Rompere il silenzio sull’abolizione della Storia
di Lina SCALISI, da “La Sicilia”, 1° marzo 2019
Il silenzio è pericoloso. Il silenzio è ambiguo perché si presta a molteplici letture: taciamo perché non vale la pena parlare; taciamo perché siamo d’accordo; taciamo perché tanto passerà anche questa; taciamo perché tanto non si può cambiare nulla. Insomma, si tace per consenso, per acquiescenza, per disinteresse, per rassegnazione.
Non conosco quale sia il motivo per cui il silenzio sia stato la risposta sconcertante con cui questo Paese ha accolto l’altrettanto sconcertante proposta del ministro Bussetti di cancellare la prova di storia dagli esami di maturità. Quello che mi appare ancor più grave è il perché continua a farlo.
Non bastano infatti le voci di alcuni personaggi nazionali – Roberto Saviano, Andrea Giardina, Renzo Piano, Gustavo Zagrebelsky, Liliana Segre – per infrangere la cortina di ferro con cui si intende separare la storia dalle generazioni più giovani, quelle alle quali affidare il futuro, annullando la loro capacità di analizzare criticamente il presente, di riconoscere i processi di degenerazione sociale e di erosione della tenuta democratica, di possedere, insomma, quel grande patrimonio genetico che è la storia senza la quale nessuna identità collettiva può dirsi compiuta.
Di fronte a questo pericolo abnorme, non bastano le voci di pochi. Al contrario, si sarebbero dovute levare le proteste della società che ancora chiamiamo civile, anche quando si comporta incivilmente grazie alla copertura offerta dalla classe dirigente di un governo che si dibatte tra la tentazione di svuotare la democrazia rappresentativa e la tentazione di riportare in vita un nazionalismo esasperato, la cui strada verso il successo è lastricata dalla cancellazione dei diritti degli altri, Europa o mondo intero. Tutti nemici, tutti da avversare.
Di fronte a questo pericoloso precedente si sarebbero dovute levare le voci di tutti gli intellettuali, per dire “io c’ero e ho combattuto fino in fondo” e potere così guardare serenamente i propri studenti che la fame di storia la hanno e che, se alla maturità non hanno scelto il tema storico (forse non formulato nella maniera migliore?), affollano poi le nostre aule universitarie, al punto che le stesse non bastano a contenerli. E te li ritrovi seduti sugli strapuntini, per terra e in piedi per ascoltare e porre domande, per chiedere chiarimenti.
Ecco, la storia è questo. È una continua domanda e richiesta di capire; è un tenere la guardia alzata in difesa dei diritti di ognuno di noi, è un progetto consapevole di costruzione del futuro.
Non dimentichiamolo che quando questo Paese si è ritrovato Stato, la storia e gli storici furono il collante della sua difficile unità, l’ancora sulla quale costruire un domani che ne superasse le enormi difficoltà, l’arma migliore per costruire un sentimento nazionale che riportasse in vita un popolo italiano che la politica aveva sezionato per secoli. Lo fecero nelle università, nelle accademie, nei circoli, nei teatri che erano popolari e che il popolo amava; lo fecero nelle grandi e nelle piccole città, diffondendo come la nostra nazione non iniziava nel 1860 perché la nostra storia nazionale era molto più antica e che, finalmente, ce la stavamo riprendendo.
Sono passati solo 150 anni e sembriamo alla deriva con un Paese alle prese con un’altra riforma pericolosa per la sua unità nazionale, quel federalismo sperequativo che, senza infingimenti, rischia di dividere inesorabilmente il Mezzogiono dal resto d’Italia. Un pericolo enorme che fa il paio con quest’attacco alla storia che, consumato nel silenzio generale, ci atterrisce ancor di più.
Leggete allora “In difesa della storia” di Richard John Evans (Sellerio 2001), che spiega bene perché difendere la storia. E se non lo leggerete poco importa, vi prego solo di rompere il vostro silenzio e di parlare in difesa della storia e del vostro futuro.
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