Didattica minima. Anacronismi della scuola rinnovata
di Anna ANGELUCCI, da “orizzontescuola.it“, 19 luglio
“La Buona Scuola è da intendersi come l’avanguardia pseudo-futuristica della conservazione, il luogo del trionfo della logica contabile, dell’impresa come orizzonte normativo totale. Che rivoluzione è mai questa?”
Può, una riflessione sulla scuola – che fin dal titolo dichiara una puntuale chiave di lettura pedagogico-filosofica in un orizzonte diacronico che assume il passato per focalizzare il presente, rivelando all’istante una vocazione insieme narrativa e saggistica – essere praticamente perfetta? Può, un breve trattato che si interroga sulla didattica, sulla storia della didattica, sulla razionalità didattica della tradizione e della contemporaneità – con incursioni necessarie e circostanziate nel pensiero scientifico, nell’economia, nella letteratura, nella cronaca, nell’etica e nella politica – appassionare come un racconto che, quando iniziato, non si può più smettere di leggere fino alla fine? Può, un compendio denso e agile che chiarisce la genealogia della condizione attuale dell’istituzione scolastica attraverso i fondamenti di una teoria critica della società, riepilogare l’evoluzione postmoderna dell’insegnamento senza scadere nella contingenza effimera del pamphlet né nella trappola del pensiero debole, configurandosi dunque come un prezioso breviario?
Didattica minima (Libreria Universitaria, Padova, 2017) di Mino Conte, docente di Filosofia dell’Educazione all’Università di Padova, ci aiuta a riconoscere la dimensione, il perimetro in cui, come insegnanti, siamo oggi costipati: in una scuola anacronistica, in cui i tradizionali meccanismi di riproduzione sociale – dell’ideologia dominante, del pensiero egemonico – appaiono definitivamente cristallizzati nella formula indiscutibile dell’homo oeconomicus, unica per tutti, e in una non più praticabile contrapposizione antagonistica, lotta di classe, dinamica del conflitto, riflessione contrastiva, un tempo rese possibili dalla messa a punto di un pensiero e di una prassi alternativi e critici.
Le categorie filosofiche primo francofortesi, enucleate nel capitolo iniziale del libro, alla luce delle quali vengono opportunamente reinterpretate e desacralizzate alcune delle più significative correnti pedagogiche attiviste e pragmatiste del Novecento, ci aiutano a definire i contorni della nuova razionalità strumentale che sta annullando ogni nostra possibile dimensione etico-politica, trasformandoci in funzionari tecnici d’apparato, finalizzati a pratiche esecutive “prive di senso e di valore intrinseco, perché caduche e oggetto di consumo, incapaci di generare un’esperienza eccedente” (pag. 33). Perché questo, un’esperienza eccedente, l’arricchimento di sé con qualcos’altro da sé, era o avrebbe dovuto essere il risultato di un percorso di insegnamento e apprendimento, il suo valore aggiunto. E questo è proprio ciò che viene sistematicamente e scientemente impedito oggi, attraverso la minuziosa burocratizzazione del lavoro del docente, attraverso la sua trasformazione antropologica in operatore neutrale, oggettivo, interscambiabile con chiunque altro attraverso la sistematica proceduralizzazione di tutte le sue attività: dall’appello iniziale, semplice spunta sul registro elettronico, spalle alla classe; alla lezione, senza significative distinzioni disciplinari nel coacervato dell’“organico dell’autonomia” e sempre più immobilizzata nelle forme pre-pensate della digitalizzazione; alla verifica e valutazione, indifferentemente realizzata dal maestro, dal professore o dai terminali Invalsi.
Il secondo capitolo declina pazientemente i principi educativi dell’attuale pedagogia neoliberista, mettendo in fila tutti gli elementi che caratterizzano la governance della nuova scuola – la Buona Scuola, naturalmente, e i suoi prodromi nell’autonomia scolastica di berlingueriana memoria – e i paradigmi che la informano: competenze, utilitarismi, pragmatismi, metodologismi vari, al servizio di una didattica performativa che inneggia all’innovazione tecnologica, al progressismo avanguardista, al cambiamento (“e non ditemi che non vi eravate accorti di nulla ….” ci ammonisce costantemente l’autore, in una doccia fredda di realistica consapevolezza, troppo spesso volontariamente negata da docenti imbalsamati in una colpevole apoliticità). Ed è con questo stesso sguardo che, nelle pagine che seguono, la riflessione sulla proposta educativa elaborata a suo tempo da Don Milani assume una prospettiva critica rispetto all’interpretazione dominante: come nel volume Gramsci per la scuola. Conoscere è vivere, di Giuseppe Benedetti e Donatella Coccoli (L’asino d’oro, 2018), in cui un intero capitolo è dedicato all’“anti-Gramsci” della scuola italiana, anche qui si condanna “una pedagogia fieramente anti-intellettualistica che coltiva la felicità dell’identico” (pag.112). Un’eresia, si chiede Mino Conte e non è il solo, che conteneva i prodromi dell’ortodossia di oggi, fino ad impedire – forse per una paradossale eterogenesi dei fini, possiamo aggiungere – l’oltrepassamento delle attuali subalternità? È una riflessione indubbiamente molto complicata e delicata, che non può fare a meno di ripensamenti storici e di attraversamenti socio-culturali che incrociano la politica scolastica e le riforme degli ultimi decenni. Ma che, credo, andrà fatta.
Cosa ci aspettiamo alla fine di questa intensa esplorazione della attuale ‘didattica minima’, così come empiricamente tutti noi, docenti della Buona Scuola, percepivamo, avendo adesso, dopo la lettura attenta del libro, acquisito alcune chiavi di interpretazione, a partire dalla ricostruzione genealogica che ci permette di vedere questa istituzione anche in una prospettiva storico-politica?
La prima pagina ci aveva catturato con un preambolo attorno a due domande eluse o sfuggite, cominciando “dalla fine, o forse dal fine” (pag. 5). Due domande difficilissime: “Che cosa vuol dire insegnare? Chi è l’insegnante?”
Ovvero, qual è il senso del nostro lavoro? Chi siamo noi? Possiamo ancora essere diversi da come oggi ci chiedono di essere? Possiamo formulare un giudizio e una scelta autonomi, assumere una nostra postura morale, rivendicare una dimensione politica che ci consenta ancora percorsi autonomi di soggettivizzazione, anche come insegnanti?
Possiamo essere liberi? Possiamo indignarci ed esprimere un sentimento di intolleranza e rifiuto rispetto allo stato di cose presenti? Possiamo pronunciare un ‘preferirei di no’ come opzione eticamente praticabile per chi crede e rivendica una scuola, una società e un mondo profondamente diversi?
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