EFFETTO CLIMA A CASCATA. I PUNTI DI NON RITORNO da IL MANIFESTO e IL FATTO
Effetto clima a cascata, i punti di non ritorno
Riscaldamento climatico A pochi giorni dalla Cop30 in Brasile, le ultime ricerche di 160 scienziati di 23 paesi nel Global Tipping Point 2025 sul riscaldamento climatico: «Bisogna agire subito»
Marinella Correggia 23/10/2025
Siamo davvero vicini a una «nuova realtà» nella quale diversi elementi chiave nel sistema clima minacciano di entrare in uno stato, irreversibile, che farebbe correre «rischi catastrofici a miliardi di persone»?
PER IL RAPPORTO Global Tipping Points 2025, il punto interrogativo non si pone: gli autori, 160 scienziati di 23 paesi, coordinati da Timothy Lenton dell’università di Exeter nel Regno unito, ritengono che «ai livelli attuali del riscaldamento globale, il rischio che si attivino processi di non ritorno esiste e aumenta per ogni 0,1°C in più e per ogni anno di superamento dell’obiettivo generale di 1,5°C». Un superamento non temporaneo potrebbe essere davvero la goccia di troppo e avviare, spiega Lenton, «il mondo verso una pericolosa escalation». Non sufficientemente percepita: le matrici convenzionali sono inappropriate per l’analisi delle soglie di non ritorno, le quali presentano incertezze, rispondono a dinamiche non lineari e prospettano effetti a cascata.
L’INTERCONNESSIONE, infatti, è una loro caratteristica. In particolare, il superamento del punto di non ritorno per la Circolazione meridionale atlantica o Amoc (che ha un ruolo cruciale negli scambi di calore fra oceano e atmosfera) o per il collegato Vortice sub-polare potrebbe provocare, fra l’altro, una (ulteriore) destabilizzazione della calotta glaciale dell’Antartide occidentale, la perturbazione del fenomeno El Niño nel Pacifico (che a sua volta avrebbe un impatto sulla foresta amazzonica), inverni più freddi nell’Europa nordoccidentale, ma anche sconvolgimento del monsone dell’Africa occidentale, riduzione dei raccolti agricoli, mutamenti negli ecosistemi marini. Su questo tipping point l’incertezza è enorme; prevenirlo, tuttavia, dovrebbe essere un «obiettivo di governance di primaria importanza», imponendo di accelerare la mitigazione globale per minimizzare il rischio.
LE BARRIERE CORALLINE nelle acque tropicali, fondamentali per la vita marina, sembrerebbero aver raggiunto per prime il loro punto di non ritorno, che i ricercatori del rapporto 2025 collocano – stima centrale – intorno a 1,2°C di riscaldamento globale: già superati. Il riscaldamento delle acque oceaniche ha provocato nel 2024-2025 il peggiore episodio di sbiancamento dei coralli. Secondo Global Tipping Points 2025, la soglia termica più elevata per le barriere coralline è intorno a 1,5°C di riscaldamento globale, l’obiettivo dell’Accordo di Parigi. Per mantenerle in funzione su una scala significativa occorrerebbe tornare a 1°C sopra il livello preindustriale (missione impossibile?). Ma anche minimizzare gli altri fattori di stress potrebbe essere di grande aiuto per la sopravvivenza delle barriere.
LA FORESTA AMAZZONICA, colpita dal riscaldamento globale, da siccità intense e dalla deforestazione, potrebbe – già al di sotto dei +2°C – entrare in un circolo vizioso capace di trasformarne buona parte in un ecosistema alterato e savanizzato. Con le ovvie ripercussioni sulla regolazione globale del clima, con un’accelerazione della perdita di biodiversità e con punti di non ritorno sociali e culturali. I ricercatori tirano le orecchie ai governi amazzonici: mentre le aree protette e i territori indigeni mostrano resilienza rispetto al collasso ecosistemico e mantengono un forte potenziale di mitigazione climatica, le sofferenti foreste pubbliche sono la spia di una governance debole. Fermare il degrado e assicurare la resilienza sociale ed ecologica è possibile, con un’azione policentrica e ingenti investimenti finanziari anche per il ripristino dei territori e il sostegno alle comunità indigene. Imprescindibile – ma molto difficile alla prova dei fatti – la protezione legale delle foreste tropicali.
DUE SISTEMI ALTAMENTE VULNERABILI sono la calotta glaciale dell’Antartide occidentale e quella della Groenlandia: una volta raggiunto il punto di non ritorno, il collasso andrebbe avanti indefinitamente, alzando di diversi metri il livello dei mari. Le vulnerabilità regionali ai punti di non ritorno del sistema Terra rivelano una grande diseguaglianza, anche se tutte le regioni sono minacciate. Spiega lo studio: «Il rischio per il maggior numero di persone (tre miliardi) è legato allo sconvolgimento del sistema monsonico, seguito dalla perdita dei ghiacci, dal collasso dell’Amoc e dal degrado della barriera corallina».
I PUNTI DI NON RITORNO CRITICI per le piccole isole Stato e l’Asia dell’Est riguardano la perdita delle calotte glaciali; per l’Asia del Sud, del Sud-Est e l’America Centrale lo sconvolgimento dei monsoni; per l’Africa occidentale il collasso dell’Amoc (che colpirebbe anche Europa del Nord-Ovest e America del Nord-Est), per l’Asia del Nord lo scioglimento del permafrost, per l’Amazzonia il degrado della foresta. Le aree più impreparate si rivelano le isole Stato, l’Africa occidentale, l’America centrale e il bacino amazzonico.
AGIRE ORA: I CLIMATOLOGI INVOCANO cambiamenti strutturali e radicali, sia per affrontare i rischi più certi legati ai cambiamenti climatici (quelli trattati nei rapporti del Gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici – Ipcc) sia per anticipare, prima che sia troppo tardi, quelli più gravi ma incerti dei tipping points, la cui caratteristica essenziale è l’irreversibilità. Anche «in nome dalla giustizia intergenerazionale, intragenerazionale e intraspecie» (così si esprime il rapporto), è indispensabile minimizzare la misura e la durata del superamento del limite di +1,5°C e poi tornare al di sotto. A questo scopo, le emissioni antropogeniche vanno dimezzate entro il 2030 rispetto ai livelli del 2010, per poi arrivare entro il 2050 al net-zero (un concetto tuttavia problematico). Gli attuali impegni nazionali di riduzione (Ndc) non sono sufficienti perché porterebbero a superare i 2°C.
QUALI GLI ATTORI DEL CAMBIAMENTO? Tutti. Organismi internazionali, Stati, istituzioni locali, società civile, comunità indigene, individui. Introducendo il rapporto, André Aranha Correa do Lago, presidente della Trentesima conferenza delle parti sui cambiamenti cimatici (Cop30) che si terrà a Belém in Brasile nel mese di novembre, sottolinea le soluzioni possibili, sia con la mobilitazione collettiva di tutte le nazioni e comunità, partendo dal basso (Global mutirão) che con l’Agenda per l’azione, un «granaio di soluzioni concrete», replicabili, in linea con l’Accordo di Parigi e con l’equità socio-climatica. Sei gli assi principali: foreste, sistemi alimentari, energia, città, finanza, tecnologia. Con il necessario ottimismo, il rapporto si sofferma sui tipping points positivi.
I PUNTI DI NON RITORNO POSITIVI sono i cambiamenti sistemici verso uno stato sostenibile. Il rapporto 2025 ne indica diversi. Accelerare la decarbonizzazione (con la rapida fuoriuscita dai combustibili fossili), mitigare rapidamente le emissioni di metano e di altri gas di breve durata in atmosfera, rigenerare la natura, incentivare i sistemi di rimozione del carbonio – ma per altri si tratta di una falsa soluzione. La trasformazione dei settori dell’energia e della mobilità è in corso e può essere accelerata. Aiutano i passi avanti della tecnologia e il calo dei prezzi per fotovoltaico e batterie. L’elettrificazione dei trasporti, del riscaldamento e dell’industria riduce le emissioni e stimola gli investimenti. Importante attuare politiche dei prezzi adatte e garantire la co-adozione di strategie complementari.
QUANTO AI PRODOTTI AGRICOLI E ALIMENTARI, i punti di non ritorno positivi per mettere fine alla deforestazione e allo sconvolgimento degli ecosistemi e ridurre l’impatto climatico si articolano in azioni politiche, normative, di mercato e finanziarie, sul lato della domanda e dell’offerta. Uno dei messaggi chiave riguarda le alternative proteiche vegetali, nelle quali investire come leva di cambiamento. E non a caso: da una recente analisi di Greenpeace International (Roasting the Planet: Big Meat Dairy’s big) risulta che le maggiori aziende mondiali di carne e latticini generano oltre un miliardo di tonnellate di gas serra all’anno.
Trattato di non-proliferazione fossile, è avvenuto qualcosa di epocale
Andrea Di Turi 20 Ottobre 2025
Iniziamo a concentrarci sul vero nemico del clima, cioè chi produce i combustibili fossili e fa di tutto perché prosegua il più possibile la dipendenza patologica
Ci hanno sempre detto che era colpa nostra. Dei consumatori. Siamo noi che dovremmo fare scelte diverse per orientare il mercato in senso più equo, sostenibile, sociale, ambientale.
Ma è un trucco. Vecchio di almeno cinquant’anni. Da quando negli Usa passava in televisione lo spot “The Crying Indian”: l’industria degli imballaggi e delle bevande usa e getta cercava di deviare l’attenzione dalle proprie responsabilità per l’inquinamento da plastica, spostando il fardello sulle spalle dei consumatori.
È una strategia narrativa che oggi torna con la crisi climatica. L’ha analizzata, e smontata, nel libro La nuova guerra del clima il climate scientist Michael E. Mann, uno dei climatologi più famosi al mondo, impegnato da anni nella lotta alla disinformazione climatica. A fine anni 90 elaborò il grafico divenuto celebre come “the hockey stick” sull’aumento delle temperature medie globali, uno dei grafici più influenti nella storia della divulgazione scientifica sul clima, poi ripreso nei report di IPCC.
La strategia oggi è utilizzata da BigOil per spostare le responsabilità della crisi climatica sui consumatori. Per evitare che si guardi a chi continua a perforare e trivellare a tutto spiano. Come se tutti non sapessero che la fine delle fossili non è più una questione di se, ma di quando. Il recente record segnato dalle rinnovabili nel primo semestre di quest’anno, quando per la prima volta hanno superato il carbone nella produzione di energia elettrica globale, basta da solo a far capire in quale direzione sta andando il mondo.
Il problema è che si va troppo piano. Proprio perché BigOil è molto potente e usa ogni arma per procrastinare l’inevitabile fine delle fossili. Fregandosene altamente se gli scienziati, in quello che è solo il più recente di una sfilza infinita di allarmi, hanno appena detto che il pianeta ha superato uno dei tipping point che non andavano superati, con le barriere coralline sbiancate e impoverite come mai prima a causa dell’aumento delle temperature delle acque oceaniche. BigOil vuole che si fischietti e si balli al suono dell’orchestrina sul Titanic. Mentre l’iceberg ci ha già speronato.
Per fortuna c’è chi ha ribaltato la questione, rimettendo il fardello dove è doverose che stia. Basta col “dagli all’untore!” verso i consumatori. Iniziamo invece a concentrarci sul vero nemico del clima, cioè chi produce i combustibili fossili e fa di tutto perché prosegua il più possibile la dipendenza patologica dalle fossili del modello di sviluppo. Guardiamo all’offerta dei combustibili fossili. E agiamo per ridurla e progressivamente eliminarla. ASAP!
A portare questo discorso a un livello di attenzione globale è stata l’iniziativa per un Trattato Internazionale di Non-Proliferazione dei Combustibili Fossili, Fossil fuel Treaty per gli amici. Ne abbiamo parlato altre volte su questo blog ma ne riparliamo perché in questi giorni è avvenuto qualcosa di epocale. Anche se “i grandi media mainstream” (sic!) non c’hanno fatto caso, come quasi sempre accade quando c’è qualcosa che può dar fastidio a BigOil, che fra le altre cose è anche un big spender in pubblicità.
È successo questo. Il contesto era quello del Congresso mondiale dell’Unione internazionale per la conservazione della natura (IUCN) – non proprio quattro amici al bar – che si è svolto dal 9 al 15 ottobre ad Abu Dhabi. Con la partecipazione di governi, scienziati, organizzazioni ambientaliste, rappresentanti di popoli indigeni.
I delegati hanno approvato una serie di mozioni, fra cui quella che accoglie con favore lo storico parere della Corte Internazionale di giustizia che a luglio ha chiarito che gli Stati sono obbligati a prevenire i danni derivanti dalla crisi climatica adottando azioni appropriate, anche riguardo alla produzione di fossili. I delegati in particolare hanno adottato in massa una mozione presentata dal WWF e sostenuta dal governo di Vanuatu, lo stesso che all’Assemblea Generale dell’Onu due anni fa fu il primo a lanciare l’appello per il Fossil fuel Treaty, che è sostenuto anche dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e dal Parlamento europeo. Mentre in Italia da oltre due anni nessun’altra città si è aggiunta a Torino, Pontassieve e Roma, le uniche finora ad aderire: non sarebbe male che qualcun’altra si desse una svegliata.
Ebbene, questa mozione riconosce la produzione di combustibili fossili come minaccia diretta alla natura, spostando cioè il focus dalla domanda all’offerta. Chiede di avviare l’analisi e valutazione del gap esistente nella governance mondiale riguardo a offerta di combustibili fossili e transizione ecologia. E di considerare, fra gli strumenti utilizzabili allo scopo, proprio il Fossil fuel Treaty. Un gap che in realtà è una voragine, se solo si pensa che il Fondo Monetario Internazionale – non esattamente un covo di estremisti – ha calcolato che i sussidi all’industria fossile fluiscono impetuosi al ritmo di 11 milioni di dollari al minuto. Ancora, la mozione chiede lo stop a nuovi progetti fossili; e chiede agli Stati che ospitano la foresta amazzonica (poco meno di una decina) di dichiarare una “zona di non proliferazione dei combustibili fossili” vietandone l’esplorazione e l’estrazione.
Non era mai successo prima che un testo del genere venisse approvato nell’ambito di organismi che fanno parte del sistema multilaterale globale. Con un linguaggio così netto e forte, poi. Il che vuol dire che da qui non si tornerà più indietro. Anche se già mi pare di sentirli: “Ma cosa volete che cambi ‘sta mozione?”, diranno i soliti sappiamo-noi-come-va-il-mondo. Ok, staremo a vedere, il tempo è galantuomo.
Intanto la Colombia, il più importante insieme al Pakistan dei 17 Stati formalmente impegnati nello sviluppo del Fossil fuel Treaty, ha annunciato che ad aprile 2026 ospiterà la Prima Conferenza Internazionale per l’Eliminazione dei Combustibili Fossili. Anche qui è appunto la prima volta. “It always seems impossible, until it’s done”.
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