Perché l’università deve salvare i saperi inutili
di Juan Carlos DE MARTIN –
Formare persone e non solo lavoratori. Promuovere la conoscenza. Servire la democrazia. Ecco le sfide degli atenei del futuro.
Come dovrebbe essere l’università per aiutare la società ad affrontare le sfide che emergeranno nei prossimi anni? L’università è — per definizione — un luogo fisico che ospita persone che hanno deciso di dedicare la propria vita (i professori) o alcuni anni della loro vita (gli studenti) alla conoscenza. Facendo nostre le parole del pensatore inglese Michael Oakeshott:
«L’università è un corpo (corporate body) di studiosi, ciascuno devoto a una particolare branca del sapere: ciò che è caratteristico è la ricerca del sapere come impresa cooperativa. I membri di questo corpo non sono sparsi per il mondo, soggetti solo a incontri occasionali (o a nessun incontro); essi vivono in prossimità reciproca permanente. E di conseguenza trascureremmo parte del carattere di un’università se omettessimo di pensarla come un luogo fisico. Un’università, inoltre, è una casa del sapere, un posto dove una tradizione di dedizione al sapere è preservata ed estesa, e dove l’apparato necessario per la ricerca del sapere è operativo».
Se questa definizione di università è con ogni probabilità condivisibile da chiunque, le cose cambiano nel momento in cui ci chiediamo quale debba essere la modalità di relazione tra gli studiosi dell’università: competitiva come in una gara? Organizzata per produrre sapere e formare studenti come una fabbrica? Anche in questo caso seguiremo Oakeshott, accogliendo la sua idea di università come conversazione:
«La ricerca del sapere non è una gara nella quale i competitori lottano per il posto migliore, non è neanche un litigio o un simposio; è una conversazione. E la virtù particolare di un’università (come posto dai molti studi) è di esibirlo nel suo carattere, ogni studio come una voce il cui tono non è né tirannico né lamentoso, ma umile e affabile. Una conversazione non ha bisogno di un moderatore, non ha una traiettoria predeterminata, non si chiede a che cosa serva e non ne giudichiamo la sua eccellenza da come si conclude; non ha alcuna conclusione, ma rimane sempre a disposizione per un altro giorno. La sua integrazione non è imposta dall’alto, ma nasce dalla qualità delle voci che parlano, e il suo valore consiste nelle tracce che lascia nelle menti di coloro che partecipano».
Professori e studenti, dunque, sono studiosi accomunati dalla scelta di passare del tempo in stretta prossimità reciproca con l’intento di partecipare, con ruoli diversi, a una conversazione — o potremmo anche dire, citando Hannah Arendt, per pensare insieme. I professori sono più avanti degli studenti lungo la strada della conoscenza e quindi indicano la via. I secondi si uniscono alla conversazione e seguono i passi dei primi. Alcuni di loro nel tempo li raggiungeranno e li supereranno, prendendo infine il loro posto; tutti gli altri, invece, lasceranno l’università ed entreranno nel mondo.
In questo libro esploreremo — avendo in mente le sfide — come dovrebbe essere l’università e per farlo ci concentreremo su tre obiettivi.
Prima di tutto l’università per la persona: che cosa dovrebbe fare l’università per gli studenti? Quali obiettivi, raggiunti in quale modo? È dagli studenti, infatti, che nasce l’università e continuano a essere gli studenti il senso della sua esistenza. Ma il ruolo dell’università verso gli studenti è molto cambiato in questi ultimi anni: in particolare ci si è concentrati sul formare studenti in quanto futuri lavoratori. È ora che l’università torni a educare persone — che poi saranno anche lavoratori in grado di rimanere produttivi e intelligenti a lungo — e non a formare lavoratori con competenze che rischiano di essere di corto respiro. Aiutare gli studenti a essere persone realizzate, cittadini consapevoli e lavoratori intelligenti. Questo è uno dei principali contributi che l’università deve dare per aiutare la società ad affrontare le sei sfide.
In secondo luogo, l’università per il sapere. L’università è quello che è oggi perché da quasi mille anni continua a preservare, tramandare, commentare ed estendere un corpo comune di conoscenza. Ogni università lo fa a modo suo, con i suoi punti di forza e le sue debolezze, i suoi alti e i suoi bassi, ma in ogni caso contribuisce all’impresa collettiva dell’università come entità diffusa.
Anche in questo caso, però, in questi ultimi anni alcuni aspetti del rapporto dell’università con la conoscenza sono stati privilegiati — in particolare la produzione di conoscenza ritenuta utile — a danno delle altre attività, come preservare, tramandare, commentare e produrre conoscenza in direzioni non considerate immediatamente utili. Le sei sfide impongono invece all’università di tornare ad avere uno sguardo lungo, uno sguardo che pensa in termini di generazioni e di secoli, per non interrompere la trasmissione del sapere che abbiamo ricevuto dalle generazioni precedenti, ma anche per favorire la coltivazione di settori della conoscenza che in questo momento sono ritenuti economicamente poco “utili”, ma che sono invece civilmente e culturalmente tali.
Non solo: preservare una sorta di ecodiversità della conoscenza è anche un modo per rendere la società più resiliente: non sappiamo, infatti, di quale conoscenza avremo bisogno in futuro. In passato si è visto che conoscenza considerata “inutile” si è dimostrata spesso inaspettatamente utile, e non abbiamo motivo di dubitare che questo possa capitare di nuovo in futuro. Ma se questa generazione desertificherà, come purtroppo sta facendo, interi settori del sapere i nostri figli perderanno un patrimonio di conoscenze potenzialmente inestimabile.
In terzo e ultimo luogo, l’università per la società democratica.
Come abbiamo visto, l’università in questi anni è stata schiacciata sugli aspetti economici della sua missione. Ma è ora che l’università ricordi a se stessa, ai suoi studenti e a tutta la cittadinanza di essere una istituzione che in democrazia ha rango quasi costituzionale. È uno di quegli organi intermedi che possono dare un contributo importante a rafforzare la democrazia.
Senza ovviamente mai entrare in politica — intesa come competizione tra forze politiche — l’università ha un enorme potenziale democratico; un potenziale che in altri paesi è chiaro, ma che in Italia attende di venire discusso, capito e, soprattutto, praticato. Non solo le sfide includono quella democratica, ma più in generale è legittimo aspettarsi che le sfide metteranno sotto enorme pressione la democrazia: l’università ha il dovere morale di interrogarsi sui suoi doveri nei confronti della democrazia e di agire di conseguenza. In questo libro ci concentreremo solo su studenti, professori e su quella che chiameremo la comunità accademica estesa. Così facendo ritroveremo i tre obiettivi — l’università per la persona, per il sapere e per la società democratica — ma incarnati nelle persone che l’università la fanno vivere tutti i giorni — le persone impegnate nella conversazione così eloquentemente evocata da Michael Oakeshott.
[l’anticipazione di Università futura di Juan Carlos De Martin è apparsa su “la Repubblica” , 7 febbraio 2017]
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