L’OPPOSIZIONE UTILIZZI IL REFERENDUM da IL FATTO
L’opposizione utilizzi il referendum
Antonio Padellaro 25 Maggio 2025
Può la mobilitazione referendaria terremotare i governi? Fu, per esempio, un referendum a segnare l’inizio della fine della Prima Repubblica: quello del 9 giugno 1991 voluto da Mario Segni e altri (tra i quali Carlo Bo, Umberto Agnelli, Luca di Montezemolo, Rita-Levi Montalcini) che raccolsero le firme per introdurre una legge elettorale uninominale a doppio turno ispirata al modello francese. Dopo l’esame della Corte Costituzionale, dell’ambizioso progetto sopravvisse soltanto il quesito sull’abolizione delle preferenze plurime cosicché il voto degli italiani si concentrò sull’introduzione della preferenza unica. Ma fu lo stesso un terremoto. Anche allora i partiti al potere puntarono sull’astensionismo. Restano celebri gli inviti di Bettino Craxi e Umberto Bossi ad “andare al mare” invece che alle urne. Nonostante questo, o forse proprio per questo l’affluenza superò il 62% degli aventi diritto e i “sì” sfondarono il 95% dei consensi. Dissero alcuni osservatori che al di là del quesito piuttosto tecnico questa massa di elettori comprese che se la partitocrazia invitava al non voto andare a votare diventava automaticamente cosa buona e giusta. Infatti, quel referendum si trasformò in uno strumento di rivolta morale degli italiani contro le degenerazioni della politica dominante. Che di lì a poco sarebbe stata travolta dall’inchiesta di Mani Pulite sulla Tangentopoli dei partiti. Cosa c’entri tutto ciò con i referendum su cui saremo chiamati ad esprimerci l’8 e il 9 giugno è presto detto. Trattasi infatti di una consultazione popolare sui temi del lavoro (abolizione del jobs act, maggiori tutele nel campo degli infortuni) promossa dalla Cgil di Maurizio Landini. A cui “Più Europa” ha aggiunto il quesito sulla possibilità di abbreviare da dieci a cinque gli anni di residenza regolare per richiedere la cittadinanza italiana. Al di là del merito delle questioni non sarebbe questa un’occasione propizia di mobilitazione popolare per l’opposizione tutta? Parliamo di quei leader che sbraitano ogni momento contro il governo Meloni e che, alla prova dei fatti, attraverso il superamento del quorum (50% più uno) potrebbero, finalmente, mandare un segnale forte al governo delle destre. Che sta vivendo forse il suo momento di maggiore debolezza diviso su (quasi) tutto tranne che sulle poltrone. A cosa serve chiedere alla Rai quel minimo di informazione dovuta che, tuttavia, limitata all’esame dei quesiti di natura piuttosto tecnica può dissuadere dal voto piuttosto che incentivarlo? Quando invece una campagna degli ultimi giorni concentrata sulla possibile spallata al governo Meloni, oltre a essere ben compresa dai cittadini, servirebbe a scuotere dall’apatia il popolo dell’opposizione rassegnato alla sconfitta (benché nel 2022 avesse raccolto rispetto alla destra tre milioni di voti in più, vanificati dalle divisioni dei cari leader). Si dirà che, al contrario, una scarsa affluenza alle urne si rivelerebbe un boomerang per Schlein, Conte e compagnia cantante. Soprattutto se si caricasse di significati fortemente politici la sfida. Ok, ma perso per perso dov’è la differenza?
Lavoro, pace e conflitti: perché andare a votare
Francesco Sylos Labini 25 Maggio 2025
Secondo gli ultimi dati resi noti dall’Istat (febbraio 2025) l’indice della produzione industriale ha registrato una contrazione del 2,7% rispetto allo stesso mese dell’anno precedente. Questo calo accentua un problema strutturale di lungo periodo: la produzione industriale italiana è diminuita in modo significativo sin dalla crisi del 2008. Il presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, tuttavia, non sembra preoccuparsi di questo prolungato declino sistemico. Da un lato, ha annunciato in Parlamento che lo spread è sceso sotto i 100 punti, affermando che “il debito italiano è più affidabile di quello tedesco” – ignorando che ciò significa, in realtà, che il debito italiano paga 100 punti base, ossia l’1%, in più di interessi rispetto a quello tedesco, proprio perché è considerato meno affidabile.
Dall’altro lato, Meloni ha dichiarato che l’obiettivo del suo governo è “restituire all’Italia il ruolo di superpotenza turistica”, ignorando che il turismo è un settore a bassissimo valore aggiunto, con limitati effetti di indotto, scarsamente innovativo e caratterizzato da un’occupazione spesso precaria, sottopagata e, in molti casi, sommersa. Questa narrazione si inserisce nella continuità di una visione politica miope, consolidatasi nel corso degli ultimi vent’anni. La situazione attuale, infatti, non nasce con il governo Meloni, ma è il risultato di un processo radicato e persistente, sviluppatosi nell’arco dell’ultimo quarto di secolo, con minime discontinuità tra i diversi esecutivi che si sono succeduti. Tra questi, merita una menzione particolarmente negativa il governo Renzi.
Tale approccio si inquadra in un paradigma economico ispirato ai principi dell’agenda neoliberale, basato su tre pilastri fondamentali. Il primo è la promozione della concorrenza, perseguita attraverso la deregolamentazione e l’apertura dei mercati nazionali – inclusi quelli finanziari – alla competizione internazionale, rimuovendo ogni vincolo alla libera circolazione dei capitali. Il secondo pilastro è la riduzione del ruolo dello Stato, confinato alla costruzione di un quadro istituzionale favorevole al libero mercato. Ciò si è tradotto nella privatizzazione di imprese pubbliche e di funzioni essenziali (sanità, istruzione, ecc.), oltre all’imposizione di limiti severi alla spesa pubblica e all’indebitamento statale – le cosiddette politiche di austerità. Lo slogan “affamare la bestia”, coniato da Reagan, riassume bene questa strategia. Il terzo elemento è l’attacco sistematico ai sindacati, considerati un ostacolo alla liberalizzazione del mercato del lavoro e storicamente difensori dei diritti dei lavoratori. La globalizzazione ha veicolato e amplificato questi principi su scala globale. A ciò si è aggiunta la finanziarizzazione dell’economia, cioè l’ascesa di un capitale finanziario sempre più dominante rispetto ai settori produttivi. La natura stessa della finanza è mutata, e con essa il suo rapporto con il resto del sistema capitalistico, generando trasformazioni profonde.
Questo ciclo, tuttavia, sembra oggi giunto a un punto di svolta. La competizione globale è stata inizialmente vantaggiosa per i Paesi occidentali, che hanno potuto delocalizzare la produzione manifatturiera in Paesi a basso costo del lavoro, come la Cina. Ma in poco più di vent’anni, la Cina è diventata non solo “la fabbrica del mondo”, ma anche una superpotenza scientifica e tecnologica ed è qui che si trova la ragione ultima delle politiche protezioniste di Trump. La globalizzazione ha favorito questa evoluzione, contribuendo al rapido sviluppo cinese e permettendo a centinaia di milioni di persone di uscire dalla povertà e accedere alla classe media.
In maniera speculare, nei Paesi occidentali, la globalizzazione ha prodotto un aumento delle disuguaglianze e un progressivo impoverimento di ampie fasce della popolazione. L’economia è diventata sempre più dominata dai mercati finanziari, a scapito degli investimenti in ricerca e sviluppo. Questo ha portato a una stagnazione dell’economia reale, a un deterioramento della capacità innovativa, al peggioramento della qualità e della sicurezza del lavoro e a un’accentuazione delle disuguaglianze sociali. Le società occidentali ne sono uscite profondamente trasformate e indebolite: le fasce a basso reddito si sono allargate, la classe media si è ridotta, mentre una ristretta élite – il cosiddetto “top 1%” – si è arricchita in modo esponenziale.
Un argine importante a questa deriva è rappresentato dai sindacati, che proprio per questo motivo sono da anni oggetto di un sistematico attacco. Se è vero che il loro indebolimento è stato in parte determinato dalla transizione dal capitalismo industriale a quello finanziario, essi rappresentano ancora oggi un presidio fondamentale per la tenuta democratica. Quando le persone che vivono del proprio lavoro non riescono più ad avere una prospettiva stabile sul proprio futuro, e le condizioni del lavoro organizzato vengono progressivamente smantellate, anche la partecipazione democratica perde forza e significato. Oggi le persone non temono più la guerra nucleare o la catastrofe climatica proprio perché avvertono la mancanza di futuro nella propria vita di ogni giorno. È per questo che la battaglia per condizioni di lavoro dignitose non può che precedere – e fondare – quella per la pace e per l’ambiente. È in questo contesto che si collocano i referendum, ed è questa la posta in gioco che rende importante andare a votare.
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