ADDIO TESTIMONI. ISRAELE E LA MATTANZA DI GIORNALISTI PRIMA E DOPO IL 7 OTTOBRE da IL FATTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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ADDIO TESTIMONI. ISRAELE E LA MATTANZA DI GIORNALISTI PRIMA E DOPO IL 7 OTTOBRE da IL FATTO

Addio testimoni. Israele e la mattanza di giornalisti prima e dopo il 7 ottobre

Alessandro Robecchi  13 Agosto 2025

Avrei voluto dedicare questa rubrica a un elenco: i nomi e i cognomi dei giornalisti assassinati dall’esercito di Israele nel corso del genocidio di Gaza e degli atti terroristici dei coloni israeliani in Cisgiordania. Ho provato. Non c’è spazio abbastanza per quasi trecento nomi e cognomi, mi spiace, spero che qualcuno lo farà presto.

Premessa: non è corporativismo, né spirito di categoria, ammazzare un giornalista non è più grave che ammazzare un civile, una donna, un bambino in coda per un secchiello di farina, come Idf fa ogni giorno, deliberatamente. Ma assassinare un giornalista (che ha immagini, registrazioni, testimonianze) è più importante per chi sta compiendo un crimine contro l’umanità, perché si elimina un testimone che un domani – speriamo presto – potrebbe essere ascoltato dalla Corte dell’Aia contro chi pianifica, ordina ed esegue un genocidio.

Anas al Sharif, 28 anni, il reporter di Al Jazeera ucciso l’altro ieri (insieme ai colleghi Mohammed Qreiqeh, Ibrahim Zaher, Mohammed Noufal, Moamen Aliwa e Mohammed Al-Khaldi) aveva realizzato importanti reportage dalla striscia di Gaza. Prima sull’uccisione di civili innocenti, poi sugli agguati mortali a chi aspettava pane e farina, infine sulla fame usata come arma di guerra. Insomma, era uno che ci faceva vedere l’inferno del campo di sterminio di Gaza. Non un passacarte che legge le agenzie e le veline di Idf, non un corrispondente che staziona in albergo dalla parte dell’esercito occupante e della sua censura. Anas al Sharif era stato minacciato, avvertito per telefono di smetterla di raccontare la verità, gli avevano ucciso il padre, come monito, sempre con la copertura ideologica che Israele applica ad ogni sua vittima: stava con Hamas. Falso.

In attesa fremente che i sostenitori e i negazionisti del genocidio comincino la loro manfrina sul 7 ottobre causa di tutto – a cui è seguita una rappresaglia sulla popolazione civile che mira alla soluzione finale del popolo palestinese – vorrei ricordare qui un’altra giornalista vittima di Idf: Shireen Abu Akleh, uccisa da un cecchino israeliano – colpita alla testa – a Jenin, l’11 maggio del 2022, quando il 7 ottobre non esisteva, in una zona, la Cisgiordania, dove Hamas non c’è.

Shireen Abu Akleh era un volto molto noto di Al Jazeera, molto amata. Come da prassi consolidata, Israele accusò i palestinesi, poi, davanti alle pressioni internazionali (e grazie ad altri giornalisti testimoni) ammise che “forse” potevano essere stati i suoi soldati, cosa poi accertata dall’Onu, mentre l’indagine dell’FBI (ancora in corso, Shireen aveva passaporto americano) è sempre stata considerata da Israele “indebita ingerenza negli affari nazionali”. È un classico della narrazione dell’esercito genocida. Primo passo: non siamo stati noi. Secondo passo: sì siamo stati noi, ma per sbaglio. Terzo passo: apriremo un’inchiesta. Che finisce in nulla.

Il 13 maggio del 2022, ai funerali di Shireen, l’esercito israeliano in assetto antisommossa, ha attaccato il corteo funebre, caricato e malmenato chi seguiva il feretro della giornalista: i video di un esercito che attacca gente pacifica a un funerale e si accanisce a bastonate su chi porta a spalla la bara ha fatto il giro del mondo. Una buona metafora di cos’è – e cos’era anche prima del 7 ottobre – Israele. Tutto evidente, tutto filmato, tutto alla luce del sole: l’assassino che elimina i testimoni dei suoi crimini, sotto gli occhi di tutti, con molti complici, sostenuto da chi finge di non vedere, certo dell’impunità.

“Noi reporter qui siamo tutti in pericolo, eppure continuerò a raccontare”

Aya Ashour  13 Agosto 2025

Parla la reporter della tv cinese dopo l’uccisione della troupe di al Jazeera

“Se smetto di fare reportage e anche gli altri smettono, chi racconterà le nostre storie? Chi documenterà i crimini? Senza immagini e video da Gaza, il mondo non parlerà di noi”. In un’intervista al Fatto Quotidiano la giornalista palestinese ventiduenne Elina El-Yazji, che ha realizzato reportage anche dal nord della Striscia per la Cgtn, la tv cinese, parla del terrore dei giornalisti a Gaza dopo l’uccisione dell’intera troupe di Al Jazeera. L’assassinio ha suscitato la condanna delle associazioni di giornalisti e dei gruppi per la libertà di stampa di tutto il mondo, ma dall’inizio della guerra – uno dei conflitti più sanguinosi per la stampa nella storia moderna – non è stata intrapresa alcuna azione concreta per proteggere i giornalisti a Gaza. Secondo diverse fonti verificate tra i 186 e i 234 giornalisti e operatori dei media palestinesi sono stati uccisi mentre alla stampa internazionale continua a essere vietato l’ingresso a Gaza. “La missione è quella di mantenere vive le nostre voci finché ci sarà l’occupazione”.

Dopo l’uccisione di Anas al Sharif e dei suoi colleghi ha più paura?

Non c’è stata sicurezza fin dal primo giorno. Ora il mondo ci ha dimostrato che la verità ha un prezzo altissimo: le nostre vite. Non c’è protezione per i giornalisti a Gaza, solo un rischio costante.

Cosa vorrebbe che le persone fuori da Gaza capissero del suo lavoro?

Fare questo lavoro qui significa mettere a rischio la propria vita e quella delle nostre famiglie. Ogni momento potrebbe essere l’ultimo. Se non prendono di mira te, potrebbero prendere di mira i tuoi cari. Il dolore psicologico è indescrivibile. Lavoriamo per lunghe ore, lontani da casa, sapendo che i nostri parenti potrebbero essere malati o feriti e che non possiamo stare con loro. Non limitatevi a condividere foto da Gaza. Parlate delle violazioni del diritto internazionale. Come giornalisti in una zona di guerra e sotto genocidio, non ci sentiamo alla pari con gli altri giornalisti nel mondo. Non sentiamo la stessa protezione o solidarietà.

Qual è il suo messaggio ai media internazionali riguardo Gaza? Teme campagne di fango per screditare il vostro lavoro?

Parlate di più con i giornalisti qui. Sosteneteli. Se i grandi media non possono fermare la guerra, possono almeno rafforzare la presenza dei giornalisti locali e denunciare le campagne di persecuzione che dobbiamo affrontare. È ora di spingere per un accesso diretto a Gaza: Israele teme le notizie che potreste riportare. Ottenete le vostre informazioni dai giornalisti sul posto e verificatele prima di pubblicare qualsiasi cosa. Non è giusto che i media internazionali partecipino a campagne diffamatorie senza prove chiare.

Di quale sostegno urgente avete bisogno in questo momento per continuare a lavorare? Vuole lanciare un appello alla stampa internazionale?

Abbiamo bisogno di una solidarietà autentica e incondizionata, senza discriminazioni o pregiudizi. Il giornalismo non può essere diviso lungo linee politiche. Se volete davvero verificare i fatti, fate pressione per entrare nella Striscia di Gaza e vedere con i vostri occhi. Sosteneteci nel rafforzare i nostri reportage e le nostre cronache. Il sostegno psicologico, finanziario e l’impegno globale sono fondamentali per mantenere viva la verità. Non tradite i principi e l’etica della vostra professione. Il tempo del lutto e delle dichiarazioni di condanna è finito. Se il mondo non agisce, se non si schiera al fianco dei giornalisti a Gaza, un’occupazione armata di mezzi illimitati di uccisione, distruzione e fame, continuerà a mettere a tacere la verità impunemente.

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