ANTISEMITISMO, PERCHÈ CADONO GLI ALIBI DEL GOVERNO ISRAELIANO da IL MANIFESTO
Antisemitismo, perché cadono gli alibi del governo israeliano
Buongiorno, notte Per un tempo lunghissimo il timore di essere annoverati tra gli antisemiti ha impedito che si sviluppasse un vasto movimento di opinione pubblica contro gli orrori perpetrati dall’esercito israeliano a Gaza e dai coloni armati in Cisgiordania.
Marco Bascetta 23/05/2025
Può essere che l’attentato di Washington sia di natura antisemita, avendo semplicemente preso di mira due ebrei davanti a una istituzione ebraica. Può anche darsi che sia di natura politica, trattandosi di due funzionari dell’ambasciata israeliana e dunque del governo di Tel Aviv, impegnato nel massacro dei palestinesi a Gaza e in Cisgiordania.
Ingiustificabile in entrambi i casi pone però, nella sua ambiguità, quel tema dell’«antisemitismo riferito a Israele» che è il cavallo di battaglia di Netanyahu e dei suoi più stretti alleati. E tramite il quale ogni critica, opposizione o condanna delle politiche e delle azioni dei governi israeliani vengono interdette e infamate con l’etichetta dell’antisemitismo.
Come già è toccato a organizzazioni sovranazionali quali le Nazioni unite e la Corte penale internazionale e a stati, come ad esempio il Sudafrica, che hanno condannato aspramente l’azione militare israeliana a Gaza. In buona sostanza questa insidiosa formula sostiene che Israele non viene attaccato per quello che fa, per le sue azioni e le sue politiche di sopraffazione, ma per il fatto di essere uno stato “ebraico”. Dunque per ragioni squisitamente antisemite. Intorno alla definizione dell’antisemitismo si è sviluppata un’aspra controversia tra i sostenitori di quella elaborata dall’IHRA (la maggior parte dei governi occidentali) facilmente manipolabile a protezione di Israele da qualunque critica e quelli della “Dichiarazione di Gerusalemme”, elaborata nel 2021 da un gruppo di studiosi in gran parte ebrei, proprio per ovviare a questo genere di strumentalizzazioni.
L’ADOZIONE di quest’ultima definizione da parte della Linke nel congresso di questi giorni a Cheminitz ha provocato una valanga di accuse di antisemitismo contro il partito della sinistra tedesca. In realtà le due definizioni coincidono in larga parte, ma la Dichiarazione di Gerusalemme si distingue nel sostenere che non siano di per sé antisemite azioni di protesta, come i boicottaggi, e prese di posizione contro le politiche dei governi israeliani. Non esclude cioè che sentimenti antisemiti possano attraversarle, ma non ritiene che questo debba accadere necessariamente. Ciò che oggi sta cambiando è che questo scudo strumentale dell’antisemitismo, impiegato con grande efficacia nel tacitare ogni protesta e manifestazione contro uno sterminio sistematico passato per “effetto collaterale”, comincia a scricchiolare.
PER UN TEMPO lunghissimo il timore di essere annoverati tra gli antisemiti ha impedito che si sviluppasse un vasto movimento di opinione pubblica contro gli orrori perpetrati dall’esercito israeliano a Gaza e dai coloni armati in Cisgiordania. Una simile etichetta ha funzionato assai bene come forte deterrente nei confronti dell’opinione pubblica democratica e di sinistra, la più sensibile su questo punto, e come censura negli ambienti accademici. Anche se non ha fermato massicce mobilitazioni in tutto il mondo, disposte ad affrontare la repressione e difendere il diritto di denunciare quanto stava accadendo.
NETANYAHU e i suoi alleati, confidando nell’appoggio poco condizionato dei governi occidentali amici, nella patetica debolezza dei reiterati inviti alla moderazione, nell’appoggio concreto alla loro guerra a oltranza e nella trappola dell’antisemitismo si sono spinti oltre ogni limite tollerabile. Di azioni “mirate” non si parla da tempo, le esecuzioni sommarie di sanitari e soccorritori non sollevano più scandalo, le mire di deportazione sono ormai esplicite e attive nelle loro premesse distruttrici, il numero spaventoso di morti civili è dato per scontato, la carestia da assedio praticata e rivendicata come legittima in linea di principio. Solo la disapprovazione degli alleati e altre minori ragioni di opportunità, sostiene Netanyahu, gli impedirebbero di lasciar morire di fame e di sete buona parte dei palestinesi di Gaza. D’altra parte il suo ministro Smotrich lo aveva già chiarito mesi fa: imporre la carestia a Gaza sarebbe cosa legittima «e perfino etica». Come fosse possibile, non dico sostenere e rifornire uno stato governato da simili figuri, ma anche solo intrattenere con esso relazioni diplomatiche è incomprensibile.
SOLO OGGI, dopo che l’Idf ha fatto fuoco sui suoi diplomatici “per proteggerli”, il parlamento europeo insorge e si divide, le sinistre accantonano il timore dell’accusa di antisemitismo e si pongono il problema di come fermare Netanyahu e ricucire i brandelli del diritto internazionale in Medio oriente. Molto tardi, forse troppo. Deve farlo comunque perché il governo di Israele, non nasconde più nulla, rivendica ogni azione, rinuncia a ogni eufemismo o argomentazione di comodo. E del resto i fatti parlano chiaro. Solo una ipocrisia senza fine può aver finto fino ad oggi di non vedere che la “sicurezza di Israele” coincideva nei disegni dei suoi governanti con il ripristino dei confini biblici, che la guerra a oltranza era la loro forma di esistenza e di riproduzione, che le azioni dei coloni violenti e gli interessi dello stato coincidevano pienamente.
CERTO, il 7 ottobre, l’orribile massacro compiuto da Hamas, ha prodotto e motivato fino a un certo punto la reazione di Israele e la solidarietà dei più. Fino al punto in cui si è prodotta una dismisura tale da offuscare le forti ragioni originarie degli israeliani. Questo offuscamento si è già prodotto nella storia. Un solo esempio: l’esercito giapponese, oltre all’attacco di Pearl Harbour, si è reso responsabile di innumerevoli atrocità. Ma nella memoria e nell’immaginario mondiale quel che resta e resterà sono Hiroshima e Nagasaki. Nonostante fossero stati i giapponesi a cominciare.
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