ROMANIA, LA MANO OCCIDENTALE DALLE RIVOLUZIONI “COLORATE” A NULAND da IL FATTO
Romania, la mano occidentale dalle rivoluzioni “colorate” a Nuland
Gli eterni destabilizzatori made in Usa – Senza scomodare i piani Condor in Sudamerica si può prendere a esempio quel pezzo di pregio della telefonata del 2014 tra l’allora vicesegretaria di Stato Victoria Nuland e l’ambasciatore Usa in Ucraina
Salvatore Cannavò 7 Dicembre 2024
La decisione della Corte costituzionale rumena di annullare “l’intero processo delle elezioni presidenziali” ricorda la nota massima di Bertolt Brecht: “Il comitato centrale ha deciso: poiché il popolo non è d’accordo, bisogna nominare un nuovo popolo”. La decisione dei giudici costituzionali viene infatti presa in un clima in cui più che l’ingerenza russa, sembra pesare quella dell’Unione europea e degli Stati Uniti: “Siamo preoccupati dalle influenze online esterne sul voto rumeno, specialmente su Tiktok”, ha detto la vicepresidente della Commissione Ue, la finlandese Henna Virkkunen mentre il portavoce del Dipartimento di Stato Matthew Miller ha messo in guardia contro i “gravi impatti negativi” di un allontanamento della Romania dall’Occidente. Che la Russia voglia un’ingerenza nei paesi dell’Est è sicuro, ma è difficile nascondere l’analogo attivismo occidentale.
Senza scomodare i piani Condor in Sudamerica si può prendere a esempio quel pezzo di pregio della telefonata del 2014 tra l’allora vicesegretaria di Stato Victoria Nuland e l’ambasciatore Usa in Ucraina, Geoffrey Pyatt. Oltre al celebre “fuck you Europe” Nuland entrava meticolosamente nella composizione del governo ucraino in seguito alle manifestazioni di piazza Maidan, manifestazioni di popolo, ma certamente interessanti per i governi occidentali. A Pyatt che spiegava come il “fattore Klitschko è ovviamente il più complicato” (dal nome dell’ex sindaco di Kiev in predicato di fare il viceministro), Nuland rispondeva: “Non credo che Klitschko debba entrare nel governo. Non penso sia necessario e non penso sia una buona idea” (dalla Bbc del 7 febbraio 2014). Klitschko non entrò nel governo.
Ma la rivolta di piazza Maidan era stata preceduta dalla prima “rivoluzione arancione”, nel 2004, sempre contro Yanukovic accusato di aver vinto le elezioni presidenziali tramite brogli. Anche in quel caso la Corte suprema annullò il voto che vide poi vincitore Yushenko, l’oppositore filo-occidentale. L’anno dopo la Rock Creek Creative, un’agenzia di pubbliche relazioni con sede nel Maryland, dichiarò di aver contribuito allo sviluppo della strategia di comunicazione, del branding e del sito web della “rivoluzione arancione” (www.ukraineineurope.com). Ma è il Guardian del 26 novembre 2004 a offrire un quadro prospettico di ingerenza occidentale nelle tante rivoluzioni “colorate” dell’Est europeo: “Richard Miles, l’ambasciatore americano a Belgrado, vi ha svolto un ruolo chiave. E l’anno scorso, in qualità di ambasciatore americano a Tblisi ha ripetuto lo stesso trucco in Georgia insegnando a Mickeil Saakashvili come abbattere Eduard Shevardnadze” (è il Gurdian che scrive, non un bollettino putiniano). Vengono poi nominati i vari istituti Usa come l’International Republican Institute del Partito repubblicano e il National Democratic Insitute del Partito democratico oltre all’immancabile Freedom House. Solo a Kiev la campagna di condizionamento del voto era costata 14 milioni di dollari. E poi c’è la rivoluzione “dei tulipani” in Kirghizistan o quella “dei jeans” in Bielorussia.
Così come non vanno sottovalutati i due eventi più recenti: a ottobre la Moldavia ha visto prevalere il Sì all’adesione alla Ue per un soffio, il 50,35%, in cui decisivi sono stati i voti dei moldavi all’estero: in casa infatti ha vinto il No. E poi in Georgia, dove la vittoria del partito Sogno georgiano, filo-russo, viene contestata dalla stessa presidente Salome Zurabishvili, passata nel 2004 da ambasciatrice francese in Georgia a ministra degli Esteri e poi, dal 2018, presidente del piccolo Stato confinante con Russia e affacciata sul Mar Nero. Anche qui, alla fine, il problema è l’Ucraina, e nel 2003 non era mancata la “rivoluzione delle rose”. Le interferenze sono pane quotidiano.
Nato, gli italiani non ci credono più. No al 2% del Pil alle armi
REDAZIONE 7 Dicembre 2024
Il 66,3% degli italiani attribuisce all’Occidente – Usa in testa – la colpa dei conflitti in corso in Ucraina e in Medio Oriente. Solo il 31,6% si dice d’accordo con il richiamo della Nato sull’aumento delle spese militari fino al 2% del Pil. A dirlo è il 58° Rapporto Censis 2024. E che smentisce l’indirizzo delle politiche europee nonché dell’Alleanza Atlantica e dell’Italia stessa. Inoltre per il 71,4% degli italiani l’Unione europea è destinata a sfasciarsi, senza riforme radicali. E la fiducia, meglio, la sfiducia dei cittadini nell’Unione si evince dal tasso di astensione alle ultime elezioni europee, quando ha segnato un record nella storia repubblicana: il 51,7% (alle prime elezioni dirette del Parlamento europeo, nel 1979, l’astensionismo si fermò al 14,3%). Per il Censis, c’è una sfiducia crescente nei sistemi democratici in generale, dal momento che l’84,4% degli italiani è convinto che ormai i politici pensino solo a se stessi. Il 68,5% ritiene che le democrazie liberali non funzionino più, rileva il Rapporto, che sottolinea come “all’erosione dei percorsi di ascesa economica e sociale del ceto medio si sta accompagnando la messa in discussione dei grandi valori unificanti del passato modello di sviluppo” come “il valore irrinunciabile della democrazia e della partecipazione, il conveniente europeismo, il convinto atlantismo”. Mai come in questo momento la bussola della politica italiana è legata allo scacchiere internazionale, non a caso per il 49,6% dei nostri connazionali il nostro futuro sarà condizionato dal cambiamento climatico e dagli eventi atmosferici catastrofici, per il 46% dagli esiti della guerra in Medio Oriente e per il 45,7% dal rischio di crisi economiche e finanziarie globali. Nel sentiment degli italiani c’è anche un 45,2% che teme le conseguenze dell’aggressione russa all’Ucraina e un 35,7% preoccupato dalle migrazioni e un 31% dalla guerra commerciale e dalle tensioni geopolitiche tra Usa e Cina. Per lo studio ci troviamo di fronte a una vera e propria “Sindrome italiana”, in cui “ci siamo risvegliati dall’illusione che il destino dell’Occidente fosse di farsi mondo e viviamo invece in un mondo scosso da forti tensioni, in cui nessuno è contento di come il mondo è”.
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