SDEMOCRATIZZAZIONE, L’ULTIMA SPIAGGIA DEL CAPITALISMO da IL MANIFESTO
Sdemocratizzazione, l’ultima spiaggia del capitalismo
Crisi democratica Le società democratiche paiono giunte al culmine di un percorso inesorabile. E come sempre i capitalisti e i loro portavoce politici sono in maggioranza dalla parte delle autocrazie
Alfio Mastropaolo 14/02/2025
Sgombrando la paccottiglia populista venduta nei mercatini mediatici e accademici per trent’anni, la rielezione di Trump e il governo Meloni hanno rimesso in primo piano il suprematismo bianco in America e in Europa il nazionalismo etno-identitario.
Che minaccioso dilaga anche fuori dall’occidente. La derivazione della destra ultrà italiana palesemente deriva dal nazionalismo del primo Novecento. Tramite il fascismo, che ne fu forma estrema. Benché paia aver appreso i riti ufficiali della democrazia, non a caso cela a fatica la sua insofferenza. Donde la ferocia con cui cambia le norme, e rimuove ogni contropotere, che contrastino le sue intenzioni. A confermare la sua ascendenza, l’ha celebrata in pompa magna con una discussa mostra sul futurismo. Di qui breve è il passo alla grande tradizione reazionaria, sorta al tempo della Rivoluzione francese. Anti universalista, anti pluralista, anti politica, anti diritti dell’uomo, razzista, fatta d’idee, movimenti, partiti, tale tradizione è variegata e incoerente. Ma è l’altro polo della modernità politica, opponendo l’autocrazia a quell’insieme di tecniche di governo collegiale e condiviso che chiamiamo rappresentativo-democratiche. Da due secoli è la vera alternanza che agita l’Europa.
Viene rilegittimata la tradizione reazionaria dal «fascismo edulcorato», come l’ha definito Marc Lazar, di Berlusconi: il dolcificante con Meloni è finito. Purtroppo, non è il solo nemico del governo rappresentativo-democratico e dei valori sedimentati intorno ad esso. Non meno temibile è il capitalismo. L’inimicizia stavolta è più complessa. I ceti capitalistici nascenti furono decisivi per inventare il governo rappresentativo. Che non ha ancora imparato a fare a meno del capitalismo. Mentre non è vero il contrario. Ciò non toglie – la socialdemocrazia ne era consapevole – che il contrasto sia irriducibile. Il capitalismo si fonda sul primato dell’interesse privato. Il governo rappresentativo, pur se la pratica corrisponde di rado, si legittima invocando il bene pubblico. Benché possano convivere, la democrazia deve stare bene in guardia.
Ogni qualvolta l’autocrazia è prevalsa, i capitalisti – e i loro portavoce politici – erano in maggioranza dalla sua parte. Forse sta di nuovo accadendo. Le società democratiche paiono giunte al culmine di un percorso inesorabile di sdemocratizzazione intrapreso negli anni ‘70, in coincidenza con la crisi della manifattura e il declino dei profitti manifestatosi in quel momento. Da allora, la sdemocratizzazione è occorsa a più livelli. Il postfordismo ha devastato, senza opposizioni, il mondo del lavoro, la cui presenza organizzata era un contropotere fondamentale; welfare e diritti sociali sono stati smantellati; il solidarismo faticosamente penetrato nel senso comune ha ceduto il passo all’utilitarismo egoistico, alla riuscita personale, al merito, alla proprietà privata promossi a valori prioritari. Infine, sottomesse le amministrazioni pubbliche a una pelosa privatizzazione che le ha rese impotenti, sono state riscritte le regole della contesa politica. Chi vince la lotteria elettorale, si dice, è stato intronizzato dal popolo sovrano e governa perciò senza vincoli.
L’ultima mossa dell’odierna rapace variante di capitalismo è il suo pronunciamento a favore della destra ultrà. Già ha messo a sua disposizione mezzi finanziari e un’enorme potenza di fuoco mediatica, anzitutto esasperando la questione migratoria. Come negli anni 20 e 30 del Novecento, moderati e liberali spesso si accodano. Mentre le sinistre pagano i loro cedimenti. Quattro sopra tutti: hanno abbandonato la rappresentanza del mondo del lavoro e dei più deboli, hanno condiviso l’ubriacatura maggioritaria e hanno delegato ai tecnici, hanno soprattutto celebrato il capitalismo come dispositivo neutro e virtuoso: che faccia senza intralci il suo mestiere.
In realtà, il matrimonio con la destra ultrà può essere segno che il capitalismo occidentale sta incontrando difficoltà molto serie. Il neoliberismo ha perso smalto, l’assedio delle potenze emergenti è sempre più stringente, la crisi climatica è in atto. L’occidente a guida americana detiene paurosi mezzi militari, ma sul terreno della competitività perde colpi e i cittadini sono inquieti. Benedetta dagli elettori, l’inclinazione alla brutalità dell’ultradestra potrebbe sottomettere chi provi a resistere. Non fosse che le sfide che favoriscono il matrimonio fanno tremare i polsi, mentre le società occidentali sono troppo complesse per arrendersi come un secolo fa. La brutalità si può usare sui migranti che sono indifesi, con i nativi serve più cautela.
Orbene, se da qualche parte c’è una sinistra d’opposizione, disposta a far ammenda dei suoi errori, sarebbe suo compito accelerare il processo. Oltre denunciare gli oltraggi alla democrazia, facendosi apertamente portavoce delle vittime del capitalismo rapace, pianeta incluso; riscoprendo la democrazia come governo condiviso della cosa pubblica; rammentandosi che il capitalismo non è un dispositivo impersonale, ma un sistema di potere. Non avendo ancora appreso come liberarcene, nei suoi confronti si può riassumere una postura critica: per disciplinarlo, restringerlo e contrastarlo. Si può tornare a programmare e, in alcune sfere, va sostituito. Non è impossibile.
Tra analisi storica e passione civile, il lascito della filosofia italiana
Assemblea di studenti presso l’Aula magna dell’Università di Bologna – Luciano Nicolini – Archivio Storico dell’Università di Bologna
Il pensiero nel nostro Paese ha abbandonato la duplice traiettoria che lo ha sempre caratterizzato. Le Edizioni della Normale presentano sul tema un nuovo volume collettaneo
Carlo Altini 14/02/2025
Che sia di orientamento marxista o cattolico, storicistico o idealistico, la filosofia italiana del Novecento ha due caratteristiche comuni: la sensibilità per la dimensione storica e l’attenzione per le questioni civili. Tali caratteristiche sono presenti già in Bertrando Spaventa e Antonio Labriola, ma diventano centrali con Benedetto Croce, Giovanni Gentile e Antonio Gramsci che – al netto delle loro radicali differenze di visione filosofica e politica – condividono una visione attivistica e pratica del pensiero, tanto che la speculazione è strettamente connessa alla praxis e lo sguardo teoretico esprime una volontà di rinnovamento sociale: questo nesso tra filosofia, politica e praxis esprime infatti la convinzione secondo la quale il sapere storico rappresenta la chiave fondamentale per la comprensione e la trasformazione della realtà.
UNA TALE TENSIONE attivistica della filosofia italiana rimane al centro della cultura del secondo dopoguerra, conducendo anche a una rinnovata riflessione sul ruolo dell’intellettuale, ed è proprio a questa avventura che è dedicato il volume Crisi di una tradizione: la filosofia in Italia, 1945-1970 (Edizioni della Normale, 2024, pp. 366, euro 25), a cura di Federico Ammirabile, Jonathan Salina e Marco Zolli. Il volume prende spunto da un lavoro seminariale tenuto alla Scuola Normale di Pisa tra 2021 e 2023, coordinato da Michele Ciliberto, che ha affiancato una riflessione sul nostro presente a un’indagine storico-filosofica, in un’ottica di valutazione critica del disimpegno al quale hanno ceduto molti intellettuali a partire dagli anni Ottanta. Come recita il titolo del volume, infatti, di quella lunga tradizione civile e pratica, nella filosofia contemporanea si sono perse le tracce: negli studi sulla logica e sull’intelligenza artificiale, sulle immagini e sui concetti, la filosofia italiana ha recentemente abbandonato lo sguardo che l’ha caratterizzata a livello accademico internazionale e che ne ha costituito il suo punto di forza sociale, cioè la circolarità tra analisi storica e sensibilità politica. Addirittura, negli ultimi anni, è stato più in generale messo in dubbio il ruolo stesso del sapere storico, considerato inutile e inconsistente per l’analisi del contemporaneo e la progettazione del futuro, entrambi giocati sull’istantaneità della comunicazione digitale.
NON È QUI lo spazio per entrare nel merito dei singoli saggi contenuti nel volume, ognuno dei quali dedicato a una figura eminente della filosofia italiana del dopoguerra (Nicola Badaloni, Norberto Bobbio, Guido Calogero, Mario Dal Pra, Eugenio Garin, Ludovico Geymonat, Cesare Luporini, Giulio Preti e altri), anche perché sembra più significativo soffermarsi sul significato epocale della cesura sulla quale il volume vuol portare attenzione. La presentazione degli autori qui studiati conferma il taglio engagé dell’interpretazione della filosofia italiana del dopoguerra, a metà tra sguardo storico-filosofico e riflessione filosofico-politica. Ovviamente il volume non intende presentarsi sotto la veste della completezza enciclopedica, ma intende parlare di una specifica interpretazione pratica e storica della filosofia, che però si interrompe nel corso degli anni Settanta: «In questi anni si compie, oltre che la crisi del paradigma storico-filosofico, quella di un’intera tradizione che si era espressa nel primato della storia. Si affermano altri autori – Heidegger, Gadamer, Nietzsche, Wittgenstein – e altri movimenti, a cominciare dal pensiero negativo, che diventano i nuovi punti di riferimento della cultura filosofica italiana».
I FATTORI DI QUESTA CRISI possono essere molti, tra cui la violenza degli anni di piombo, la crisi ideologica del comunismo sovietico, la stanchezza per le «scolastiche» dello storicismo e del marxismo. Ma tutto ciò non è una buona ragione per abbandonare il nesso virtuoso tra storia, politica, filosofia e praxis che ha caratterizzato – sia a livello accademico, sia a livello sociale – la filosofia italiana fino agli anni Settanta, anche perché le sue attuali derive iper-specialistiche (con un ripiegamento all’interno di mura accademiche dominate dai meccanismi di valutazione aziendale) e narcisistiche (con un’esposizione edonistica e aleatoria al consumismo dei festival) hanno fatto scomparire la filosofia dall’orizzonte della teoria critica e della discussione politica. Non a caso, rispetto alla precedente concezione attivistica, dobbiamo constatare che oggi nella cultura italiana sembra prevalere una visione «ornamentale» del sapere filosofico, che inclina o al narcisismo comunicativo (da salotto) o al marketing territoriale (da comitato d’affari). Nulla a che vedere, purtroppo, con la tensione attivistica rivolta alla vita sociale e politica.
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