PERCHÈ ISRAELE DANNEGGIA LA PACE E GLI STESSI EBREI da IL MANIFESTO(2021 e 2002)
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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PERCHÈ ISRAELE DANNEGGIA LA PACE E GLI STESSI EBREI da IL MANIFESTO(2021 e 2002)

Perché Israele danneggia la pace e gli stessi ebrei

Guerra promessa In Occidente il sostegno a Tel Aviv unisce governi di destra e di sinistra, partiti e intellettuali soprattutto dalla «guerra dei 6 giorni» del 1967. Da quando è un laboratorio di armi

Rita Di Leo  20/05/2021

La domanda è perché gli israeliani agiscono in piena impunità e con il sostegno americano e europeo? Le risposte sono due.
La prima riguarda il ripudio del passato. L’israeliano si vergogna dello stato di minorità in cui per secoli sono vissuti i suoi antenati, dai ghetti ai pogrom, sino al loro comportamento come vittime nei campi di sterminio nazista. Salva appena la rivolta del ghetto di Varsavia ma si chiede perché altrove non si sono ribellati, perché tanta passività. Profondo è il disprezzo per la loro acquiescenza cui lo Stato di Israele ha infine posto rimedio.

Per dimostrarlo serve un nemico da sconfiggere in guerra, un nemico da sottomettere, un nemico da umiliare, un nemico cui far subire quello che per secoli gli ebrei hanno subito. La vendetta – in corso dal 1948 con la Nakba, la cacciata degli arabo-palestinesi – si è abbattuta non sui tedeschi, sui polacchi, sui lituani, i francesi, gli olandesi, gli italiani, vale a dire sull’occidente raffinato che aveva «ingegnato» i campi di sterminio e le camere a gas, ma appunto sul più debole, sul palestinese che ha assunto la maschera greca del semita da perseguitare. Da parte loro gli eredi dei persecutori europei, con il capo coperto di cenere, consentono agli eredi delle vittime dei pogrom, il via libera alle persecuzioni contro il popolo semita che vive sulla medesima comune terra da migliaia di anni.

In Occidente il sostegno allo Stato di Israele unisce governi di destra e di sinistra, partiti e intellettuali – dopo il precedente della guerra del ’56 con l’attacco all’Egitto impegnato nella crisi di Suez – soprattutto dalla «guerra dei 6 giorni» del 1967, quando gli ebrei trasformatisi in guerrieri, acquisirono il titolo di entrare a far parte della comunità delle nazioni che dalla notte dei tempi si fanno guerra, l’un contro l’altra armate. E sulle armi il contributo israeliano è andato crescendo nel senso che negli istituti di ricerca ormai il maggiore interesse è alla messa a punto di mezzi di morte. Le armi nuove e mirabolanti, create e offerte, sono divenute la più recente testimonianza delle capacità del popolo che proclama di essere quello della Bibbia.

La seconda risposta sull’impunità di Israele dipende dalla leggenda – anch’essa antica – per cui gli ebrei sono così ricchi e potenti da orientare a favore dei propri privati interessi, i governi del mondo intero, compreso i paesi arabi con legami di affari con l’élite finanziaria cosmopolita.
Il caso più noto sono le 16 parole di una lettera del 1917 del ministro inglese Lord Balfour al banchiere Rothschild – che aveva partecipato a finanziare la costruzione del canale di Suez -, nella quale si prospettava la creazione di una “home” ebraica in terra di Palestina. Gli storici hanno fatto mille ipotesi sulle motivazioni di quella presa di posizione inglese e prevale la più prosaica. Data la convinzione diffusa sulla ricchezza e potenza della comunità ebraica, l’ipotesi più accreditata è che quelle 16 parole dovevano portare ad un aiuto finanziario nella lotta in corso per espellere l’impero ottomano dalla Palestina. Esistono molti altri casi che proverebbero l’influenza dell’élite finanziaria ebrea sull’élite politica europea e americana, e per ultimo si è aggiunto il ruolo degli oligarchi ebrei russi. Mancano all’appello la Cina e l’Iran. Si tratta però di leggende pericolose.

Ma quel che resta vero è l’inspiegabile quanto globale preoccupazione dei mass media per i civili di Tel Aviv, costretti nei rifugi per colpa dei razzi del terrorista Hamas mentre il conto dei civili palestinesi, uccisi dai missili israeliani, non ha la medesima attenzione? Intanto, sembra di capire, sono palestinesi di Hamas, e quando si tratta di donne e bambini, abitando a Gaza non possono che essere parenti di terroristi. Siamo alla punizione collettiva, dunque.

C’è una domanda, difficile da porre perché riguarda ebrei come Baruch Spinoza, Walter Benjamin, e Ghersom Sholem: se tornassero sulla terra come reagirebbero alla tragedia degli ebrei di Israele, assimilatisi agli altri popoli non appena hanno indossato l’uniforme del soldato, il vestito del politico e dismesso quello del filosofo, dell’artista, dello scienziato? La domanda mi tocca personalmente e la risposta è che si unirebbero tutti e tre alle proteste della diaspora palestinese nelle piazze europee e americane. Le manifestazioni sono contro l’attuale governo d’Israele, non hanno a che vedere con l’antisemitismo, non sono riferibili al fondamentalismo islamico, hanno come obiettivo il poter vivere con il medesimo status degli ebrei di Israele nella comune terra di Palestina.

Nella famosa lettera di Lord Balfour del 1917 era specificato che l’iniziativa sulla “home ebraica” non pregiudicava i diritti civili e religiosi delle comunità esistenti, già stanziate da secoli. Ecco, torniamo all’attualità. Prima Sharone poi Netanyahu, seminando odio, hanno fatto tutto il contrario.

Gli ebrei che criticano Israele non «odiano se stessi»

STATI UNITI Il rabbino americano , fondatore di Tikkun, una organizzazione progressista pro-Israele, denuncia la campagna maccartista in corso contro gli ebrei che sollevano dubbi sulla politica immorale e autodistruttiva di Sharon. Oggi essere pro-Israele vuol dire spingere per la fine dell’occupazione.

RABBI MICHAEL LERNER  04/05/2002 Ogni giorno ricevo telefonate, e-mail e lettere angosciate da membri della mia congregazione e da altri che sono stati etichettati come «ebrei che odiano se stessi». Il motivo? Aver sollevato interrogativi sulla politica di Israele nei confronti dei palestinesi. C’è qualcosa che ferisce profondamente in quel termine e nel modo in cui la comunità ebraica sta trattando chi dissente, qualcosa che ricorda la repressione del maccartismo negli anni `50 e il suo modo di etichettare chi dissentiva come «antiamericano». In America gli ebrei lo sono per scelta. Coloro che desiderano abbandonare la propria religione e l’identità etnica possono farlo agevolmente. Sempre più persone, quando vengono interpellate sulla loro identità etnica o sulla loro religione, rispondono «i miei genitori sono ebrei», non desiderano più sentirsi legati a tale identità. Ma la maggior parte degli ebrei non fanno questa scelta. Sentono una speciale assonanza con la storia e la cultura di un popolo che ha proclamato un messaggio d’amore, di giustizia e di pace mentre altri percorrevano strade di crudeltà e dominazione. Provano orgoglio nell’appartenere ad un popolo che ha insistito sulla possibilità del «tikkun», una parola ebraica che esprime il convincimento che il mondo possa essere fondamentalmente curato e trasformato. Sanno che gli ebrei hanno pagato a caro prezzo questo convincimento e, sebbene siano adirati per l’antisemitismo e credano che nessuno debba sopportare mai più ciò che noi abbiamo sopportato dall’Europa cristiana, sono anche orgogliosi che i valori ebraici ci abbiano impedito di diventare come i nostri oppressori. Nel 1988 un sondaggio di Los Angeles Times rivelava che circa il 50% degli ebrei intervistati identificavano «un impegno verso l’equità sociale» come la caratteristica più importante della loro identità ebraica. Solo il 17% aveva citato un impegno nei confronti di Israele. (…) Nessuna meraviglia, perciò, che questi ebrei americani sensibili alla giustizia sociale si sentano traditi dalla politica di Israele che appare con tutta evidenza immorale e autodistruttiva. Tutti noi siamo sconvolti per gli atti immorali dei terroristi palestinesi che fanno saltare in aria israeliani mentre sono a tavola per il Seder, o fanno compere nei negozi, o siedono al caffè o sono in autobus. Sappiamo che questi atti non possono essere perdonati, comunque siano stati provocati. Ma molti di noi capiscono anche che il modo di trattare i palestinesi da parte di Israele è immorale e offensivo.

Centinaia di migliaia di palestinesi sono fuggiti dalle loro case nel 1948, e la recente ricerca storica israeliana ha dimostrato che quasi tutti scapparono non per rispondere all’appello dei leader arabi, ma perché erano terrorizzati dagli atti di violenza dei terroristi israeliani di destra, o perché furono cacciati fisicamente dalle loro case dall’esercito israeliano. (…) I profughi palestinesi e le loro famiglie adesso sono oltre 3 milioni, e molti vivono in condizioni orribili in campi profughi che ricadono sotto il comando militare israeliano. Nonostante le promesse di Israele, fatte nel 1993 a Oslo, di porre fine alla sua occupazione dei territori palestinesi entro il 4 maggio 1999, la direzione intrapresa da Israele è stata in realtà opposta. Dopo che un israeliano di destra assassinò il primo ministro Yitzhak Rabin, un uomo di pace, Israele ha di fatto aumentato il numero dei coloni in Cisgiordania, portandoli da circa 120.000 nel 1993 a circa 200.000 quando il premier israeliano Ehud Barak incontrò il presidente dell’autorità palestinese Yasser Arafat a Camp David. E sebbene i media israeliani e statunitensi abbiano fabbricato il mito che l’offerta fatta ai palestinesi fosse «il meglio che potessero aspettarsi», e che dunque il loro rifiuto dimostrasse che essi non volevano niente meno che la completa distruzione di Israele, i fatti rivelano una storia piuttosto diversa. Non solo Barak offrì ad Arafat meno di quanto non gli fosse stato offerto nel 1993, ma rifiutò di fornire alcunché a titolo di riparazione o di risarcimento per i profughi. All’opposto, insisté perché Arafat firmasse una dichiarazione in base alla quale le condizioni offerte da Barak avrebbero messo fine a qualunque pretesa da parte del popolo palestinese nei confronti di Israele e avrebbe costituito la risoluzione di tutte le questioni in discussione. Nessun leader palestinese avrebbe potuto firmare quell’accordo ignorando le esigenze dei profughi. Sebbene si ritenga generalmente che i negoziati siano terminati lì, in effetti essi sono continuati a Taba finché l’elezione di Ariel Sharon non ha messo fine al processo che, secondo l’allora ministro della giustizia Yossi Beilin (come ha scritto recentemente sul New York Times), era molto vicino al raggiungimento di un accordo tra i due popoli.

Sharon non voleva l’accordo perché si era sempre opposto a qualunque intesa che potesse comportare l’abbandono degli insediamenti in Cisgiordania, che lui aveva contribuito a costruire negli anni ’80 (…) Con il pretesto di rispondere agli atti di terrorismo (totalmente immorali e inaccettabili) di alcuni palestinesi, Sharon ha recentemente intrapreso la distruzione delle istituzioni della società palestinese, e lo ha fatto brutalmente, con grande danno per molti civili. Nessuna meraviglia, perciò, che molti ebrei si siano sentiti profondamente sconvolti dalla politica di Israele. Da una parte, essi si rendono conto che tale politica sta portando a una spaventosa ondata di antisemitismo. Dall’altra, capiscono che questa non sta dando sicurezza a Israele ma al contrario sta creando nuove generazioni di futuri terroristi e convincendo il mondo che Israele ha perso la sua bussola morale.

Eppure molti ebrei e non sono stati intimiditi dalla campagna lanciata in nome della «political correctness» israeliana. Sotto la spinta dell’Aipac (American Israel Public Affairs Committee) e di altre istituzioni ebraiche, coloro che criticano Israele vengono etichettati come «persone che odiano se stesse» se sono ebrei, o come antisemiti se non lo sono. (…) Molti rabbini e professionisti mi hanno detto recentemente di temere per il loro lavoro, se dovessero esprimere i loro dubbi sulla politica di Israele – per non parlare di sostenere esplicitamente le richieste di porre fine all’occupazione. Tuttavia, lungi dall’odiare se stessi, gli ebrei affermano i valori più alti della loro cultura e della loro religione quando concludono che essere pro-israeliani oggi significa spingere Israele a terminare l’occupazione e spezzare la spirale di violenza da entrambe le parti. Molti ebrei americani capiscono il bisogno nel mondo di oggi di abbandonare lo sciovinismo e l’insistenza sul carattere «speciale» degli ebrei. Noi dobbiamo affermare invece quella parte della tradizione ebraica che ci porta a saper riconoscere lo spirito di Dio in ogni essere umano sul pianeta, e a riconoscere che la nostra sicurezza verrà non da maggiori armamenti per Israele, bensì da più amore e dalla vicinanza tra il popolo ebraico e tutti gli altri popoli. Non c’è un cammino verso la sicurezza degli ebrei che non ci conduca anche alla sicurezza globale per tutti i popoli. (…) Gli orrori dell’Olocausto continuano a riapparire. Ma se permetteremo che la paura dia forma alle nostre attuali percezioni, ricreeremo lo stesso mondo dell’antagonismo verso gli ebrei che temevamo – e questo darebbe ad Adolf Hitler una vittoria postuma. La migliore risposta all’odio del passato è la ricerca di un percorso che affermi l’amore, la giustizia e la pace, e respinga i «realisti» secondo cui la nostra sola sicurezza riposerebbe sulla dominazione militare nei confronti del popolo palestinese. E’ tempo che gli Usa sponsorizzino una forza multilaterale che separi fisicamente e protegga Israele e la Palestina l’uno dall’altra, e che poi promuovano una conferenza internazionale per imporre un accordo definitivo. L’accordo deve contemplare la fine dell’occupazione, l’evacuazione degli insediamenti, i risarcimenti per i profughi palestinesi (e anche per gli ebrei che fuggirono dalle terre arabe), il riconoscimento di Israele da parte degli stati arabi che lo circondano e la fine di tutti gli atti di terrore e di violenza. Questo è l’obiettivo per migliaia di ebrei americani e per i nostri alleati non ebrei – che recentemente hanno formato la comunità Tikkun – un’organizzazione progressista pro-Israele. Non volendo essere considerati traditori e non essendo più sicuri che valga la pena di preservare l’ebraicità se questo significa l’ebraicità di Sharon, ci siamo riuniti perché non vogliamo permettere che la nostra cultura e la nostra religione perdano il loro messaggio profetico di generosità, compassione e bontà di cuore. («Tu amerai lo straniero»). Nessuna sorpresa che alcuni ebrei ci abbiano salutati con il loro mantra favorito: voi siete ebrei che odiano se stessi.

Rabbino, direttore di Tikkun e autore di “Spirit Matters”

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