FOIBE, ANTIDOTI AL CORTOCIRCUITO TRA I FATTI DELLA STORIA E IL LORO USO STRUMENTALE da IL MANIFESTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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FOIBE, ANTIDOTI AL CORTOCIRCUITO TRA I FATTI DELLA STORIA E IL LORO USO STRUMENTALE da IL MANIFESTO

Foibe, antidoti al cortocircuito tra i fatti della storia e il loro uso strumentale

NOVECENTO Anticipiamo uno stralcio dal volume «Capire le foibe», disponibile da oggi in libreria per le edizioni Capricorno. La foiba è squarcio fisico, geologico che si trasforma in una fenditura che annulla chi vi viene precipitato

Claudio Vercelli  07/02/2025

Linguaggi e numeri, ancora una volta, non sono neutri: indicano e veicolano un messaggio, quantomeno implicito. La parola «foiba» ha assunto una valenza politica, ovvero annovera in sé un insieme di eventi, di fatti, di gesti, ma anche di idee e di convincimenti che vanno al di là dell’oggetto fisico, naturale – e dei fenomeni storici a esso correlati – per fare propri significati e valenze eccedenti i semplici riscontri di fatto. Seguendo percorsi orientati alla polemica e all’uso pubblico, in chiave polemica, di frammenti del passato.
Va ripetuto che:

«Per le popolazioni slovene (e croate) del retroterra triestino (e istriano) la foiba (…) è il luogo in cui si usava gettare ciò che non serviva più e di cui era difficile liberarsi altrimenti: carcasse di animali, vecchie suppellettili e così via, in tempo di guerra anche caduti in azioni militari, da togliere di mezzo con rapidità. Gettare un uomo in una foiba significava quindi trattarlo alla stregua di un rifiuto; ne consegue che il termine foiba implica un rovesciamento totale di valori» (Giampaolo Valdevit, Foibe. Il peso del passato. Venezia Giulia 1943-1945, a cura di Isrml Fvg, Marsilio 1997)

RIFIUTI, SCARTI. È il sovvertimento dei valori che si compie attraverso il ribaltamento dei corpi nell’inghiottitoio. Laddove chi dovrebbe stare sopra, con i piedi ben piantati sulla terra, viene gettato di sotto. Un «di sotto» che divora, quasi avesse le fauci, come un orco, l’immondizia vivente o, alternativamente, quelli che erano stati esseri umani. Da qui bisogna ripartire, al netto dei giudizi politici che, altrimenti, coprono non solo tutto, ma tutti. Quei tutti che furono parte di un carnaio. Spesso innocenti, in qualche caso colpevoli di qualcosa.

«Nel ricordo (…) l’immagine che copre la sorte di tutti gli scomparsi dall’autunno del 1943 fino ai primi anni Cinquanta in Istria, è una sola: è quella della morte orrenda in una voragine della terra, che diventa la rappresentazione stessa di una violenza oscura e barbarica, sempre incombente come potenziale destino di un’intera comunità». (Raoul Pupo, Il lungo esodo. Istria, le persecuzioni, le foibe, l’esilio, Rizzoli 2005)

La foiba è uno squarcio fisico, geologico che si trasforma in una fenditura che annulla chi vi viene precipitato. Ne cancella l’esistenza, ne azzera la memoria.
«È questo lo scenario che favorisce il depositarsi degli eventi nella memoria storica locale. Esso si delinea in modo fulmineo e si deposita immediatamente: la maggior parte degli infoibamenti si verifica nei primi giorni di maggio. È una sciabolata di luce intensa che illumina per un momento la realtà: ha l’effetto di uno svelamento». (G. Valdevit)

Poiché ciò che fino a quel tale momento era rimasto rimosso, sottaciuto, traslato e sublimato in seguito esplode. Non ci sono più i «grandi contenitori» degli eserciti in lotta, ma le spoglie di un bottino da dividersi. Una guerra finisce, la somma dei rancori covati si rinnova in uno scontro sui confini incerti, geografici ma anche simbolici (Italia e Jugoslavia; fascisti e antifascisti; nazisti e slavi; italiani, sloveni e croati; città e campagna; Oriente e Occidente; comunisti e anticomunisti; civili e militari; colpevoli e innocenti, e altro ancora), il conflitto guerreggiato si trasforma in resa dei conti e il terreno conteso diventa il territorio dove si perviene al brutale regolamento di quanto è rimasto fino ad allora in sospeso. Le foibe sono parte del territorio e come tali si adattano alla destinazione che di esse viene fatta. Poiché la guerra è conclusa, ma non i conflitti tra gli individui ancora in lotta, dallo scontro in campo aperto si passa allora a una rivalsa tanto silenziosa quanto implacabile.

LE PERSONE devono «sparire»: se la guerra non può più essere condotta sui campi di battaglia, ci si adopera per trovare luoghi, più appartati, dove proseguirla. Soprattutto dove gettare le spoglie di parte dei vinti – così come della loro stessa storia. Le foibe risucchiano uomini, esistenze, ma anche passioni, risentimenti e memorie. O, quantomeno, è questo che rimane nella percezione diffusa nella comunità locale, quella che si elabora come «vinta», gli italiani ormai «ex» di tutto: ex fascisti, ex filonazisti, ex antifascisti, ex giuliani, perché quasi tutti prossimi all’espulsione o comunque all’abbandono delle loro stesse terre.
«Da qui nascono due interpretazioni, alla luce delle quali la memoria storica legge, e leggerà a lungo, tali vicende. Si tratta di interpretazioni radicalmente contrapposte: da un lato la distruzione di tutto ciò che è civiltà, e quindi Italia (perché tradizionalmente la cultura dominante cittadina ha identificato Italia con civiltà), l’atto finale di quello che viene considerato come un assedio, iniziato l’8 settembre quando non prima; dall’altro la manifestazione fulminea della giustizia antifascista, espressione rivoluzionaria nel senso più pieno del termine». (G. Valdevit)
Occorre allora cogliere il contesto storico di lungo periodo per meglio comprendere il merito della vicenda in sé, ma anche della querelle sulla memoria che da tempo ha accesso la miccia della polemica politica, alimentandone poi la fiamma.

«Quando noi oggi in sede storiografica parliamo di foibe, dobbiamo tenere presenti contemporaneamente entrambe le dimensioni – quella dei fatti e quella della memoria – il cui intreccio assume una caratteristica abbastanza significativa: e ciò in quanto il secondo elemento – quello appunto della memoria e della sua rielaborazione – ha seguito per lungo tempo itinerari propri, largamente dipendenti da istanze di natura polemico-politica, fino a consolidarsi come uno dei nuclei fondanti e tuttora operanti della consapevolezza storica della comunità giuliana, sostanzialmente negli stessi termini in cui si è strutturato a cavallo degli anni Cinquanta». (R. Pupo)

LE FOIBE RICHIAMANO quindi un elemento di alta evocatività, che va al di là dei fatti storici in quanto tali. Sono, nel medesimo tempo, l’esito di un dramma collettivo e la rappresentazione simbolica di una terra che letteralmente si apre ai piedi dei suoi figli, ingoiandoli. Una terra antropofaga, che divora gli uomini e le donne. Nella percezione comune della società giuliana questo dato sopravanza l’elemento storico in sé, ne diventa la cornice assoluta, il contenitore definitivo, ciò da cui partire e su cui tornare. Le ricostruzioni delle giornate del 1943 e del 1945 si soffermano più volte su quest’ultimo aspetto, dilatandolo oltre le effettive proporzioni quantitative che lo connotarono.
L’associazione tra le foibe, come luoghi di «martirio» e di soppressione della memoria delle vittime, e l’idea che i morti siano molti di più di quelli censiti per riscontro empirico o attribuiti per deduzione, induce ancor oggi, in quanti sono titolari diretti o per via familiare del ricordo di quei fatti, un’immediata reazione nei confronti di qualsivoglia obiezione nel merito dei numeri e dei significati da attribuire a essi. Numeri che la ricerca storica, come già si è visto, dimensiona a soglie di un certo tipo, mentre quella che è ormai una consolidata mitografia pubblicistica, ripresa da parte dei mass-media, proporziona ad altri livelli, a volte ben più corposi. Non è un caso se è proprio in questo cortocircuito tra esperienza, riscontri e convincimenti, che si è inserito chi del ricordo fa un uso politico, seguendo un’ottica di rivalsa e di compensazione rispetto ad altri crimini.

Per essere molto chiari: se nell’Alto Adriatico vi fu un genocidio, questo non riguardò né gli italiani né le comunità slave. Non almeno gli uni e le altre in quanto tali. Sottomissione, persecuzione, repressione, neutralizzazione e annientamento delle élite, sradicamento così come anche il susseguirsi di azioni criminali contro una «nazionalità», in genere con l’obiettivo di ridimensionarne la presenza politica, culturale e magari causarne l’esodo, sono delitti di guerra, violenze sistematiche e generalizzate, crimini ascrivibili allo scatenamento di guerre civili in base a un preciso piano, politicamente preordinato.
Al pari di molto altro ancora. Tuttavia, una tale prassi non può generalizzarsi in gratuite indistinzioni ed essere quindi interpretata come attività di genocidio. Poiché quest’ultima presuppone la distruzione totale (o anche parziale, ma all’interno di un progetto unitario che intende cancellarne del tutto l’esistenza dalla faccia della Terra, prima o poi) di un gruppo umano, in genere quasi sempre definito in chiave meramente etno-razzista.

SE QUALCOSA DI SIMILE avvenne nell’Alto Adriatico, durante gli anni della guerra, riguardò soltanto gli ebrei, a prescindere dalla loro nazionalità d’origine. Non c’è nulla di più odioso e astioso dell’avviare una sorta di conflitto sulla memoria delle vittime delle diverse tragedie del Novecento, stabilendo una gerarchia del dolore. Non è così che si possono affrontare i nodi storiografici della nostra contemporaneità. Non c’è chi viene prima così come non c’è chi arriva dopo. Anche cercare di gonfiare i numeri, quando lo si vada facendo, non dà maggiore tangibilità (e credibilità) a quanto si intenda sostenere. Non di meno, è inaccettabile parificare non il ricordo delle vittime, ma i diversi contesti storici in cui la degenerazione dei rapporti tra società portò alla guerra e all’eliminazione fisica di una parte della loro popolazione. Se i morti si equivalgono da un punto di vista etico, demandano semmai alla pietà nei confronti della loro memoria, le circostanze, i criteri, i modi e le «ragioni» per cui sono stati uccisi non sono particolari di secondaria rilevanza.

Quanto meno per i vivi. Non c’è mai nulla da giustificare di quel che avvenne. Sarebbe di per sé un esercizio tanto illusorio quanto aberrante. Semmai – ed è il nocciolo dell’agire storico come dell’azione storiografica – si tratta di identificare e cogliere il contesto epocale in cui le tragedie si consumano. Solo da ciò – che non è mai una concessione ideologica, ma piuttosto il risultato di una concezione analitica e il prodotto di un’indagine che è anche logica (dove si fa storia attraverso l’identificazione progressiva di concatenazioni di significati condivisibili) – si può desumere il senso di quello che fu. Posto che quest’ultimo vale per i contemporanei, ossia per ognuno di noi. La storia non è un manganello da dare in testa a qualcuno, per intendersi.

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