SE ALZI I SALARI, CRESCONO PRODUTTIVITÀ E OCCUPATI da IL FATTO
Se alzi i salari, crescono produttività e occupati
PASQUALE TRIDICO 22 SETTEMBRE 2023
In una economia avanzata, ma con crescita stagnante, salari fermi, e risparmio e ricchezza abbondanti, come la nostra, alzare i salari farebbe crescere occupazione e produttività.
Il nostro Paese negli ultimi due decenni ha utilizzato la leva della flessibilità del lavoro e dei bassi salari per continuare a competere, senza fare innovazioni. Questo è valso soprattutto nei settori dei servizi, dal turismo ai trasporti, i servizi alla persona, la ristorazione, l’agricoltura, dove tra l’altro i margini di innovazione sono naturalmente ridotti. Aumentare, in questi settori, la manodopera, vuol dire accontentarsi di produttività bassa, e salari bassi. Uno choc positivo in questi settori, come l’introduzione di un salario minimo legale, farebbe prima di tutto selezione di investimenti, e renderebbe più difficile fare competizione attraverso il lavoro. Vorrebbe dire che solo laddove ci siano margini di profitto realizzabili e adeguati, grazie all’introduzione di innovazione, la produttività crescerebbe e il business andrebbe perseguito.
Si eviterebbe lo sfruttamento del lavoro, il “capitalismo di rapina”, come l’ha definito il presidente Mattarella il 15 settembre scorso nel suo discorso davanti all’assemblea di Confindustria.
In questi settori, la crescita della produttività sarebbe quindi conseguente a un aumento del salario, che avverrebbe in una prima fase, con un assorbimento di minore manodopera.
Nella seconda fase gli incrementi di produttività, la qualità del lavoro e i più alti salari, attrarrebbero maggiore offerta di lavoro, proprio in questi settori che lamentano spesso difficoltà nel trovare manodopera e posti vacanti non coperti. Quindi, anche l’aumento dell’occupazione sarebbe conseguente all’aumento del salario e all’introduzione di un salario minimo legale.
Aprire pizzerie a ogni angolo di città può essere una strategia perseguibile per il singolo imprenditore nel breve periodo, ma nel lungo periodo, non porta vantaggi di produttività, non si accrescono le competenze, non si utilizzano i capitali in modo efficiente e responsabile, a livello macro, verso la società.
Nell’ultimo decennio la Germania, soprattutto dopo aver introdotto il salario minimo a poco meno di 9 euro nel 2015, ha tenuto la crescita dei salari a un livello superiore alla crescita della produttività. Questo ha favorito una rincorsa della produttività spinta da una selezione di investimenti, e da maggiori innovazioni. Così il salario minimo in 8 anni è cresciuto del 30%, sopra i 12 euro nel 2023. E anche l’occupazione in Germania in questi 8 anni, dall’introduzione del salario minimo, è cresciuta, dal 72% al 77% (mentre in Italia è sempre stata intorno o sotto al 60%).
Alla stessa assemblea di Confindustria del 15 settembre, davanti al presidente della Repubblica, Carlo Bonomi ha affermato che “il salario minimo non risolve i problemi”. Qui bisognerebbe citare Federico Caffè e replicare che dipende da quel che si ha in mente: sicuramente risolverebbe un po’ di problemi ai lavoratori poveri. Certo aggraverebbe i problemi di chi fa uso di “capitalismo di rapina”, per citare ancora Mattarella. E risolverebbe anche alcuni problemi di concorrenza sleale che le aziende sane, che fanno innovazione, si trovano a pagare. Alla fine, quindi, il salario minimo risolverebbe alcuni problemi della nostra economia e spingerebbe l’innovazione in un circolo virtuoso che porterebbe maggiore occupazione.
Un ragionamento molto simile è stato portato avanti anche nell’introduzione, da parte dei vertici, al workshop di Banca d’Italia-Cepr sulle politiche per il mercato del lavoro il 17 settembre scorso, secondo cui: “Le istituzioni (come il salario minimo) svolgono un ruolo cruciale nel definire la redistribuzione ai lavoratori delle rendite economiche accumulate dalle imprese a causa del loro potere monopsonistico (quando, a fronte di molti venditori, c’è un solo compratore, ndr) sul mercato del lavoro. Le imprese esercitano il loro potere offrendo salari bassi e contratti temporanei e a breve termine. Mentre le politiche che incoraggiano le aziende a offrire contratti a tempo indeterminato e a tempo pieno e salari più alti possono innescare un processo positivo”. In altre parole, queste politiche non solo sono un presidio a tutela dei lavoratori ma spingono anche la dinamica della produttività. Del resto lo stesso governatore Visco, nella sua relazione annuale a maggio scorso aveva accennato, brevemente, a questo, quando affermava che al ristagno della produttività aveva contribuito anche la bassa efficienza dei processi produttivi in settori a scarso contenuto tecnologico, che sono accompagnati da condizioni di precarietà del lavoro prolungate e da bassi salari, soprattutto per i giovani, per i quali l’introduzione di un salario minimo risponde tra l’altro a esigenze di giustizia sociale.
Colpa di 110% e tassi? No, della non-crescita: i dati contro Giorgetti
IL MINISTRO NON LA DICE TUTTA – Le stime: non ci sono sorprese tranne il Pil che rallenta
FRANCESCO LENZI 22 SETTEMBRE 2023
Ne mancano cinque alla presentazione della Nota di aggiornamento del Def e meno di 30 alla manovra, ma ogni giorno Giancarlo Giorgetti ha l’ingrato compito di trovare una scusa per una legge di Bilancio che si annuncia misera. L’ultima sono i 14 miliardi che gli sarebbero stati sottratti a causa dell’aumento dei costi del debito per colpa dei rialzi dei tassi decisi dalla Bce. Prima ancora la colpa era del Superbonus, il cui peso finanziario sul Corriere della Sera è stato addirittura stimato protrarsi per oltre un secolo. Se il governo non l’avesse già tolto, lasciando centinaia di migliaia di persone in difficoltà senza sostegno economico, la prossima settimana sarebbe stato il turno dei “divanisti” del Reddito di cittadinanza.
Queste scuse non sono né nuove né particolarmente elaborate. Il punto da valutare è se siano fondate o meno, se cioè la situazione dei conti pubblici sia peggiorata a tal punto da precludere qualsiasi spazio di manovra. Gli ultimi dati disponibili, provenienti dal Tesoro e dalla Ragioneria generale, rilevano che il fabbisogno del settore statale, cioè quanto lo Stato ha dovuto finanziare per coprire lo squilibrio tra entrate e uscite, è arrivato ad agosto a 77 miliardi. Rispetto ai primi otto mesi dello scorso anno si tratta di un peggioramento significativo, di circa 43,5 miliardi. La spiegazione che la ragioneria fornisce per questo sbilancio è legata alla mancata erogazione della terza rata del Pnrr (10 miliardi), al mancato dividendo di Banca d’Italia (3,9 miliardi), ai minori flussi derivati dalla gestione dei collateral (3,9 miliardi), al miliardo prelevato per ex-Ilva e Ita Airways, al calo degli incassi verificatosi nei primi mesi dell’anno e al forte aumento dei prelievi degli enti di previdenza per la rivalutazione degli importi pensionistici e dell’assegno unico.
La Ragioneria non menziona gli interessi sul debito e i crediti fiscali, ma il peggioramento del fabbisogno è concreto. Per valutare quanto questo sia preoccupante, però, il confronto con il 2022 può non essere quello più appropriato, dato che il fabbisogno per vari fattori contingenti è stato il 3,3%, tornato ai minimi del pre-pandemia. È più utile verificare come si sta evolvendo rispetto alle previsioni e da questo punto di vista è presto per gridare al lupo. Nel Def 2023 si stima che possa raggiungere il 5,6% del Pil, 113 miliardi. Ne mancano ancora 36 per quattro mesi, che diventerebbero 46 con l’imminente erogazione della terza rata del Pnrr. L’anno scorso, negli ultimi quattro mesi, il fabbisogno ha assorbito circa 30 miliardi, nonostante le spese contro il caro-energia che quest’anno sono state eliminate.
Insomma, i conti per il 2023 si stanno muovendo come da previsioni e niente al momento è cambiato rispetto a quanto ipotizzato ad aprile scorso o a luglio. Anche il tiraggio dei bonus edilizi evidenzia negli ultimi due mesi un rallentamento che non dovrebbe modificare le ultime stime riviste al rialzo. Perché allora Giorgetti mette le mani avanti? Il sospetto è che la risposta è di quelle che si fa più fatica ad ammettere in pubblico: la congiuntura sta volgendo al peggio e l’economia italiana ha cominciato a mostrare segnali di debolezza. Finita la crescita post-pandemia – che è andata oltre quella dei grandi Paesi della zona euro grazie anche al contributo delle costruzioni, sostenute dagli incentivi – si vedono preoccupanti segnali di stagnazione, se non di recessione. Non c’è stato solo il brutto dato sul Pil del secondo trimestre, sceso a sorpresa dello 0,4% e che ha ridotto la crescita acquisita allo 0,7%, anche gli indici di fiducia di imprese e consumatori confermano che i mesi a venire potrebbero essere peggiori delle attese.
Il Def di aprile stimava per quest’anno una crescita dell’1%, che adesso sembra invece il massimo a cui poter aspirare, mentre per il prossimo si ipotizzava un +1,5%, che anche le recenti previsioni di banca d’Italia considerano irraggiungibile. Una crescita più bassa potrebbe in effetti spostare parecchio lo spazio di manovra, aumentando i rapporti del deficit e del debito, rallentando le entrate fiscali e ampliando le uscite per ammortizzatori sociali. Il rischio è concreto, data anche la congiuntura internazionale, e il governo non sembra avere il coraggio di contrastare questa tendenza. L’impostazione resta sul rispetto degli obiettivi pluriennali, che vuol dire rinunciare al libro dei sogni.
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