IL LAVORO PER COSTRUIRE UNA SOCIETÀ EGUALITARIA da IL MANIFESTO e L’ESPRESSO
Sindacato confederale e sinistra politica. I gemelli siamesi
Cgil e sinistra. Nella futura conferenza di organizzazione della Cgil sarà importante discutere del sindacato confederale contro le spinte verso una corporativizzazione del lavoro
La futura conferenza di organizzazione della Cgil può diventare un vero punto-nave sul sindacato confederale, storicamente punto di confluenza di tre percorsi, due interni e dipendenti dal peso che la tecnologia ha nella organizzazione del lavoro, e da come l’organizzazione del lavoro modella la forma-sindacato.
E naturalmente l’avvicendarsi del capitalismo prima manchesteriano, poi fordista, oggi della Silicon Valley, richiede una messa a punto continua e sistematica della idea di confederalità. Il terzo discorso, di contesto, rimanda alla configurazione della sinistra (liberal, socialista, cristiana, più o meno interclassista, più o meno distante dal sindacato confederale, ecc). Sindacato confederale e sinistra politica sono stati, sono nei momenti migliori gemelli siamesi: simul stabunt, simul cadent.
La forma sindacato confederale è stata il miglior prodotto di sindacato politico. E i più significativi artefici di sono stati i comunisti e i socialisti italiani. Lo sconvolgimento politico degli anni novanta – estinzione del Psi e del Pci – pose alla Cgil un interrogativo drammatico: può sopravvivere il sindacato confederale con la scomparsa delle forze che lo avevano animato e sorretto?
Nella concitazione del momento, dall’interno della Cgil abbiamo avuto – per semplificare, – sostanzialmente tre risposte.
Bruno Trentin propose il Sindacato di Programma, un sindacato/partito dotato persino di un suo programma fondamentale, (unico precedente ma di partito, la Spd tedesca) quasi a riassumere nella forma-sindacato anche tematiche classicamente di partito. La proposta di Trentin fu largamente maggioritaria, mise al riparo la Cgil dagli effetti più distruttivi provocati dal collasso della sinistra storica, ma in definitiva aiutò solo a guadagnare tempo.
Il tema del rapporto biunivoco tra sinistra politica e sindacato confederale tende inevitabilmente a riemergere. Specialmente oggi.
Sergio Garavini suggerì invece un’altra via, a partire certo dalla centralità del sindacato, ma anche dalla sua congenita insufficienza politica: la ricostituzione di un partito comunista, la ricostituzione cioè del più conseguente “gemello siamese” del sindacato confederale.
Infine Claudio Sabattini, all’interno della costruzione trentiniana, si fa portatore, dalla Fiom, dell’idea del sindacato indipendente. Un sindacato – a mio giudizio – molto simile ad un gruppo di pressione, fortemente identitario, duro, ma inevitabilmente “corporativo”.
L’assenza del Gemello Siamese, portatore di una visione del lavoro come soggetto autonomo e a sua volta costruttore di una società egualitaria, ha pesato in maniera determinante sulla stessa forma-sindacato. Lo scivolamento verso pratiche corporative trova difese sempre più aggirabili.
La “via dei Fondi”, io la chiamo così, senza mai essere teorizzata e tanto meno formalmente scelta, diventa sempre più praticata. Nel tempo, quello che era stato un accorgimento tattico, – agganciare le qualifiche più alte del lavoro -, cioè il fondo previdenziale nazionale integrativo di previdenza, introdotto da Sergio Cofferati nel contratto dei chimici, dilaga in tutte le categorie, doppiato dai fondi sanitari. E non solo nel contratto nazionale. I Fondi sono replicati in ogni dove. Fondi aziendali fino al carrello della spesa, o fondi sanitari integrativi, esentasse, estesi anche ai familiari.
La “via dei Fondi” conduce necessariamente alla corporativizzazione del lavoro. Tanto più è praticata, specie attraverso il sostegno fiscale – un fisco poi nei fatti regressivo – tanto più si approfondiscono le disuguaglianze interne al mondo del lavoro, tanto più il processo di corporativizzazione si incancrenisce, tanto più declina l’idea del sindacato confederale e quindi, l’autonomia del lavoro.
Al capolinea della “via dei Fondi” non può che trovarsi l’aristocrazia operaia.
Pur cogliendo certamente diversi aspetti problematici nei propositi di razionalizzazione (non nuovi) dei documenti proposti alla discussione, penso che per rendere veramente importante questo momento di riflessione del corpo attivo della Cgil, vada promosso con urgenza un confronto sia sula sempre più estesa corporativizzazione del lavoro e come contrastarla, che sull’altro corno del problema, ovvero sull’enorme tema del Fratello Siamese e della sua configurazione.
Il tema cioè della organizzazione della sinistra politica.
La Cgil è ancora oggi il deposito più grande, se non l’unico rimasto, di uomini e mezzi della sinistra. Aspettare dall’esterno una cosiddetta offerta politica e non partecipare a costruirla, non ha portato né potrà portare molto lontano.
La proposta politica più ambiziosa della Cgil degli ultimi decenni – la riscrittura di un nuovo Statuto del Lavoro è il massimo della capacità di proposta del sindacato – è stata ridotta ad un esercizio di letteratura per l’assenza di un Partito del lavoro, cioè di un interlocutore politico in grado di assumere e tradurre in legge tale proposta.
Il confronto con il precedente storico degli anni ’70 – quello dello Statuto Brodolini – è impietoso. I dirigenti della Cgil dovrebbero fare come i generali francesi dopo la sconfitta di Sedan: parlarne poco ma pensarci sempre. Senza un interlocutore politico – il fratello siamese – la cosiddetta autonomia del sociale è destinata a consumarsi e a spegnersi in pratiche corporative. Inevitabilmente.
Senza una sinistra del lavoro, il sindacato è ricacciato implacabilmente e progressivamente indietro al suo ruolo più elementare, direi persino eterno.
Paolo Matthiae, riportando alla luce Ebla, la grande città-stato tra il Nilo e l’Eufrate, tra le macerie ha rinvenuto anche le tavolette di creta su cui erano scritte le formule del cottimo.
L’esodo dilagante dei giovani che il Pnrr ignora
In Italia i giovani stanno peggio che nei principali paesi europei. Siamo agli ultimi posti per numero di occupati (dopo di noi solo la Spagna) e primi nell’intera Unione per quanto riguarda i cosiddetti Neet (giovani che né studiano né lavorano). 29,4% contro una media Ue del 17,6%. A questa frattura generazionale si aggiunge una frattura territoriale, perché i giovani disoccupati e sfiduciati sono prevalentemente nel Mezzogiorno.
Secondo Bruxelles alla base di quest’alta disoccupazione giovanile ci sarebbe un disallineamento tra le competenze acquisite dai giovani e quelle richieste dalle imprese. Mancano i «profili adatti», dicono. Può bastare come motivazione? Riducendo il tutto ad una questione di mercato, dove le priorità sono fissate esclusivamente dal capitale privato (anche quando i soldi li mette lo Stato), forse si. Ma fuori dal mercato di beni e servizi, che ruolo gioca lo Stato per la tutela e la promozione dei «beni di tutti»?
Si dice spesso, ad esempio, che le lauree scientifiche e «professionalizzanti» sono quelle più richieste dal mercato. Ed è vero. Ma quanti laureati in materie umanistiche servirebbero per preservare e rilanciare il nostro patrimonio artistico ed architettonico, i nostri centri storici, i siti archeologici di cui disponiamo? Un esempio, per l’appunto. Per dire che cambierebbe tutto se, accanto alle dinamiche di mercato e alle «decisioni d’impresa», agissero politiche pubbliche per mobilitare le competenze disponibili in una strategia organica di rilancio del «sistema Paese».
Non è, tuttavia, soltanto una questione di lavoro che manca. Lavoro povero e precarietà sono ormai caratteristiche strutturali della condizione giovanile in Italia. E tra le cause della nuova emigrazione, che non è solo quella dei «cervelli in fuga».
Nel 2019 la fondazione Migrantes certificava che dal 2008 al 2018 il numero delle partenze era triplicato, passando da 39 mila a 117 mila casi annui. Diventeranno ben 166 mila nel 2020. Giovanissimi, soprattutto. Più meridionali che settentrionali. Un esercito di residenti all’estero che al 1° gennaio 2021 era di 5.652.080 unità.
Dall’Italia si scappa, i paesi del sud si spopolano. Sono stati circa 2 milioni per la Svimez quelli che hanno lasciato il sud tra il 2002 e il 2017. Ben 133 mila nel 2020. La metà giovani, un terzo laureati. Ne risente l’economia del Paese, ma soprattutto le aree interne. L’Italia dei comuni, molti dei quali piccoli e piccolissimi, periferici e montani, rischia di diventare il Paese dei comuni fantasma.
L’esodo produce desertificazione economica e culturale, abbandono del territorio, depressione sociale. Partono i figli, spesso seguiti dai genitori pensionati. Un mondo che muore. Ma proprio la cultura millenaria, l’arte e la storia , i paesaggi naturali, potrebbero costituire una chiave di volta per frenare l’emorragia dei giovani italiani.
Reinsediare i servizi persi, riqualificare strutture storiche e rivalutare la cultura locale a fini turistici, recuperare gli ecosistemi degradati, presidiare il territorio. Ci sarebbe tanto da fare. Lavoro di «pubblica utilità», garantiti dallo Stato «datore di ultima istanza».
Purtroppo, la crisi pandemica non ha modificato gli orientamenti di chi ci governa. In Italia più che altrove. Piuttosto, è stata colta come opportunità per rilanciare vecchie ricette (neo)liberiste. Mercato, concorrenza, privatizzazioni, «flessibilità», attacco ai beni comuni. Con una spruzzatina di misure «per» la povertà. La nuova fase non disdegna la mancia per chi sta sotto. Ma anche questa non è una novità assoluta. Anzi, la mancia è non solo compatibile con uno schema di società neoliberista, ma addirittura funzionale ad esso. Si accompagna alla riduzione del welfare universalistico, tiene in vita l’individuo consumatore. E, sotto una certa soglia, non compromette la «naturale» dinamica al ribasso dei salari.
L’aveva capito pure Milton Friedman che negli anni Sessanta parlava di «imposta negativa». Eppure i soldi ci sarebbero per un vero New Deal. Facciamo nuovi debiti, anche una parte dei «soldi che ci dà l’Europa» sono debito da ripagare. «Debito buono», ma dopo il varo del Pnrr e le prime riforme del governo viene facile chiedersi: per chi?
SALVARE I PAESI
Franco Arminio
In Italia negli ultimi decenni l’unico progetto di ripopolamento che ha funzionato è stato quello dei cinghiali. Partiamo dai numeri per capire la gravità dell’anoressia demografica. Nel 1871 Roio del Sangro, in Abruzzo, aveva 1.200 abitanti, adesso ne ha novanta. Nel 1911 Marcetelli, nel reatino, aveva 800 abitanti, adesso ne ha una sessantina, ma i residenti effettivi sono assai di meno. Nel 1911 Secinaro, in Abruzzo, aveva 2.000 abitanti, adesso ne ha trecento. Nel 1921 Drenchia, in Friuli, aveva 1562, adesso ne ha cento. Staiti, in Calabria, aveva quasi 1.700 abitanti nel 1911, adesso ne ha duecento. Nel 1871 Castelmagno, in Piemonte, aveva quasi 1.500 abitanti, adesso ne ha meno di sessanta. Nel 1911 Lacedonia, in Irpinia, aveva più di settemila abitanti, adesso sono poco più di duemila.
Chi non si fida delle statistiche può valutare la situazione facendosi un giro. Quando arrivi in un paese non vedi la miseria, vedi qualcosa che si potrebbe riassumere in questo modo: c’era una volta la desolazione della miseria, adesso c’è la miseria della desolazione.
C’è sempre qualche persona dall’aria malandata davanti al bar. Appena ci parli senti un cuore semplice, senti che hanno il desiderio di passare un poco di tempo con te, come se il tuo arrivo li distraesse, li togliesse fuori dalla ruota della noia in cui gira la giornata. Devi sempre fare attenzione al fatto che si tratta di apparenze. Tu stai guardando delle apparenze, ogni luogo ha un nodo, un cruccio annegato in un fondo che non vedi. C’è la sensazione che i paesi siano ormai delle ragnatele e le persone che sono rimaste hanno i movimenti degli insetti caduti nella trappola. Alcuni sono fermi, rassegnati alla trappola, altri provano a muoversi. Il tuo ruolo è diverso, tu sai che sei di passaggio, puoi restare dieci minuti o un’ora. Se c’è un veleno non puoi assorbirlo, puoi solo guardare il luogo come se fosse un’installazione di arte contemporanea o un’opera teatrale. Il paese, dunque, non appartiene più al mondo contadino, ma al mondo dell’arte. È una mutazione clamorosa e incredibilmente inavvertita. Il paese ci mostra la sua nuova natura ma sembra che non ci siano occhi per vederla. E anche chi ci sta dentro sembra voglia far parte di una storia che non c’è più, manca la consapevolezza che si è dentro una vicenda nuova. Anche per questo sono completamente fuori fuoco le varie politiche avviate negli ultimi anni dai nostri governi. Ragionano con la lente economica, parlano di servizi e lavoro, ma le azioni introdotte azionano solo se stesse, sembrano rivoli in un deserto, sembrano descrivere la luce senza darla.
Non ha dato risultati significativi nemmeno la Strategia concepita minuziosamente una decina di anni fa. Si trattava di un progetto sperimentale, ma per dare i suoi frutti necessitava di un sostegno convinto da parte delle istituzioni. Fabrizio Barca l’ha concepita quando era brillante ministro di un governo forte, con altri ministri che condividevano le sue visioni. Quel governo è caduto assai presto, sono cambiati i ministri, non è cambiata la Strategia. Forse aveva il difetto di essere troppo ambiziosa. Per avere effetti percepibilidovevano convergere tante cose: la macchina burocratica centrale e regionale doveva avere altri tempi, i sindaci dovevano avere uno spirito più innovatore, ma nei paesi ci sono più conservatori che innovatori e i sindaci che innovano non sempre vengono rieletti. Dopo Barca la Struttura che lui aveva messo in piedi ha lavorato molto ed ha avuto molti ostacoli nella macchina dello Stato: i risultati non sono all’altezza delle aspettative, anche per il semplice motivo che i ministri successivi e il Parlamento non si sono certo invaghiti dei luoghi marginali. Ci ha provato Giuseppe Provenzano a velocizzare la Strategia e a mettere più risorse per le aree svantaggiate, ma poi anche la sua stagione da Ministro è stata breve e si è scontrata con il disastro della pandemia.
Se torniamo ai numeri è evidente che lo spopolamento non si è fermato in nessun luogo, in qualche caso è solo rallentato ma di pochissimo. In alcune aree, tipo Appennino reggiano o Lombardia, sono stati spesi gran parte dei soldi stanziati. Alcune innovazioni, come gli infermieri di comunità, funzionano bene. In altre regioni il trambusto delle carte non ha prodotto praticamente niente.
Il governo attuale non si può dire che ha nel cuore la vita dei paesi. La Strategia avrebbe bisogno di essere ravvivata. Ci sono i fornelli, manca il fuoco. Bisogna riconoscere che ci sono stati degli errori, delle lungaggini assurde: settantadue aree sperimentali vuol dire che non si può sperimentare niente, bastavano una decina; la complicazione un poco ideologica di far scrivere delle tesi di laurea ai territori più che incentivarli ad agire; i sindaci che manco se li ricordano i documenti che hanno scritto; il paradosso che una struttura fa i progetti e poi un’altra struttura li deve attuare; la questione della debolezza degli apparati tecnici dei comuni; gli indugi dei burocrati che si limitano a badare pedissequamente alla norma, più che ad avviare veramente le cose.
Quello che c’è di buono è aver capito che dare soldi per incentivare le attività economiche non serve se non si lavora allo stesso tempo a potenziare i servizi. Sanità, trasporti e scuola sono le basi a cui aggiungere le strategie di sviluppo peculiari per ogni territorio. Il governo in carica formalmente non ha dismesso niente, sembra procedere nel solco avviato, ma nella sostanza la Strategia delle aree interne è sempre più un surrogato di se stessa. E vanno avanti gli interventi usuali, la spesa più facile, quella che si è fatta anche in passato e non ha prodotto risultati.
La situazione è abbastanza chiara, servono azioni eccezionali, visto che la situazione è di assoluta emergenza. Avevamo sperato che la pandemia potesse accendere l’attenzione e invece siamo sempre alle solite logiche. Nell’ultima finanziaria per i paesi non c’è niente, come se una parte d’Italia fosse segnata solo sulla cartina geografica ma non in quella della politica. Allora più che di aree interne, bisognerebbe parlare di aree ignote.
La diserzione della politica è accompagnata da quella intellettuale. Continuano ad essere molto pochi gli esercizi artistici di qualche valore che gettano uno sguardo sui luoghi più sperduti. Tutti guardano verso un centro che è sempre più un deserto trascurando di coltivare il margine che forse ancora contiene delle promesse di fertilità. Un articolo di giornale non è lo spazio adatto per presentare un nuovo progetto, ma un paio di idee provo a lanciarle. La prima è sul metodo. Serve per lo sviluppo locale non persone che vengono a parlare a un seminario di tre ore e poi vanno via. Servono gli allenatori dei paesi. Una persona mandata in un territorio circoscritto, (tre, quattro paesi al massimo), e ci resta per tre anni, mettendo su casa e dialogando ogni giorno con le persone che lavorano o con quelle che potrebbero lavorare nel territorio, un agente di sviluppo locale che alla fine ha anche la responsabilità di aiutare il centro a destinare i fondi. Azioni agili con finanziamenti dati velocemente a persone precise. Correndo anche il rischio di sbagliare. Magari su dieci azioni quattro vanno male, ma le altre daranno l’idea che qualcosa sta accadendo e accenderanno un circolo virtuoso, porteranno la fiducia, cioè qualcosa che vale ancora di più degli investimenti.
La seconda questione è di sostanza e riguarda le cose più che il come. Il fuoco centrale non può che essere l’agricoltura. L’economia paesana è caduta rovinosamente. Parlare di paesi è parlare essenzialmente di terra. E capire che molti terreni sono incolti e tornano bosco. Molti altri sono impoveriti da un’agricoltura poco sensibile alle esigenze della terra. Se si vuole dare veramente un futuro alla collina e alla montagna non si può prescindere da nuove pratiche agricole, lontane dalla logica violenta dei concimi e della monocultura. Si tratta di coniugare innovazione e pratiche antiche. Serve un’agricoltura organica rigenerativa e politiche di sostegno a questa pratica. Sappiamo come si fa e sappiamo che si può fare, ma occorre posare lo sguardo sulla terra e invece siamo nel cuore di una clamorosa rimozione proprio nei luoghi che da sempre sono vissuti con il lavoro della terra.
Fondamentale è anche la questione del patrimonio abitativo. I paesi sono musei delle porte chiuse. Mediamente su dieci case otto sono vuote. Il problema è che non tutte sono prontamente abitabili. Allora lo Stato dovrebbe acquisire al Patrimonio pubblico le case di cui i cittadini si vogliono disfare, pagandole a prezzo di mercato. L’idea è di ristrutturarle in maniera molto accurata per farne dimore in cui si possa vivere bene, case antiche ma ben riscaldate, case dotate di tutte le tecnologie più avanzate, case da fittare a prezzi simbolici a chi vuole andare a riposarsi o a lavorare dai paesi. Queste case possono essere utili per il coworking: le persone possono lavorare da remoto perché avranno tutto quello che serve in termini di connessioni, di servizi, di socialità lavorativa.
Se arriva un poco di bella gioventù è un fatto enorme. I luoghi spopolati spesso sono tristi, è inutile nascondercelo. Fa eccezione il mese di agosto, quando in giro ci sono quelli che tornano e anche i residenti e questo crea una bella atmosfera festosa che però dura assai poco.
Ecco i tre punti su cui agire: servizi, sviluppo locale, desiderio. Per ripopolare i paesi devono funzionare queste tre cose. Vivere in un posto dove non ci sono aspettative sentimentali è una cosa che ti impoverisce e ti fa affiliare alla schiera degli scoraggiatori militanti, degli accidiosi. Le persone che sono rimaste sembrano ormai tutti carpentieri della sfiducia. Appena ci parli è come se avessero fretta di mostrarti la lista dei guai. Lo spopolamento produce anche un impoverimento sensuale. Ci sono meno occhi e meno orecchie, ci sono meno opportunità di trovare qualcuno da baciare. In effetti nelle settimane di agosto i paesi funzionano, basta un poco di gente e l’atmosfera cambia completamente. Bisogna partire da qui, dalla difficoltà di passare la giornata, dall’assenza di distrazioni. Anche chi compra la casa in paese poi in realtà lo frequenta poco. Si ha paura del buio, delle case chiuse. Nel paese non puoi distrarti, sei sempre a contatto con te stesso. Nelle città puoi scivolare nelle crepe delle vetrine. Dunque, la narrazione dei borghi come luoghi del buon vivere è completamente falsa. Si potrebbe vivere bene, ma si vive male. Chi è rimasto non si fa vedere in giro. Le azioni collettive sono sempre più rare, il paese, è ora di dirlo, non è più una comunità ma una sommatoria di singoli destini.
I paesi vanno vissuti da dentro, va capita la loro natura allo stesso tempo benefica e venefica. Non bisogna illudersi, non sono abitati da santi e le città non sono abitate da stronzi. Abitiamo luoghi diversi dello stesso smarrimento. Servono politiche contro lo smarrimento, servono azioni immediate sulla strada con le buche, sull’ospedale che non funziona, sulla scuola che chiude. Per rivitalizzare l’economia dei luoghi servono persone che sanno dove stanno e che hanno voglia di stare dove stanno. Alla fine è una questione d’amore.
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