COME TRAPIANTARE LA GUERRA NELLA TESTA DEGLI ADOLESCENTI da IL FATTO
Come trapiantare la guerra nella testa degli adolescenti
Simona Ruffino 15 Dicembre 2025
Ci stanno preparando al conflitto: non con le divise in piazza, ma con i sondaggi a scuola e con le curve della spesa militare date per inevitabili
Ci stanno preparando alla guerra. Non con le divise in piazza, ma con i questionari a scuola e le curve della spesa militare date per inevitabili. La guerra che la Costituzione ci impone di ripudiare rientra dalla porta di servizio, ribattezzata sicurezza, educazione civica, responsabilità. Addolcendo il lessico si interviene su ciò che abbiamo di più vulnerabile: il nostro immaginario.
Negli ultimi mesi la destra di governo ha rimesso al centro l’idea di leva. Alla Camera è fermo il disegno di legge della Lega che prevede sei mesi obbligatori di servizio militare o civile per i giovani tra i 18 e i 26 anni; Matteo Salvini l’ha definita una “grande forma di educazione civica”. Intanto il ministro della Difesa Guido Crosetto prepara un ddl per istituire una riserva militare volontaria di diecimila persone, addestrate e richiamabili “in caso di necessità”.
Sul piano economico il copione è lo stesso. Nel 2025 l’Italia ha annunciato di aver raggiunto il 2% del Pil in spesa per la Difesa, non solo aumentando gli stanziamenti ma anche spostando sotto il cappello militare altre voci di bilancio. In giugno, al vertice Nato dell’Aia i Paesi alleati hanno poi siglato un impegno ulteriore: arrivare entro il 2035 a destinare fino al 5% del Pil a difesa e “sicurezza”. È un cambio di paradigma.
Dentro questo scenario arriva l’ultima tessera, più discreta ma non meno rivelatrice. L’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza ha lanciato una consultazione “Guerra e conflitti”, un questionario online rivolto ai ragazzi. Fra le domande ce n’è una che spicca: “Se il mio Paese entrasse in guerra mi sentirei responsabile e se servisse mi arruolerei”. Ai partecipanti viene chiesto quanto siano d’accordo. I primi risultati dicono che il 68% degli adolescenti non sarebbe disposto ad arruolarsi in caso di guerra. È un dato confortante. Ma non si può ignorare l’effetto simbolico di quella domanda che entra nella testa a tredici, quattordici, quindici anni.
Quando chiedi a un adolescente “tu andresti in guerra?”, non stai solo misurando un’opinione: stai accoppiando guerra e responsabilità personale, normalizzando l’idea che arruolarsi “se serve” sia uno degli scenari possibili, quasi un criterio di maturità civica. È lo stesso schema dei discorsi sulla leva come occasione di crescita, disciplina, identità nazionale. Cambia la forma, resta il messaggio: il buon cittadino è quello che, quando arriva il momento, risponde presente.
Qui entra in gioco il lavoro sul cervello. Ci stanno addestrando a pensare la guerra, a renderla normale. La parola guerra esce sempre meno: si parla di “nuovo contesto di sicurezza”, di “crisi”, di “impegni internazionali”, di “difesa comune”. Non si parla di leva, ma di “riserva ausiliaria”, di “opportunità per i giovani”, di “servizio per la comunità”. Ogni eufemismo abbassa di poco la soglia di allarme dell’amigdala, l’area che registra il pericolo: ciò che fino a ieri evocava solo morte e distruzione oggi viene presentato come dovere morale, passaggio educativo, tappa di crescita.
In parallelo la paura viene alimentata come rumore di fondo. Il mondo è instabile, l’Europa è minacciata, siamo circondati da nemici dichiarati o potenziali. In un ambiente così saturo di allarmi il cervello tende a scegliere la risposta che promette più protezione, anche a costo di rinunce su diritti e libertà. L’articolo 11 della Costituzione afferma che “l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Ripudiare non è regolamentare, non è razionalizzare, non è gestire: è prendere le distanze, rifiutare la guerra come opzione legittima.
La destra di Meloni non ha bisogno di proclamare apertamente che la guerra è un valore. Le basta farla tornare un orizzonte pensabile e accettabile per chi cerca identità. Questo è il lavoro di “rieducazione cognitiva” che scorre sottotraccia: agire sul linguaggio per ridurre la paura, usare la paura per sospendere il dissenso, spostare miliardi verso gli armamenti facendoli passare per obbligo tecnico, trasformare in questione statistica ciò che dovrebbe restare un tabù civile.
Quando la guerra smette di essere un’oscenità impronunciabile e diventa un’opzione educativa, un indicatore di maturità, un marchio di buona cittadinanza, il ripudio costituzionale è già stato aggirato. Il compito di chi fa informazione, educazione, comunicazione è accorgersene prima che sia troppo tardi e restituire al Paese la domanda che nessun questionario sembra voler porre davvero: non “tu andresti in guerra?”, ma “che cosa sei disposto a sacrificare pur di non arrivarci mai?”. Perché questa ingegneria cognitiva che normalizza la guerra è un abuso sulla mente collettiva, e la pagheremo in generazioni rieducate alla violenza, in risorse sottratte alla scuola e alla sanità, in una politica sempre più assuefatta alla morte.
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