UN GENOCIDIO È UN GENOCIDIO E L’EUROPA INIZIA AD AMMETTERLO da IL MANIFESTO
Un genocidio è un genocidio e l’Europa inizia ad ammetterlo
Opinioni L’establishment liberale – è il sospetto – sta cercando di appropriarsi e controllare la critica a Israele per neutralizzare il movimento globale di solidarietà con la Palestina. Prime timide condanne della politica israeliana: una tardiva riscoperta di umanità o il tentativo di arginare l’indignazione di fronte al collasso della coscienza collettiva?
Marina Calculli, Gjovalin Macaj 20/05/2025
Dopo un anno e mezzo di silenzio assordante e zelo frenetico per mettere a tacere ogni voce critica del genocidio che Israele sta commettendo in Palestina, le voci dell’establishment in Europa hanno cambiato spartito.
Le forze liberal-conservatrici hanno iniziato a balbettare timide condanne della politica genocida israeliana. Tra costoro anche il presidente francese Macron. Il Guardian e il quotidiano olandese NRC, due riferimenti dell’informazione dell’establishment, hanno addirittura iniziato a riportare ciò che i palestinesi e gli esperti di genocidio denunciano da diciannove mesi: che un genocidio è un genocidio.
Una flebile ammissione del genocidio è sempre meglio del silenzio complice con il genocidio. Dobbiamo accogliere queste condanne, fino a quando non ci sarà un incondizionato ripudio del genocidio in Palestina e altrove. Ma è legittimo anche interrogarsi sulle intenzioni e gli effetti di queste prese di posizione. Si tratta di una tardiva riscoperta di umanità o di un tentativo di neutralizzare la crescente indignazione di fronte al collasso della coscienza collettiva?
IL TEMPISMO E IL REGISTRO uniforme di queste condanne tradiscono un certo grado di coordinamento tra governi europei e media. Ciò non esclude un genuino risveglio di coscienza o un effetto domino virtuoso, dopo la volgarità del male cui siamo stati esposti per un anno e mezzo. In fondo, chi ha il coraggio di denunciare incoraggia gli altri a fare lo stesso.
Ma una svolta improvvisa dopo quasi venti mesi di mutismo solleva legittimi interrogativi.
Alcuni hanno sostenuto che lo sdoganamento della critica al genocidio sionista sia un tentativo tardivo di ripulire l’eredità della complicità europea con i genocidari. Gaza è decimata da oltre 100mila tonnellate di esplosivi che Israele ha sganciato su una popolazione indifesa di due milioni di persone. Come ha detto Omar Al Akkar, «un giorno, tutti saranno sempre stati contro tutto questo», ricordandoci che le persone trovano il coraggio di schierarsi contro il male solo quando non corrono più rischi. Potrebbe essere che quel giorno sia arrivato. Peccato che il genocidio a Gaza sia ancora in corso e in espansione verso la Cisgiordania, e i tardivi critici di Israele – in particolare i governi europei – non stiano facendo nulla per fermarlo. Anzi, continuano a sostenerlo economicamente e militarmente.
Siamo quindi di fronte a un cambio di linguaggio senza cambio di politica, nel momento in cui l’opinione pubblica europea non digerisce più la hasbara – «autodifesa», «smilitarizzazione di Hamas» – con cui Israele e i suoi alleati hanno giustificato l’annientamento di oltre 61mila persone.
PIÙ SIGNIFICATIVAMENTE, il sospetto è che l’establishment liberale stia cercando di appropriarsi e controllare la critica a Israele per neutralizzare quella portata avanti dal movimento globale di solidarietà con la Palestina: la denuncia del colonialismo d’insediamento e del sistema di apartheid israeliano, delle sue radici nel colonialismo occidentale e del suo ruolo centrale nel preservare e rafforzare un sistema economico globale sempre più centrato sull’espansione delle capacità militari e delle tecnologie di sorveglianza e sempre meno centrato sulle persone.
È questa critica ideologica che temono e vogliono colpire, rilassando apparentemente il controllo su come possiamo criticare Israele.
I governi europei che hanno preso le distanze da Israele – o, come dicono, «dal governo Netanyahu», nel tentativo di personalizzare la responsabilità per il genocidio che ancora non riescono a nominare al fine di salvare l’infrastruttura coloniale che lo ha reso possibile – si stanno limitando a chiedere una revisione dell’accordo di associazione Ue-Israele. Come se questa fosse l’unica misura – o la più significativa – per fare pressione su Israele.
LE CANCELLERIE EUROPEE ci stanno essenzialmente invitando a concentrarci su una misura altamente improbabile, dato che la sospensione dell’accordo richiederebbe l’unanimità dei 27 Stati membri dell’Ue, inclusi i fedelissimi alleati di Israele, Germania e Ungheria. Non stanno nemmeno considerando misure unilaterali, simili a quelle adottate per fare pressione e isolare la Russia dopo l’occupazione dell’Ucraina: embargo sulle armi, congelamento degli scambi commerciali, incoraggiamento (anziché intimidazione) delle università nel rompere i legami con istituzioni partner che alimentano il genocidio.
Esiste, però, un criterio semplice per capire se queste improvvise conversioni siano un estremo tentativo di controllare come il pubblico debba pensare al genocidio in Palestina, dal momento che non è più possibile sopprimerne il riconoscimento, o un primo passo per porre fine alla loro complicità e agire per fermarlo. Se chiedono misure urgenti e concrete per dare piena attuazione agli obblighi degli stati di prevenire, fermare e non rendersi complici con il genocidio, allora dobbiamo accogliere il loro sostegno e usarlo come base per una più ampia mobilitazione che ponga fine alle cause strutturali del genocidio.
MA SE QUESTE CONDANNE improvvise si limitano ad ammettere ciò che non è più negabile, senza sostenere alcuna misura per contrastare l’impunità del genocidio, allora dobbiamo considerarle per quello che sono: una mossa infida da parte dei complici dei genocidari per premunirsi contro la riprovazione sociale con cui dovranno fare i conti dopodomani. Dobbiamo denunciare il loro tentativo di neutralizzare l’effetto dell’indignazione per il genocidio, per tornare alla normalità come se nulla fosse accaduto, così da poter godere in tutta sicurezza del potere del proprio privilegio e continuare a pontificare su come dovremmo vivere le nostre vite e come dovremmo distinguere il bene dal male.
Doppio standard sui crimini di guerra, Cecilia Strada: «Europa vergognosa, è complicità»
Intervista all’europarlamentare Pd «Il punto non è politico, è di diritto: il massacro dei palestinesi è anche massacro del diritto internazionale. Dovremmo agire e invece… Finiremo tutti sui libri di storia, dalla parte sbagliata»
Chiara Cruciati 20/05/2025
VALICO DI RAFAH
Cecilia Strada, europarlamentare del Pd, lei ha preso parte alla carovana solidale verso Rafah organizzata da Aoi, Assopace e Arci. Agli esponenti della società civile palestinese, ha chiesto scusa a nome suo e dell’Europarlamento.
Mi sento di chiedere scusa perché trovo vergognoso il silenzio del parlamento europeo. O peggio la complicità. È passato quasi un anno da quando questo parlamento si è insediato e non è stato in grado di esprimere una risoluzione a causa delle spaccature interne. Eppure il punto non è politico, è di diritto: il massacro della popolazione palestinese è anche un massacro del diritto internazionale e delle istituzioni internazionali. Dovremmo agire e invece non stiamo facendo nulla. Finiremo tutti sui libri di storia, dalla parte sbagliata.
Le spaccature di cui parla sono trasversali ai gruppi politici?
C’è una grossa differenza tra il campo progressista e il campo dell’estrema destra ma le fratture ci sono anche tra i progressisti. Non c’è stata finora unanimità di intenti altrimenti si sarebbero mossi prima anche nelle richieste pubbliche. Le risoluzioni necessitano della maggioranza per passare ma nessuno impedisce di prendere posizioni pubbliche fuori dall’Aula.
Dall’Ue è mancato anche un intervento a difesa delle Corti dell’Aja, sotto attacco.
Sono stata alla Corte penale internazionale a dicembre con una delegazione di europarlamentari e parlamentari italiani per chiedere alla Commissione europea di attivare il regolamento di blocco per proteggere la Cpi. È vergognoso che non si sia ancora fatto. Non difendendola, sbattiamo le porte in faccia a milioni di vittime, ma ci facciamo anche del male da soli.
La Corte internazionale di Giustizia, nel luglio 2024, ha emesso una decisione in cui condanna l’occupazione militare israeliana. Il nodo è politico, non solo legale.
La decisione della Cig dovrebbe condurre a degli obblighi. Tra cui quelli degli Stati di non cooperare con un’occupazione illegale. Ciò che accade oggi a Gaza e in Cisgiordania è un precedente gravissimo, gli effetti non si fermeranno lì. Con quale faccia possiamo continuare a dire che Putin è un criminale di guerra? Non siamo più credibili perché abbiamo un doppio standard e ci stiamo annegando dentro. Questo è uno spartiacque della storia. Serve agire ma serve anche giustizia e assunzione di responsabilità di chi ha commesso crimini di guerra: deve pagare, non si può riprendere il business as usual. E credo che a pagare debbano essere anche i governi e le aziende complici nel trasferimento di armi
I palestinesi continuano a denunciare la distruzione da parte di Israele della fabbrica sociale nazionale. Quali sono gli effetti, sulla base della sua esperienza in teatri di guerra?
Ho appena scritto la prefazione per una raccolta di storie di giovani di Gaza degli ultimi 15 anni, We are not numbers. In un racconto una ragazza scrive che nessuno sopravvive davvero alla guerra. Se il massacro si fermasse oggi, gli effetti dureranno decenni. Un’intera popolazione che avrà bisogno di curare il trauma, 20mila bambini rimasti orfani, gli effetti delle deportazioni e della perdita dei mezzi di sussistenza. L’unico modo di uscire vivi da una guerra è non entrare mai in guerra.
Domenica la carovana era al valico di Rafah, il punto di confine tra un genocidio e il mondo. Che impressione le ha lasciato?
Sono molto arrabbiata e molto triste. Ho ricevuto messaggi sui social di palestinesi, mi scrivevano di trovarsi a pochi chilometri da dove eravamo noi, di non avere nemmeno un pacco di farina mentre fuori ci sono 80mila tonnellate di cibo. Sono arrabbiata. Dobbiamo prendere questa rabbia e veicolarla, rientrare in parlamento e lavorare con più forza.
No Comments