L’INFLAZIONE CHE MASCHERA LA MELONI da IL MANIFESTO e IL FATTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
Cultura, Saperi, Università, Dialogo
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L’INFLAZIONE CHE MASCHERA LA MELONI da IL MANIFESTO e IL FATTO

L’inflazione che maschera la Meloni

Marco Bertorello, Danilo Corradi  15/11/2025

Il governo Meloni è al varo della sua quarta finanziaria, dunque è possibile cominciare a fare un primo bilancio della sua politica economica. Iniziamo dai risultati sbandierati come vittorie: nel 2024 il rapporto debito/Pil si è ridotto fino a tre punti rispetto al 2022. Grazie anche a questo risultato, si è ridotto lo spread verso i titoli tedeschi. Ma attenzione, il debito è in rapida risalita: nel 2025 brucerà metà del recupero e nel 2026, secondo le previsioni FMI, lo azzererà. Non solo, i titoli decennali italiani pagano un tasso d’interesse ancora tra i più elevati d’Europa (3,4%), superiore a Grecia e Portogallo e superiore al livello raggiunto con il Governo Draghi.

In ragione della grandezza debitoria raggiunta, delle dimensioni dell’Italia e della tendenziale stagnazione della sua economia. La riduzione dello spread sembra derivare dall’aumento delle difficoltà degli altri paesi piuttosto che da una ritrovata salute dell’economia di Roma. Va aggiunto che altri paesi hanno risposto con maggiore spesa al ristagno della crescita, mentre la destra nostrana, dopo aver criticato Draghi, sta adottando una politica di austerity in assoluta continuità con le precedenti. La stabilità finanziaria, per quanto precaria, è stata ottenuta al prezzo di un’ulteriore compressione dei salari e di un aumento della pressione fiscale complessiva ottenute entrambe utilizzando la fiammata inflazionistica.

Dal 2022 al 2024 i prezzi sono aumentati circa del 17%, a questa impennata non è corrisposta una proporzionale rivalutazione degli stipendi. I dati sui salari sono impressionanti con una perdita del potere d’acquisto reale del 10%. Anche considerando gli interventi fiscali del Governo, la perdita netta è pari ad almeno una mensilità. L’inflazione ha mascherato la riduzione dei salari pubblici (e privati), ma anche la riduzione della spesa sanitaria, scolastica, sociale grazie alla non rivalutazione al costo reale della vita.

La propaganda del governo ha sottolineato la crescita nominale degli impieghi statali nei vari settori, sorvolando che questa crescita nominale in termini reali ha significato tagli senza precedenti recenti. Lo stesso meccanismo ha finito per aumentare la pressione fiscale, cresciuta solo nell’ultimo anno dell’1,2% attestando la pressione complessiva al 42,6% (superiore di 2,2 punti rispetto alla media UE). Se l’Iva e le imposte indirette hanno sostanzialmente seguito la crescita dei prezzi, la crescita dei redditi nominali, per quanto inferiore alla crescita dell’inflazione, ha incrementato l’imposizione fiscale perché la parte aggiuntiva dei redditi afferiva agli scaglioni più alti dell‘Irpef.

Risultato: la percentuale del reddito (svalutato dall’inflazione) che finiva nelle casse dello Stato era superiore a quella pre-impennata dei prezzi. Oltre il danno della perdita di potere d’acquisto, la beffa di pagare più tasse su redditi più bassi. Nome tecnico del fenomeno: Fiscal Drag. La finanziaria 2025 ha addirittura riservato la maggior parte dei pochi sgravi fiscali per i redditi più alti di 50.000 euro annui. Insomma, in tre anni la destra al governo avrebbe dovuto rompere con le politiche precedenti e invece le ha riproposte in modo ancora più radicale, sfruttando abilmente il fattore inflazione per mimetizzare una politica dei redditi all’insegna della diseguaglianza.

La perdita di reddito reale si traduce in incertezza e bassa domanda interna che sommata alle difficoltà nell’export determinate da competizione internazionale, aumento dei costi energetici e geopolitica dei dazi determinano una crescita anemica che ci riporta tra gli ultimi d’Europa. Dopo fiumi di retorica sugli zero virgola superiori alla Germania dei due anni passati emerge come il nostro destino sia proprio legato alle sorti della filiera industriale di Berlino. Dopo fiumi di retorica contro austerità e politiche del governo Draghi, la destra sta dimostrando di non avere nessuna politica economica alternativa.

Povertà, il rapporto Caritas: è aumentata del 43% in dieci anni. E le disuguaglianze crescenti cristallizzano i privilegi

F. Q.  14 Novembre 2025

Nel 2024 i Centri di Ascolto Caritas hanno sostenuto 277.775 famiglie, +62,6% rispetto al 2014. Intanto, il patrimonio medio dei 50mila adulti più ricchi del Paese è più che raddoppiato dagli anni Novanta, mentre quello dei 25 milioni di italiani più poveri si è ridotto di oltre tre volte

Negli ultimi dieci anni la povertà assoluta in Italia si è radicata, allargata, strutturata. Le famiglie indigenti sono aumentate del 43,3%, un ritmo preoccupante. Che descrive non una crisi passeggera, ma un processo di sedimentazione: chi entra nella povertà fa sempre più fatica a uscirne, mentre nuove fasce di popolazione vi scivolano dentro. Intanto i patrimoni delle famiglie italiane si distribuiscono in maniera sempre più diseguale, segnando una vera e propria inversione delle fortune tra chi ha poco e chi ha molto. È l’immagine che emerge dal ventinovesimo Rapporto Caritas su povertà ed esclusione sociale, intitolato “Fuori campo. Lo sguardo della prossimità”, che approfondisce i dati Istat diffusi a ottobre.

Nel solo 2024 i Centri di Ascolto Caritas hanno sostenuto 277.775 famiglie, il 3% in più rispetto al 2023 e addirittura +62,6% rispetto al 2014. Non si tratta solo di povertà economica: oltre una famiglia su due porta con sé almeno due forme di disagio contemporaneamente e una su tre arriva a tre o più. Ed è in questo contesto che la povertà diventa, per ammissione della stessa Caritas, un fenomeno “cumulativo e interconnesso”: le persone che chiedono aiuto ai centri spesso sperimentano, accanto alla povertà, mancanza o perdita di un’abitazione, problemi legati alla salute mentale e alle dipendenze, povertà educativa e culturale, perdita di autosufficienza, condizione migratoria irregolare, svantaggi connessi alla ex-detenzione, violenze, abuso e sfruttamento.

Sul fronte strettamente economico, ricorda Caritas, l’Ocse ha certificato che i salari reali in Italia restano inferiori del 7,5% rispetto all’inizio del 2021, nonostante un incremento relativamente consistente nell’ultimo anno dovuto al rinnovo di molti contratti collettivi. Tra il 1990 e il 2020 l’Italia è stato poi l’unico Paese dell’area con salari reali medi in calo (-2,9%), mentre la quota di lavoratori a basso salario è salita dal 25,9% al 32,2%. A farne le spese soprattutto donne, giovani tra i 16 e i 34 anni, residenti nel Mezzogiorno e chi ha contratti part-time. “Mettendo queste dinamiche reddituali nel contesto globale”, commenta il report, “si nota un vistoso arretramento della maggior parte delle lavoratrici e dei lavoratori italiani con redditi medio bassi all’interno della distribuzione globale dei redditi”. Se alla fine degli anni 80 le lavoratrici e i lavoratori italiani compresi nel 30% più povero della distribuzione salariale “mantenevano un vantaggio nella distribuzione mondiale dei redditi, nonostante lo svantaggio relativo nazionale”, oggi “tali redditi della medesima fascia della popolazione lavorativa permettono di stare appena al disopra dei redditi della metà dei lavoratori nel mondo”.

Nel frattempo la forbice tra chi ha molto e chi ha poco si è ulteriormente allargata. Il patrimonio medio dei 50mila adulti più ricchi del Paese è più che raddoppiato dagli anni Novanta, mentre quello dei 25 milioni di italiani più poveri si è ridotto di oltre tre volte, fermandosi oggi a circa 7mila euro pro capite. Almeno 10 milioni di adulti dispongono di risparmi liquidi inferiori ai 2.000 euro, una soglia insufficiente a fronteggiare uno choc di reddito come la perdita del lavoro o una malattia, mentre stando alle ultime rilevazioni di Forbes i miliardari sono saliti a 65.

Una disuguaglianza che “ha anche un effetto intergenerazionale“, ricorda il primo capitolo del report, firmato da Salvatore Morelli e Giacomo Gabbuti: “Gli svantaggi di oggi possono trasmettersi nel futuro, alimentando un circolo vizioso che riduce la mobilità sociale e cristallizza tanto i privilegi e i vantaggi quanto le marginalità e le esclusioni”. Il rischio tangibile di trasformare le crescenti disuguaglianze di oggi in maggiori disuguaglianze di opportunità nel futuro è rafforzato dai dati che suggeriscono “una crescita graduale del peso delle eredità e delle donazioni”.

L’Ue-27 ha visto il peso relativo dei patrimoni ereditati raddoppiare, passando da 7% a 14% circa del valore complessivo dei redditi nazionali dal 1995 al 2020. Nello stesso periodo, la tassazione effettiva di tali trasferimenti di ricchezza è diminuita. L’aliquota media effettiva per l’Ue-27 si è ridotta di circa 1 punto percentuale dal 1995, fino a raggiungere il 2,4% nel 2020. In Italia flussi di eredità e donazione più che raddoppiano nello stesso periodo, superando oggi il 15% dei redditi nazionali, mentre l’aliquota media dell’imposta di successione viene più che dimezzata, a partire dall’1% del 1995, un livello già considerevolmente più basso della media Ue-27. Come previsto dall’economista francese Thomas Piketty ne “Il Capitale nel Ventunesimo Secolo”, chiosano Gabbuti e Morelli, “sta emergendo una forma di capitalismo
patrimoniale in cui la ricchezza di origine familiare influenza sempre più i destini dei figli”.

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