PRIVATIZZAZIONI, LA RINUNCIA ALL’INTERESSE NAZIONALE da IL MANIFESTO
Privatizzazioni, la rinuncia all’interesse nazionale
UN PIANO MIOPE. Il piano di privatizzazioni del ministro Giorgetti e delle presidente Meloni è miope, mette a rischio la possibilità per il governo di intervenire in settori strategici, potrebbe deteriorare la qualità […]
Stefano Ungaro 17/05/2024
Il piano di privatizzazioni del ministro Giorgetti e delle presidente Meloni è miope, mette a rischio la possibilità per il governo di intervenire in settori strategici, potrebbe deteriorare la qualità delle infrastrutture e aumentare i costi dei servizi per i cittadini.
Alla base del piano non c’è un’idea di politica industriale. Alla narrativa tanto in voga negli anni 90 secondo cui le privatizzazioni migliorano la gestione delle aziende pubbliche non crede più nessuno.
L’unica linea guida è quella di fare cassa immediatamente, cercando di racimolare qualche spicciolo – venti miliardi in tre anni, secondo gli annunci del governo, ossia meno di una finanziaria – svendendo i gioielli di famiglia. Poste, Eni, Fs, Raiway, Mps: sono pochi i settori che si salvano dalla smania di monetizzare.
Si rinuncia per sempre a flussi annuali di miliardi di euro di dividendi: solo da Eni il governo ha incassato un miliardo all’anno tra il 2021 e il 2023.
È un piano di corto periodo, quindi. Ma è anche un piano che mette a rischio la tanto importante – a parole – sovranità nazionale.
Il pasticcio fatto con Enel Green Power è sotto gli occhi di tutti.
La partecipazione pubblica nel capitale del gruppo elettrico è stata talmente diluita che nell’assemblea del 2022 è stato sventato per il rotto della cuffia il rischio che i fondi di investimento imponessero un loro cda alternativo a quello proposto dal Mef. Pericolo che è sempre dietro l’angolo e potrebbe riprodursi in seguito alle privatizzazioni degli altri colossi. Si rischia di cedere il potere decisionale sulla transizione energetica, sul suo finanziamento e la sua gestione, nel momento in cui questi temi sono di primario interesse nazionale.
È inoltre un piano pericoloso per le infrastrutture. Meloni vuole fare entrare investitori privati non solo in Trenitalia, il gestore dei treni, ma direttamente nella capogruppo Fs. Si tratterebbe quindi di privatizzare – almeno in parte – la rete ferroviaria creata con investimenti pubblici e preziosissima sia dal punto di vista strategico che da quello finanziario.
Fs possiede anche la rete stradale di Anas. Quando si tratterà di effettuare investimenti su queste due reti per ammodernarle, per metterle a norma, per combatterne la normale usura, non si potrà più attingere come oggi a fondi pubblici. Bisognerà utilizzare fondi privati, che bisognerà poi in qualche modo remunerare. Come? Scaricandone i costi sui biglietti dei treni.
Infine, la privatizzazione di Fs è un primo passo – nemmeno troppo nascosto – verso una futura separazione della rete dalla gestione delle linee. Si tratterebbe se confermato di un passo dettato da un’ideologia – questa sì – sconfitta dalla storia.
Il caso inglese, la privatizzazione del ’93, è emblematico. Separare l’infrastruttura dal funzionamento ha portato a conseguenze catastrofiche. I treni inglesi sono perennemente in ritardo, caratterizzati da biglietti estremamente costosi e sulla linea gli incidenti – con gravi ripercussioni sui lavoratori – sono all’ordine del giorno.
Per raccattare poco oggi e comprarsi il favore elettorale delle categorie a cui abbasseranno le tasse, Giorgetti e Meloni regalano ai fondi d’investimento stranieri flussi di cassa per i prossimi decenni, mettono a rischio le infrastrutture nazionali in settori delicatissimi e strategici: energia, trasporti e risparmio.
Eni, Poste, Fs e le altre: via alle privatizzazioni, sindacati in piazza
FARE CASSA. Scontro dopo la vendita del 2,8% della multinazionale petrolifera. Cgil: «È la resa del governo Meloni ai poteri forti della finanza». Domani sit-in di Cgil, Cisl, Uil, Cisal e Ugl a Roma, Firenze e Napoli contro la privatizzazione delle Poste: “Le conseguenze ricadranno anche sui lavoratori”
Roberto Ciccarelli 17/05/2024
La legge è massimizzare il profitto nel breve periodo, con la prospettiva di distribuire ricchezza pubblica nelle mani di investitori e privati, dando l’illusione di limare il debito pubblico che però è destinato a crescere nei prossimi anni, stando alle previsioni di primavera della Commissione Europea. La vendita del 2,8 per cento del capitale di Eni, pari a 1,4 miliardi di euro, da parte del ministero dell’Economia ha provocato ieri una risposta univoca, per una volta, da parte dei sindacati Cgil e Cisl già mobilitati contro l’annunciata privatizzazione delle Poste. Domani manifesteranno con la Uil, Cisal e Ugl in diverse città anche a Roma, Napoli e Firenze.
«È UN MODO DI FARE CASSA, una soluzione vecchia, già sperimentata e fallimentare – ha detto il segretario confederale della Cgil Pino Gesmundo – Invece di migliorare l`apparato industriale del paese in passato ha distrutto campioni nazionali pubblici e le grandi aziende private che si erano sviluppate a sostegno del business principale, con l’unico beneficio per gli azionisti che si sono arricchiti grazie agli enormi dividendi. Una resa ai poteri forti della finanza».
«SE COME TEMIAMO tutto si riduce a un’esigenza di bilancio – ha osservato il segretario generale della Cisl Luigi Sbarra – suggeriamo a Giorgetti dove prendere le risorse: dall’aumento della tassazione sulle grandi rendite immobiliari e finanziarie, da un contributo di solidarietà su extraprofitti delle multinazionali, dagli sprechi della spesa pubblica ad un riordino degli incentivi dati a pioggia alle imprese, dal recupero dei fiumi di denaro sottratti da evasione, elusione e corruzione. Il ministro ci convochi».
LA VENDITA DELLE AZIONI dell’Eni è la concretizzazione di un piano che potrebbe portare nei prossimi mesi a 10 miliardi di cessioni, la metà dei 20 miliardi annunciati dal governo. In totale Meloni & Co. vorrebbero approfittare delle borse che macinano utili in questi mesi per arrivare a incassare una cifra pari allo 0,7% del Pil entro il 2027. Tanto ha stimato l’ultimo Def. Prima era l’1%. L’altro ieri la Commissione Ue ha detto di non avere calcolato gli importi nelle previsioni di primavera. Com’è ormai noto nel Def «mancano i dettagli per poterle considerare». Giusto per dare l’idea dell’improvvisazione, e delle incertezze, che regnano sull’intera partita che si gioca in una drammatica carenza di risorse e in attesa dell’entrata in vigore del nuovo patto di stabilità Ue. Il governo pensa si ottenere dalla vendita delle quote statali di banca Montepaschi di Siena 3,24 miliardi; dal 29% di Poste 4,75 miliardi; 300 milioni dalla vendita di Ita a Lufthansa, se realizzata. Si parla inoltre della vendita di quote in Fs. E ieri Maurizio Gasparri (Forza Italia) ha vagheggiato «la vendita degli immobili pubblici» su un patrimonio fino a «800 miliardi».
«NON È SEMPLICEMENTE fare cassa, è fare ordine» ha detto il ministro dell’economia Giancarlo Giorgetti di recente a Davos. In quell’occasione evitò anche di parlare di «privatizzazioni». Per lui sono una «razionalizzazione del patrimonio delle partecipate». La distinzione giorgettiana tra il «fare cassa» e il «fare ordine» è tutta un programma. I mercati sono razionali e efficienti, illuminati da una coscienza superiore, guidati dalla «provvidenza». Una delle leggende più insulse, ma immortali, della stupidità economica che ha scandito il catastrofico bilancio delle privatizzazioni in Italia dal 1992.
NON SI PARLA, di «razionalizzazione» quando una vendita di azioni «avrà un effetto negativo per i conti dello Stato, che a causa dei mancati incassi per i dividendi vedrà ridursi le entrate in maniera maggiore della riduzione della spesa per gli interessi sul debito – ha detto Gesmundo della Cgil – L’operazione potrebbe inoltre indebolire ancora di più il ruolo di Eni nel processo di transizione ambientale
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