CRESCONO IL PIL E PURE I POVERI: SCELTA POLITICA, NON PARADOSSO
Crescono il Pil e pure i poveri: scelta politica, non paradosso
Pietro Galeone 20 Ottobre 2025
Un residente su 10 non ha i mezzi per una vita dignitosa, mentre la ricchezza sale (poco). È il frutto delle scelte di Meloni e soci
A prima vista parrebbe un’Italia schizofrenica, quella che emerge dai documenti di governo. Un’Italia in cui cresce il Pil, ma cresce anche la povertà. Un Paese nuovamente ostaggio della “trickle-down economics”, la teoria del cosiddetto “sgocciolamento”, che il governo si ostina a perseguire, tagliando le entrate e offrendo condoni agli evasori. L’idea alla base è che se le politiche favoriscono i più benestanti, fanno crescere il Pil e poi la ricchezza dovrebbe farsi strada fino alle tasche di tutti, anche di chi si limita al primo scaglione Irpef e non guadagna direttamente dai tagli fiscali.
Peccato che gli stessi dati governativi smentiscano questa visione. Dal documento sul Benessere Economico e Sostenibile (BES) 2025 emerge infatti l’immagine di un Paese che sì, cresce, ma nel quale al tempo stesso aumentano le disuguaglianze e l’incidenza della povertà assoluta e diminuisce la speranza di vita alla nascita.
Secondo i dati Eurostat, siamo il quarto Paese Ue con la distribuzione più diseguale di reddito, il più disuguale tra i più grandi e industrializzati. Aumenta il numero di famiglie povere, che raggiunge un picco dell’8,4%, il valore più alto degli ultimi dieci anni. A livello individuale, 1 italiano su 10 si trova in condizioni di povertà assoluta: non ha un reddito sufficiente a potersi permettere i consumi essenziali per vivere una vita dignitosa.
Non si tratta di sfortunate coincidenze, ma delle conseguenze di precise scelte politiche. Perché è naturale chiedersi: da dove li prendiamo i soldi per questi ennesimi tagli alle entrate dello Stato? Le prime vittime dell’accetta fiscale sono le politiche di inclusione e contrasto alla povertà.
Caso emblematico è quello del reddito minimo. In Italia, fino al 2023, era rappresentato dal Reddito di Cittadinanza (RdC), che dopo un picco di 1,4 milioni di beneficiari durante il Covid, si era assestato su una platea di circa 1,1 milioni di percettori all’insediamento del governo Meloni. Il reddito minimo è l’ultima spiaggia contro la povertà assoluta, un sostegno laddove le altre misure di welfare non sono riuscite ad arrivare in maniera efficace. Molte analisi – alcune dello stesso ministero dell’Economia – mostrano che un sistema di reddito minimo efficace può arrivare a tagliare anche vari punti percentuali di povertà assoluta: non poco, considerando che un punto attualmente significa ridurre del 10 per cento il numero dei poveri in Italia.
Nel 2023 però il governo di centrodestra ha voluto eliminare il RdC, passando all’Assegno di Inclusione (AdI). A cambiare non è stato solo il nome, ma soprattutto i criteri di accesso. Mentre con il RdC chiunque guadagnava sotto una soglia di povertà aveva diritto al sostegno, con l’AdI sono stati introdotti requisiti di categoria: accedono al beneficio solo nuclei familiari che hanno un minore o un anziano di cui prendersi cura o una persona con disabilità o comunque in assistenza socio-sanitaria.
In un rapporto pubblicato insieme ai colleghi Massimo Aprea e Michele Raitano dell’Università La Sapienza per conto di Caritas Italia, abbiamo mostrato come il passaggio da RdC ad AdI abbia portato a un dimezzamento dei beneficiari del sussidio (scesi a circa 650 mila). Varie simulazioni suggeriscono che questa riduzione abbia comportato un aumento della povertà assoluta di circa 0.8 punti percentuali. Si tratta di più di mezzo milione di nuovi poveri. Non c’è da sorprendersi quindi delle contraddizioni presenti negli allegati alla legge di bilancio. È il segno di una precisa direzione: lasciare indietro chi parte in svantaggio, per finanziare una crescita a beneficio di chi può permettersela.
Anche se, a ben vedere, questa crescita non è tanto rosea, perché quella reale è sempre più modesta. Secondo i dati Eurostat, al netto dell’inflazione, il Pil italiano dall’insediamento del governo fino a oggi è cresciuto dell’1,5%, a fronte di una media Ue del 2,4%. Viene il dubbio che quei dati economici e del mercato del lavoro, sbandierati dalla premier, non siano che un residuo vento in poppa soffiato dal Superbonus e dal Pnrr, entrambi ormai affievoliti. E soprattutto non sembrano essersi tradotti, in termini reali, in una crescita duratura.
La ricetta di sgocciolamento a suon di tagli – ancor prima di discutere se equa o iniqua – non funziona. Forse converrebbe seguire i colleghi europei che invece promuovono la prima Strategia anti-povertà Ue, pensata per sviluppare politiche di welfare robuste con l’ambizioso obiettivo di azzerare la povertà entro il 2050.
Per farlo, servono investimenti per ridurre disuguaglianze, serve garantire a tutti i cittadini un’esistenza dignitosa e servizi accessibili: da un’istruzione di qualità a politiche attive del lavoro inclusive fino a un sistema di reddito minimo adeguato. Ma soprattutto serve una mentalità attenta all’intera distribuzione di redditi e ricchezze, che sappia cogliere il valore di una crescita sostenibile e inclusiva oggi, per essere più forti contro i rischi di domani.
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