UN TEMPO NUOVO da VOLERELALUNA
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
Cultura, Saperi, Università, Dialogo
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UN TEMPO NUOVO da VOLERELALUNA

Un tempo nuovo

Marco Revelli  09 Ottobre 2025

 Ci sono giornate che spaccano il tempo. Lo dividono in due come uno spartiacque perché segnano l’irrompere di un tempo nuovo, qualcosa di impensabile fino a poco prima, d’invisibile, che d’improvviso emerge alla superficie e rivela un cambiamento di orizzonte nel modo di guardare le cose, e di sentire ciò che accade, e di percepire il nostro posto nel mondo. La giornata del 3 di ottobre – i due milioni nelle cento piazze – ma anche del 4 – un milione tondo tondo nelle strade di Roma – e pure del 22 settembre, la prima epifania di quel sommovimento -, sono di questo tipo: con i loro mutamenti tellurici nel costume, nella morale condivisa, nel comportamento finiscono per travolgere, a volerli interpretare per quello che sono, tutti i modi consolidati di considerare i fatti politici e sociali, rendendo inutili – o se si preferisce “obsolete” – le vecchie forme del discorso e dello stesso scontro politico.

Pensavamo di vivere in un Paese anestetizzato, dal senso morale atrofizzato e dalla coscienza civile disseccata, ognuno per sé e nessuno per tutti, convinti di aver già visto tutto e che nulla serva, e di colpo, una mattina di primo autunno, ci siamo trovati nel pieno di un’eruzione vulcanica, travolti da un’infinità di corpi, di voci, di canti e di suoni che parlavano da bocche di ogni età, e comunicavano tutti lo stresso sentimento, semplice, semplicissimo, direi “elementare” come sono appunto le cose che contano: che non se ne può più di assistere passivamente all’orrore che quotidianamente si consuma sotto i nostri occhi. Che se si vuole mantenere un barlume di rispetto di sé bisogna uscire dai propri anfratti privati e mettersi in marcia. Mescolarsi. Partecipare.

Per questo, per questa loro origine interiore e sotterranea, sommovimento degli strati profondi della coscienza collettiva, le mobilitazioni di quei giorni hanno avuto il carattere del novum. Del “mai ancora visto”. Dello “stato di eccezione”. Per la loro dimensione, certo, sconfinata nel senso letterale della parola, tale da forzare tutti i limiti spaziali delle città perché quella marea non riusciva a essere contenuto nelle piazze e nelle strade, per ampie che fossero, ma tendeva a straripare, disperdersi nella rete urbana, sulle tangenziali, nelle stazioni, negli aeroporti, ovunque un qualche “nodo” segnasse un’intersezione s’infilava come una marea che riempie ogni vuoto che si trova davanti. Ho sentito un commentatore di uno dei cortei milanesi dire al microfono della sua radio che “ci siamo auto-bloccati, perché c’è tanta gente che non si riesce a muoversi”. Ho visto ragazzini perdersi nel proprio stesso quartiere perché la massa liquida che gli stava intorno ne cambiava i punti di riferimento. Ho parlato con amici stremati che mi hanno raccontato di essere stati trasportati per ore da un flusso di persone senza percepire bene la direzione. Dunque, lo spazio urbano trasformato in massa umana.  Ma non solo per la quantità, l’estensione. Anche per la profondità, e l’intensità questa mobilitazione è incomparabile con le manifestazioni politiche (e anche sociali) a cui eravamo abituati. Porta in sé appunto il carattere di un “tempo nuovo” perché davvero quella moltitudine era irriducibile alle tradizionali appartenenze, ai contenitori organizzativi, alle molteplici leadership (peraltro estenuate). Rispondeva a un richiamo più interiore, una sorta di appello morale – pre-politico? post-politico? meta-politico? – che si era accumulato nel tempo, come una molla che si carica e che di colpo deve scattare.

La spontaneità è stata la chiave della mobilitazione. Quello che ha portato in piazza decine forse centinaia di migliaia di giovanissimi – la “generazione Gaza” è stata chiamata -, che neppure hanno l’età per votare, ma quella di pensare sì, e di condividere. E con loro tante e tanti, che magari non votano più. O che forse lo fanno ancora, ma stancamente, distrattamente, come cosa che li tocca poco, e che, chissà?, potrebbero anche distribuirsi trasversalmente, anche se non in misura uguale, lungo l’asse destra/sinistra… Tutti messi in movimento non da un appello di partito, o di organizzazione – lo sciopero indetto dalla CGIL e prima ancora dai Sindacati di base è stato tutt’al più l’innesco, ha fornito l’occasione per ritrovarsi, ma non ha costituito la sostanza dell’evento – bensì dal bisogno individuale e insieme collettivo di “esserci”, ognuno a modo suo, e tutti insieme. L’ha espresso bene, questo concetto, Francesca Fornario, quando ha scritto: “Grazie a chi ha tentato di rompere l’assedio, grazie a chi ha scioperato, grazie a chi ha bloccato le navi cariche di materiale per fabbricare esplosivi in partenza per Israele, grazie a chi ha digiunato, protestato, spiegato agli studenti, studiato, pregato, boicottato, vegliato, occupato, pianto…” E ha aggiunto: “C’è un prima e un dopo questo genocidio. C’è un solco che separerà per sempre non solo le vittime dai carnefici ma anche quelli che si saranno battuti con ogni mezzo da quelli che avranno fatto finta di niente o avranno negato, minimizzato, parlato d’altro, parlato troppo poco o troppo tardi. Un solco che separerà per sempre chi avrà fatto di tutto per far uscire le notizie e chi no; chi avrà fatto di tutto per fermare lo sterminio e chi avrà lasciato correre finendo per ritrovarsi dalla stessa parte dei complici”. Meglio non si poteva.

Questa la grandezza di quanto è accaduto sotto i nostri occhi. Poi c’è la miseria, anzi le miserie, di quanti pur avendo visto non hanno capito. O non hanno voluto capire. Giorgia Meloni in primis, con le sue trivialità sul “weekend lungo”, le paranoie vittimistiche sui “nemici del mio governo”, la miserabile richiesta dei “costi dello lo sciopero per Gaza”, ma insieme tutti quelli che come lei di fronte alle maree montanti si rifugiano dietro ai piccoli episodi di disordine, strepitano per  uno slogan inopportuno, o mettono in piedi infime fabbriche del fango per denigrare quei pochi “capitani coraggiosi” della Flotilla che con il loro atto hanno riscattato il vuoto morale dei propri governanti. A cui possiamo aggiungere quanti, e sono tanti, di fronte all’enormità di ciò che hanno sotto gli occhi, si chiedono se gioverà o meno a Elly Schlein in vista delle prossime scadenze elettorali. O se servirà a Maurizio Landini per ricuperare un ruolo al proprio sindacato, messo all’angolo dalla scomposizione del mondo del lavoro degli ultimi decenni. La risposta, spiace dirlo, è no. Quanto succede negli strati profondi della coscienza del Paese difficilmente si rifletterà sulla sua superficie. Sul piano della politica politicante. Tanto distanti sono le richieste etiche degli uni e le risposte pratiche degli altri (“gli Ideali e la rozza materia”, direbbe Norberto Bobbio). Ma detto questo, possiamo esser certi che nulla sarà più come prima, se quel risveglio che si è manifestato continuerà. Se quei giovani che fino a ieri avevamo creduto sonnambolici e muti continueranno a far crescere la propria volontà di una resa dei conti vera con chi gli sta rubando il futuro.

In fondo non succede spesso nella storia un sommovimento di questo tipo, che cambia lo sguardo con cui milioni di persone guardano alla condizione del mondo e insieme a se stessi. È successo alla fine degli anni Sessanta, sotto la spinta dello scandalo della guerra del Vietnam. È successo alla fine degli anni Novanta, col crollo del muro di Berlino e la dissoluzione dell’URSS. Succede oggi, di fronte allo “spettacolo dell’inumano” che si compie in Palestina e all’ignavia di tutti i poteri, alla dissoluzione dei principii elementari del diritto internazionale, alla logica della forza come unica misura del mondo. Se l’inedita “furia del dileguare” del sistema mediatico alimentato dalle tecnologie dell’istantaneità non eroderà sul nascere la spinta propulsiva di questo moto, e la rapida dissoluzione dei nostri sistemi politici non consegnerà al vuoto del nichilismo compiuto la domanda di cambiamento radicale che sale dal profondo; se, come  cantava Giorgio Gaber in un’altra era geologica, sapremo “trasformare in coraggio la rabbia che è dentro di noi” – coraggio di pensare un’alterità fino a ieri impensabile -, allora davvero, nel punto più basso del pericolo, si potrà sperare che nasca ciò che salva.

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