GUERRA, PATRIA, PATRIARCATO da LA CITTA’ INVISIBILE
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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GUERRA, PATRIA, PATRIARCATO da LA CITTA’ INVISIBILE

Improvvisamente la guerra è tornata. In questi seicento giorni ho partecipato a un crescendo di dibattiti. Spesso mi sono lasciata trasportare dalle emozioni, da incredulità, da rabbia. Da paura, anche, perché siamo nel centro della guerra: le basi militari sono vicine.

Vorrei porre una questione: se la guerra – secondo la tradizione che va da Hegel fino all’attuale capo del Governo – consente alla Storia di non scrivere solo pagine bianche, o se la guerra non sia viceversa che la morte della ragione, la fine della ragione. Lo vorrei dimostrare con vari argomenti.

Il primo di questi argomenti lo prendo a prestito dal filosofo Immanuel Kant, tra i fondatori del razionalismo contemporaneo, che mentre scriveva il suo libro sulla pace perpetua teneva sul tavolo il mappamondo. È difficile oggi trovare un mappamondo, perché noi regaliamo videogiochi, invece di regalare questo oggetto bellissimo ai bambini e a noi stessi, per ricordarci che la Terra è tonda, che il nord e il sud, l’est e l’ovest sono convenzioni, che le linee nere di confine tra gli stati sono altrettante convenzioni che, fra l’altro, si spostano molto rapidamente. E se queste sono convenzioni, significa che gli stati nazionali, con i loro muri e confini, per i quali si può andare a morire, non vengono primi. La ragione ci dice che priorità è la Terra, culla del vivente. E poiché la superficie terrestre è praticabile da tutti gli esseri viventi, tutti hanno una comunità di destino: animali, piante, esseri umani di tutte le parti del mondo si salvano solo se questi ultimi, attraverso la ragione comprendono di appartenere alla stessa madre Terra. Questa idea è fortemente politica, nacque dalle macerie della Seconda Guerra Mondiale.

Ancora sotto i bombardamenti, i ministri di Inghilterra e Francia, raccogliendo l’invito alla “pace perpetua” di Kant (ma anche di altri nobili spiriti, Freud, Einstein ecc.), pensarono che ci volesse un’istituzione mondiale per proteggere la Terra. Così, a guerra finita, fondarono l’UNESCO, l’Organizzazione delle Nazioni Unite che oggi conta 193 stati aderenti. Le Nazioni Unite fecero una cessione di sovranità e, insieme, pensarono un nuovo soggetto etico-politico: l’umanità. Da allora, tutte le risoluzioni UNESCO hanno come attore principale l’umanità, il patrimonio dell’umanità ecc. Questa cessione di sovranità degli stati, nell’art. 1 dello Statuto UNESCO, dice: mai più guerra.

Dice inoltre che per eliminare la guerra non bastano trattati e negoziazioni: bisogna eliminare la guerra dalla mente degli uomini. Noi ci abbiamo creduto, ci abbiamo creduto, abbiamo fatto educazione alla pace, convegni, marce, scritto libri, nell’idea che si potesse togliere la guerra dalla mente degli uomini.

Improvvisamente la guerra è tornata con tutto il suo rituale barbarico, nel mito dell’orda primitiva, nel culto degli stati, nei confini, della patria. E noi dobbiamo dichiarare forse il nostro fallimento, ma anche rimboccarci le maniche e pensare che il “mai più” può essere possibile. Non basta un pacifismo superficiale, ci vuole un pacifismo profondo, radicale, perché il pacifismo stesso è messo in crisi dall’irrazionalità dei guerrieri, e diviene impensabile.

Non mi convince quando diciamo, razionalmente, che se i soldi sono impegnati nella guerra sono sottratti alla sanità, agli ospedali. Se anche avessimo mille ospedali, fossimo ricchissimi e non esistesse un problema di risorse, credo che dovremmo continuare a dire “mai più”. Cioè, dovremmo avere nella nostra mente l’idea che non si uccide, mai. Primo, non uccidere mai. È il dovere in nome dell’umanità.

Il giudice Michele Di Schiena ci invitava a un’alternativa che fosse vigile sulle diseguaglianze, implicitamente, ma anche esplicitamente, facendo una critica al sistema economico che chiamiamo capitalismo. Ora, il capitalismo è sempre stato feroce nello sfruttamento degli uomini e della natura. È però particolarmente feroce in questi tempi. Una studiosa americana, Noemi Klein, lo chiama “capitalismo da shock”, perché è un capitalismo che si arricchisce sui disastri, terremoti, alluvioni, guerre. E, se non ci sono questi disastri, li costruisce, in un circuito che aumenta i profitti.

Questo capitalismo da shock, che ha perso quella narrativa e quella ideologia del capitalismo liberale, ha una ferocia insita. L’abbiamo visto in una scena creata dall’intelligenza artificiale – per me – di orrore: Trump e Netanyahu bevono lo spritz sulle macerie di Gaza, pensando alla ricostruzione, circondati da donne barbute che fanno la danza del ventre. I potenti della Terra già pregustano l’idea che su quel grande cimitero di esseri umani, di bambini morti – e quelli che non sono morti non hanno più braccia, gambe, non hanno le madri, non hanno i padri, non hanno le scuole –, pregustano appunto la riviera con i villaggi turistici e gli affari legati al turismo. Ma che pietà, che compassione.

La compassione è un fatto della ragione, non è un’emozione. La compassione è un fatto della sopravvivenza, del valore della vita. La vita, la civiltà, l’umanità è nata sulle sepolture. La parola umanità viene da inumare, da seppellire. Se seppellisco, lo faccio per me e per il morto. Dico che quella vita ha avuto un senso e che, anche nel legame, la mia vita ha un senso di continuità. Seppellisco e piango.

Noi, meridionali, abbiamo inventato pianto rituale, cioè il pianto collettivo di fronte alla morte, per far sì che quella vita non sia stata vana e che col nostro pianto possiamo dire che continuerà, sia la vita sia il legame.

Noi abbiamo cari i ricordi. Che bella parola! In inglese non esiste, hanno solo la parola memory, non memoria come ricordo, come noi che veniamo dai greci. “Ricordo” vuol dire riportare al cuore, riportare il passato, riportare una persona cara al cuore e dare non solo sepoltura, ma mantenere in vita quel significato. Invece, il capitalismo da shock vuole distruggere, annientare. Non c’è più niente. Non c’è memoria, non c’è ricordo e quindi non ci sarà futuro.

Ma la ragione viene anche messa in crisi – e lì il mio cuore trema – da quello che si chiama l’occidentalismo, con tutte le forme culturali e reali di colonialismo.

Oggi viene detto che l’occidente è rappresentato da Israele, che la democrazia occidentale è rappresentata dal suo avamposto che è Israele. Ora, a parte che è veramente difficile di fronte a un minimo di conoscenza della storia, capire che cos’è questo occidente. Perché questo occidente ha i numeri arabi, ha la scrittura di origine fenicia, ma anche la cultura alimentare: riso, patate e cozze è uguale al cuscus.

Posto anche che Israele sia la democrazia più avanzata d’Occidente, si tratta una democrazia orripilante, ma non solo perché c’è Netanyahu. Questa è la cosa che forse è più difficile da dire, perché dietro Netanyahu, a compiere questo genocidio, questo inaudito massacro, sono i suoi ministri, generali, 188.000 soldati professionisti e i 450.000 riservisti. Nella struttura estremamente militare dello Stato di Israele, che si sente accerchiato, i riservisti sono persone comuni – infermieri, maestri ecc. – che vengono richiamate ogni sei mesi. Lì il servizio militare dura tre anni per gli uomini, due anni e mezzo per le donne. E quindi anche i riservisti partecipano a questo massacro. Poi ci sono i coloni che da quando è nato Israele pensano, chissà come, che quella terra è loro e quindi possono fare di tutto.

La Knesset, la Camera unica del Parlamento israeliano, nel 2017 ha approvato quasi all’unanimità il principio del sionismo. Mentre l’UNESCO, nel 2015, aveva bollato il sionismo come una delle forme più bieche di razzismo. Il sionismo è legge dello stato di Israele: gli unici ad avere diritti di cittadinanza – in un paese in cui convivono ebrei, musulmani, cristiani – sono gli ebrei. La lingua è quella ebraica, le feste sono quelle ebraiche, gli altri non sono cittadini. E allora forse non solo chi sta facendo il massacro andrebbe additato come colpevole, ma forse anche il principio del sionismo e ogni principio razzista, ogni principio etnocentrico, ogni principio occidentalista che ritiene che un popolo possa essere superiore all’altro per razza, per religioni o per altri motivi.

Credo che oggi i pacifisti radicali non dovrebbero limitarsi a condannare Netanyahu; dovrebbero chiedere una Corte internazionale di Giustizia.

Esistono due modelli di Corti internazionali di Giustizia di fronte a massacri analoghi. Una fu istituita dopo la Seconda guerra mondiale nel processo di Nürnberg, nel quale si scontravano due potenze care alla letteratura greca: Antigone e Creonte. Da una parte i criminali nazisti che in nome di Creonte dicevano di non essere criminali perché avevano obbedito alla legge dello Stato. Dall’altra, gli avvocati che poi riuscirono a istruire il processo di Nürnberg in nome di Antigone, eroina dei diritti umani, dissero che benché esista la legge positiva che dobbiamo rispettare, esiste anche una legge più antica che è la legge di natura, la legge del cuore, la legge delle divinità, il diritto naturale che vuole rispetto della vita, sepoltura, dignità, memoria.

E poi esiste un altro tipo di Corte internazionale che forse dovremmo imitare in questa attribuzione di colpa a chi materialmente ha compiuto il massacro, ma anche all’ideologia sionista. Mi sono personalmente trovata a partecipare proprio agli ultimi atti, quando sono andata in Sudafrica al vertice dello sviluppo sostenibile. I crimini a processo erano quelli terribili dell’Apartheid. Mandela istituì una Commissione per la riconciliazione, affidandondola a un vescovo, Desmond Tutu, uomo straordinario. Mi stupii che di fronte a tanti massacri fosse prevedibile il perdono, la riconciliazione. Ma la corte funzionava su questo principio: i carnefici devono dichiararsi e devono nominare le vittime, e tutte le vittime, migliaia, migliaia furono chiamate per nome, perché non basta una giustizia che cancella le vittime, perché ci vuole anche qui, nel caso di Gaza, una giustizia che restituisca il nome e quindi il ricordo alle 60.000 vittime, o 300.000, quando sarà più chiara l’entità del massacro.

Infine, il patriarcato, un male antico, più antico del conflitto uomo-donna come ha spiegato Freud. Il patriarcato non è solo l’offesa che alcuni uomini violenti – non tutti, ci sono tanti uomini gentili – fanno alle donne. Il patriarcato nasce come odio dei vecchi sui giovani. Questo è il patriarcato. I vecchi, invidiosi dei giovani, li devono punire. I giovani poi possono ribellarsi. Il patriarcato nasce su questa idea che si possa fare del male ai giovani. E qui risorge il patriarcato: li vedete i signori della guerra? Sono tutti vecchi, Netanyahu, Putin.

E chi muore, però, nella resistenza coatta dell’Ucraina? Tutti ventenni, o i bambini. E chi muore dall’altra parte? I giovani soldati russi costretti, i ragazzi di vent’anni. E in Palestina anche muoiono i giovani, muoiono i bambini.

Questo patriarcato violento ha fondato l’idea di patria, l’idea di patria nasce proprio dai patriarchi e dei patrimoni. E allora forse quest’idea di patria, che corrisponde all’idea di confine, di patriota e di tutto il rituale dell’eroismo, dell’amor di patria, del sacrificio di patria, dovrebbe essere ribaltata.

Chi può ribaltare tutto ciò? Credo che potrebbero, dovrebbero farlo le donne. Purtroppo, fra gli orrori di questi seicento giorni, ho visto tante donne in divisa. Oggi, a comandare questa Europa del riarmo armato, sono donne. Sono quattro, cinque donne molto potenti che, a partire dalla nostra Presidenta, hanno questo terribile amore per la guerra.

E vediamo in divisa anche le soldatesse americane e quelle israeliane che mandano le truppe. Abbiamo visto, qui da noi, tante generalesse durante la fiera del Levante, che invitavano i bambini a farsi le fotografie sui carri armatiLe vediamo nelle scuole, nelle scuole invase – ma il tema è troppo lungo, non posso aprirlo qui – da una militarizzazione crescente delle coscienze, non solo perché i militari entrano nelle scuole a fare educazione alla legalità, ma perché seducono i ragazzi, e quanto più sono fragili i ragazzi, tanto più vengono sedotti dal fascino della divisa. E come nel 1935, sono invasi anche i contenuti culturali: l’Italia entrò in guerra nel ‘35, quando Del Vecchio promosse la riforma sul “Libro e Moschetto”, cominciarono a veicolarsi valori fondati sulla gara, sulla competizione, sulla sopraffazione, sul merito (oggi non si chiama più Ministero della pubblica istruzione, ma Ministero del Merito). Il compagno di banco non è più la persona a cui devi volere bene. Il compagno di banco è il tuo nemico, devi sopraffarlo.

Bene, in tutto questo le donne tacciono. E questo, secondo me, è contro ragione, non contro natura perché la maternità non è un fatto di natura. La maternità è un fatto simbolico di accettazione, è un fatto anche storico, è un fatto etico. La maternità non solo del mio bambino, della mia bambina, ma la maternità dei figli della Terra.

E allora io mi rifugio, e chiudo, in un testo che amo, dichiarandomi figlia di Ecuba. In un celebre passo dell’Iliade, straordinario, Ettore che sta partendo per il duello con Achille. I troiani, tutti, il popolo di Troia, il vecchio padre, moglie di Ettore, gli dicono: “ma dove vai? Achille è una macchina da guerra, è stato costruito per la guerra, tu morirai, morirà Troia con te, a che serve il tuo sacrificio?” Ma gli uomini, si sa, devono fargli eroi, deve partire per la guerra. E la moglie gli dice: “ma per che cosa vai a combattere? La patria, siamo noi, sono i tuoi figli, sono i tuoi amici, sono i troiani, la perderai lo stesso, la patria”. Niente, l’eroe si deve andare a sacrificare. Allora la vecchia madre fa un gesto straordinario, che tutti noi dovremmo fare. Si scopre il seno e dice: “figlio, questo seno che ti ha dato il latte, che ti ha dato la vita, non può essere complice con la morte”.

Noi questo dovremmo fare. Dovremmo aggiungere anche un’altra parola, non solo la disobbedienza di Antigone, ma la parola contenuta in un canto della prima guerra mondiale, il Canto del disertore, che dice: “Non ti darò mio figlio”. Ecco, io – a te – mio figlio non lo darò.

Il testo è la trascrizione del contributo di Laura Marchetti al convegno “Ripudia la Guerra_Prepara la Pace”, promosso dall’Archivio per l’Alternativa “Michele Di Schiena” in collaborazione con il Movimento Manifesto 4 Ottobre e tenutosi a Brindisi il 25 giugno 2025. Il video dell’incontro è consultabile qui: https://www.youtube.com/watch?v=QSuesPpoMuk. Trascrizione a cura di Ilaria Agostini. L’articolo orginale è apparso su La Città invisibile

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