Il partito nuovo e il vecchio linguaggio
di Enzo SCANDURRA –
Leggo dalla stampa (“il manifesto” del 15 gennaio) che, in occasione del congresso di Sinistra Italiana che si terrà a Rimini, alcuni parlamentari ex SEL hanno scritto, ad altri che entrerebbero nella nuova formazione, di abbassare i toni dello scontro politico: «La cultura dell’intolleranza è incompatibile con il progetto politico che insieme stiamo animando». Quale che ne sia stata la ragione, è un’espressione da non sottovalutare e bene ha fatto “il manifesto” a citarla in vista di uno scontro che potrebbe avvelenare l’atmosfera del congresso fondativo, tanto quanto le diversità dei contenuti e della linea politica.
Se molte persone, e tra queste, molti giovani, avvertono la politica come un luogo estraneo ai loro problemi, questo avviene anche, o soprattutto, per il linguaggio utilizzato e per le forme dello stare insieme dei partiti tradizionali (quali che siano).
C’è violenza nella politica: una violenza (verbale, di rapporti, di relazioni) che respinge chi pensa ad essa come il mettersi insieme per risolvere i problemi comuni. Il messaggio di un mondo nuovo, o almeno diverso dall’attuale (meno ingiustizie, meno disuguaglianze, più occasioni di studio come conoscenza critica, più occasioni di lavoro vero, eccetera), esige un nuovo e adeguato linguaggio che non è solo questione di forma, ma di relazioni, di emozioni, di passioni che aspettano da anni di essere accolte e valorizzate: il vero rimosso della politica.
Un Partito deve anche assolvere una funzione pedagogica, ricreare una cultura del vivere insieme, rifondare un linguaggio per la democrazia (così come era nei propositi di Tullio De Mauro), altrimenti i giovani saranno attratti dalle semplificazioni (anche e non solo) dei Cinque Stelle, dalla loro grinta aggressiva e falsamente contestataria dei poteri dominanti.
Purtroppo vale anche per i giovani la legge di Gresham, il banchiere inglese che sosteneva l’assunto che la moneta cattiva scaccia sempre quella buona. Fine e mezzi non sono separabili: se il fine è giusto allora anche i mezzi per raggiungerlo devono essere autentici, sani; non si può bleffare con chi attende o lavora da anni per un vero cambiamento.
Credo che parte del successo ottenuto da Pisapia a Sindaco di Milano sia dovuto al suo carattere mite, di gentiluomo di altri tempi. Ricorderete il dibattito finale tra lui e la candidata Letizia Moratti in televisione: quando stavano ormai per scadere i tempi, Moratti – sapendo che il suo avversario non avrebbe potuto replicare per mancanza di tempo –, tirò fuori una vecchia e archiviata questione di un procedimento penale a carico del futuro sindaco. Il sentimento di stupore si disegnò sul viso di Pisapia, prima ancora che di indignazione. Moratti dovette successivamente chiedere scusa; ma, tutto sommato, non aveva fatto altro che ricorrere alle vecchie tecniche della politica (e della boxe): colpire dove l’avversario sanguina per decretarne il KO tecnico, legittimo o meno che sia il gesto (e in questo caso addirittura falso).
Nel suo recente libro, Passione politica, Paul Ginsborg (insieme a Sergio Labate), si chiede: «Quanti tentativi di costruzione di soggetti collettivi sono stati vanificati da un vizio passionale, un eccesso di egoismo o d’arroganza Molto più che per motivi ideali, il loro insuccesso è spesso causato da una competizione fra primedonne […] e da una diffidenza astuta esercitata anche nei confronti dei propri compagni, che spesso finisce per trasformare la necessaria condivisione in inimicizia. Come se pretendessimo di contestare l’ordine del neoliberismo usando le sue armi più efficaci».
La lezione femminista con la sua solidarietà di genere, non è mai entrata nella pratica politica diffusa, dove il modello machista e guappista di De Luca miete successo. Dal canto suo, il condottiero Renzi, dopo una istantanea, quanto astuta e opportunistica, pausa, torna alla carica riconoscendo «qualche errore» (“la Repubblica” del 15 gennaio): «Brucia, eccome se brucia. Tanto che il vero dubbio [durato l’arco di qualche giorno, n.d.A.] è stato se continuare o lasciare. Ma poi uno ritrova la voglia di ripartire».
Vecchia astuzia politica anche questa che traspare (tra gli altri vizi) nella continuità di aggressione al sindacato («usano anche loro i voucher») e in tutto l’articolo. Nessuna autocritica, nessun pentimento, nessun lutto, se non il rimpianto di non essere stato così furbo all’altezza della situazione. Perché la furbizia sembra essere la dote del politico nuovo, quello che, privo di idee e visioni (in altri tempi avremmo detto di ideologia), si muove con scaltrezza tra le insidie del Palazzo come una volpe nel pollaio.
Allora nel nuovo statuto del partito nascente – Sinistra Italiana – quei nuovi contenuti che molti aspettano, dovrebbero essere espressi e spiegati con parole nuove come: mitezza, umiltà, dialogo, solidarietà, e, perfino, direi, amore e rispetto per l’altro: l’avversario, che sempre è portatore di una qualche ragione con la quale vale la pena di confrontarsi e dalla quale si può sempre imparare qualcosa.
[l’articolo è stato pubblicato su “il manifesto” il 17 gennaio 2017]
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