una comunità beduina a forza di aggressioni. E poi ci sono i morti ammazzati: se il caso dell’attivista del villaggio di Umm al Kheir, Odeh Hathalin, è il più noto (con il suo omicida, il colono Yinon Levi – «punito» con tre giorni di domiciliari), sono almeno 21 gli omicidi di palestinesi per mano di coloni israeliani rimasti senza colpevoli.

I numeri li ha dati lunedì l’ong israeliana B’Tselem, descrivendo le uccisioni dei palestinesi come parte della più vasta campagna di pulizia etnica in corso in Cisgiordania. Dal 7 ottobre 2023, sono 1.004 i palestinesi uccisi tra West Bank e Gerusalemme est. Di questi 21 perpetrati direttamente dai coloni, senza che ne seguissero indagini, arresti e incriminazioni. L’ultimo omicidio risale a domenica: il 20enne Bara Khairy Ali Maali, caduto sotto i colpi di pistola dei coloni durante un’incursione nel villaggio di Deir Jarir, compiuta fianco a fianco con i soldati israeliani.

L’impunità è assoluta perché serve uno scopo, parte di un matrix di confische, violenze, chiusure che hanno lasciato la Cisgiordania in uno stato di oppressione senza precedenti. Anche dal punto di vista economico: ieri l’Onu lo ha certificato in un rapporto in cui definisce il de-sviluppo di questi due anni come uno dei peggiori a livello globale dal 1960.

«I DANNI INGENTI alle infrastrutture, alle risorse produttive e ai servizi pubblici hanno vanificato decenni di progressi socioeconomici nei Territori palestinesi occupati», scrive l’agenzia Unctad. Il Pil è regredito ai livelli del 2010, quello procapite al 2003, trascinando nella povertà milioni di persone. In Cisgiordania e soprattutto a Gaza, un crollo che è la conseguenza del genocidio ma anche di vent’anni di blocchi ed embarghi che hanno reso l’economia palestinese totalmente dipendente dagli aiuti esterni.

Il grido di allarme dell’Onu giunge nel pieno di una tregua fittizia che non sta portando a nessun miglioramento nella vita della Striscia. Con all’orizzonte una ricostruzione selettiva, gestita da Usa e Israele solo su metà territorio, i palestinesi sono soli, alle prese con i raid che non cessano (anche ieri 17 feriti, 14 i corpi recuperati sotto le macerie), la diffusione di malattie a causa delle condizioni igieniche e le piogge incessanti che stanno spazzando via anche i pochi rifugi di fortuna che sono casa per due milioni di sfollati da ormai 25 mesi.

Le tende, già vetuste, si sbriciolano, il fango si mescola alle macerie, l’acqua distrugge i rari averi e il gelo congela i corpi come le speranze. Le coperte sono zuppe, non scaldano. E dai valichi, aperti da Israele quasi solo ai camion commerciali, non passano né tende nuove né vestiti invernali. Una delle 500 violazioni della tregua da parte israeliana, anche quella impunita. Ne hanno discusso Turchia, Qatar ed Egitto, ieri al Cairo, mentre Hamas consegnava a Tel Aviv il cadavere del 26esimo israeliano morto a Gaza.

Palestinesi più poveri, ma sommersi dagli shekel

Michele Giorgio  26/11/2025

Invado avanti Per ordine del ministro delle Finanze Smotrich, le banche cisgiordane non possono più convertire il denaro in Israele, con effetti dirompenti sull’economia palestinese

«Mi ritrovo in una situazione assurda, ho i fondi per effettuare i bonifici ai fornitori, ma la mia banca non mi permette di depositarli sul mio conto corrente. Mi dicono che non accettano più gli shekel israeliani, ne hanno troppi. Vogliono dinari giordani che, però, sono introvabili». Il caso di Marwan Natcheh, commerciante e proprietario di un paio di supermercati a Hebron, è quello tanti palestinesi.

In Cisgiordania gli shekel si ammucchiano nelle casseforti, ma il denaro non circola.

La popolazione si impoverisce sotto un mantello di banconote. È il paradosso che da mesi strozza il sistema bancario palestinese, aggravando la fragilità di un’economia già sottoposta a occupazione militare, blocchi commerciali e una costante incertezza. È un altro aspetto della guerra parallela a quella di Gaza che il governo israeliano porta avanti contro i palestinesi. E che si aggiunge alle incursioni militari e alle scorribande, sempre più sanguinose, attuate dai coloni israeliani nei centri abitati palestinesi.

Il problema è la liquidità in eccesso nelle banche palestinesi, causata dalla decisione presa da quelle israeliane di rifiutare – dopo aver ricevuto un ordine in tal senso dal ministro delle Finanze, Bezalel Smotrich, un nemico giurato dei palestinesi – il trasferimento di miliardi di shekel provenienti dalla Cisgiordania. Una misura in apparenza tecnica – Smotrich sostiene di averla adottata «per impedire che i terroristi possano riciclare fondi illegali» – che sta generando conseguenze sulla vita dei palestinesi già alle prese con una pesante crisi economica e una disoccupazione crescente, frutto delle misure punitive prese da Israele dopo il 7 ottobre 2023. «Gli shekel diventano carta straccia se non possiamo depositarli, convertirli in valute pregiate o usarli per operazioni internazionali. E questo blocca tutto: crediti, stipendi, pagamenti esterni», ha spiegato a un giornale locale Hisham Darwish, direttore di banca a Nablus.

«Gli shekel diventano carta straccia se non possiamo depositarli, convertirli in valute pregiate o usarli per operazioni internazionali. E questo blocca tutto: crediti, stipendi, pagamenti esterni»

Hisham Darwish, direttore di banca a Nablus

Le banche palestinesi, private della possibilità di depositare i contanti presso le banche israeliane, si ritrovano con montagne di shekel che non possono essere riconvertiti in valute più forti, come i dinari giordani, gli euro e i dollari richiesti per non poche operazioni commerciali in Cisgiordania e per l’import ed export. È una ulteriore dimostrazione delle conseguenze delle restrizioni all’economia palestinese incluse negli Accordi di Parigi del 1994 che regolano le relazioni economiche tra Israele e l’Autorità nazionale (Anp) di Abu Mazen e hanno imposto che i palestinesi non abbiamo una loro valuta.

L’Autorità monetaria palestinese (Pma, embrione della Banca centrale palestinese che non è mai nata) avverte che il volume del contante accumulato ha superato da tempo la soglia di 6 miliardi di shekel (oltre 1,5 miliardi di euro), una cifra ingestibile dagli istituti credito locali. Propone inoltre di digitalizzare sempre di più i pagamenti, di diversificare le valute in circolazione e di rafforzare il ricorso al dinaro giordano, che è quasi scomparso. L’unico modo per procurarselo però è andare al mercato nero o rivolgersi ad usurai che cambiano gli shekel in valute straniere, trattenendo una «commissione» del 15-20%.

«Avevo bisogno di pagare una fornitura in Giordania e ho dovuto rivolgermi a un mediatore privato che mi ha cambiato gli shekel in dinari, ma con una commissione del 12%. È assurdo, siamo costretti a lavorare come nel contrabbando, illegalmente», racconta Mazen Abu Khadra, proprietario di un magazzino di elettrodomestici a Hebron.

Il fenomeno dei «mediatori» – individui o gruppi che cambiano gli shekel aggirando i canali bancari – è in espansione. Operano tra Ramallah, Gerico e Gerusalemme Est, senza alcuna regolamentazione e controllo da parte dell’Anp. Nour Jaber, proprietario di negozio nei pressi di Salfit (Nablus), racconta «Vendo abiti nella zona di Ramallah, gli affari andavano bene, ma da diversi mesi i miei fornitori mi chiedono dollari, non vogliono più essere pagati in shekel. Sono stata costretta a rivolgermi a un cambiavalute privato e ho perso quasi 1.000 shekel (circa 250 euro) in commissioni in un mese», ha riferito.

Gli economisti palestinesi denunciano misure punitive israeliane mascherate da esigenze normative che mirano a soffocare l’Anp. «È un’arma silenziosa», sostiene Rula Sabatin, economista e consulente di organizzazioni internazionali. «Israele – aggiunge – non ha bisogno di bombardare, come fa a Gaza, per far crollare tutto qui in Cisgiordania, a cominciare dalla nostra economia. Basta impedire il trasferimento di valuta, e il sistema si blocca. E quando si blocca il sistema bancario, si ferma tutto: investimenti, stipendi pubblici, commercio, fiducia».

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