PALESTINA: IL MONOPOLIO DELLE RISORSE IDRICHE da 18BRUMAIOBLOG
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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PALESTINA: IL MONOPOLIO DELLE RISORSE IDRICHE da 18BRUMAIOBLOG

Palestina: i sionisti giudaizzano anche l’acqua

 

 Olympe de Gouges  3 marzo 2024

La Guerra dei Sei Giorni fu un vero vantaggio per lo Stato ebraico, anche nel settore delle acque. L’occupazione del Golan aveva per Israele un duplice interesse idrostrategico: permetteva di controllare le sorgenti del Baniyas, che fornisce circa un quarto del corso dell’Alto Giordano, nonché il corso a valle dello Yarmouk, dove Israele pompava illegalmente circa cento milioni di m3. Inoltre, Israele bloccava tutti i progetti idraulici giordano-siriani (trasferimento dell’acqua dal Baniya allo Yarmouk, costruzione della già citata diga di Maqarrin, monitoraggio delle prese d’acqua giordane per alimentare il canale Ghor).

L’occupazione della Cisgiordania ha permesso ad Israele di controllare le falde acquifere di questa regione e di disporne a suo piacimento: dall’estate del 1967, con l’Ordine militare n. 92 del 15 agosto, l’acqua in Cisgiordania e a Gaza è stata posta sotto controllo militare. Nel dicembre 1968, l’Ordine militare n. 291 dichiarava che tutte le risorse idriche in Cisgiordania e Gaza erano “proprietà dello Stato”.

Successivamente, la gestione dell’acqua nei territori occupati venne affidata alla società Mekorot, poi le autorità militari occupanti cominciarono a mettere in atto severe norme che vietavano qualsiasi aumento del consumo di acqua (nel 1975, Israele installò contatori sui pozzi palestinesi e limitò il consumo di acqua per l’irrigazione). Per ragioni di sicurezza era vietato il pompaggio nel Giordano, condannando così l’agricoltura irrigua palestinese sulle rive del fiume, e si regolamentava in maniera draconiana la perforazione di nuovi pozzi (pochissimi i permessi concessi: solo 37 tra il 1967 e il 1996, di cui 34 domestici e 3 agricoli). D’altra parte, la profondità dei pozzi palestinesi è limitata a 300 metri mentre gli israeliani possono scavare fino a 1.500 metri.

Pertanto, indipendentemente dal fatto che la questione idrica sia stata o meno una causa fondamentale dello scoppio della Guerra dei Sei Giorni, essa ha consentito a Israele di attuare una vera e propria strategia idraulica articolata attorno a due assi essenziali: l’imposizione di una legislazione restrittiva che consente di limitare e controllare il consumo di acqua delle popolazioni dei territori palestinesi; l’occupazione dello spazio geografico da parte di basi e insediamenti militari.

Gli strumenti della strategia messa in atto da Israele sono riusciti a bloccare il consumo idrico in Cisgiordania a circa cento milioni di m3 l’anno per un quarto di secolo mentre la popolazione più che raddoppiava. Non è apartheid, dicono; si tratta di utilizzo oculato delle risorse e controllo del territorio. Chi dovesse ribellarsi diventa ipso facto un “terrorista”.

L’agricoltura è stata la prima vittima di queste restrizioni: nonostante un miglioramento delle tecniche e dei metodi di coltivazione che consentono una riduzione del consumo di acqua per ettaro, in Cisgiordania solo circa 10.000 ettari sono irrigati, mentre oltre 60.000 potrebbero esserlo, ma non lo sono, a causa della mancanza di acqua disponibile. Per i palestinesi la situazione diventa particolarmente grave nella Valle del Giordano dove, a causa del clima arido, l’agricoltura dipende totalmente dall’irrigazione.

Per gli occupanti israeliani non ci sono restrizioni, il loro consumo di acqua per l’irrigazione raddoppia negli anni ‘80, raggiungendo i 60 milioni di m3 nel 1990, ovvero due terzi del consumo totale! Paradossalmente gli israeliani – che hanno acqua illimitata – possono coltivare solo una parte della terra che controllano … per mancanza di risorse, cioè soprattutto di braccia. Di conseguenza, alcune terre precedentemente sfruttate dai palestinesi, ma confiscate da Israele, sono tornate all’abbandono, in particolare nella Valle del Giordano. Questa politica idraulica mostra chiaramente che il razionamento imposto in Cisgiordania (e Gaza) risponde principalmente a una volontà politica: impedire lo sviluppo dell’agricoltura palestinese.

A questa limitazione dell’uso dell’acqua di pozzo si aggiungerà successivamente il tentativo di controllare l’acqua dalle sorgenti, in particolare nella Valle del Giordano. È così che la città di Gerico condivide l’acqua delle sue sorgenti con la colonia di Maale Adoumim. Ma il caso più eclatante è quello di Aujah, una decina di chilometri a nord di Gerico.

Prima del 1967, Al-Auja, con una popolazione di 8.000 abitanti, era una località giordana e uno dei principali produttori di limoni, banane e verdure della Cisgiordania. Dopo il 1967 il villaggio contava solo circa 2.000 persone, anche se si coltivavano ancora circa 1.000 ettari (a metà 2006 gli abitanti erano saliti a 4.000, il 24,7% di rifugiati). Sotto l’occupazione israeliana 30.147 dunam (3014,7) ettari sono stati classificati come “area chiusa” interdetta all’uso palestinese.

Le disgrazie del villaggio, che viene rifornito da una delle fonti più importanti della Cisgiordania (5 milioni di m3 l’anno), non finirono qui. Nel 1977, nelle immediate vicinanze della fonte, venivano perforati due “pozzi ebraici”, destinati in particolare a rifornire i vicini insediamenti illegale, tipo quello di Yitav (secondo l’Istituto di Ricerca Applicata di Gerusalemme, Israele ha confiscato 499 dunam, 49,9 ettari, di terra al villaggio palestinese di Al-Auja per costruire Yitav, di 296 abitanti).

A seguito di una siccità persistente nei due anni successivi, la portata della sorgente diminuì notevolmente, fino a prosciugarsi completamente nel 1979, cosa mai accaduta prima. Gli abitanti del villaggio hanno allora chiesto di acquistare l’acqua dai due pozzi israeliani, ricevendone un rifiuto. Rovinati, 1.500 abitanti del villaggio dovettero emigrare e alcuni di quelli rimasti dovettero cercare lavoro nei vicini insediamenti israeliani.

Il caso di Aujah è esemplare di una politica israeliana che cerca di spingere i contadini palestinesi a lasciare la loro terra, sia confiscandola e sia, più subdolamente, impedendo loro di coltivarla.

In un prossimo post l’evoluzione più recente del gigantesco furto d’acqua da parte di Israele.

Palestina. il monopolio delle risorse idriche dopo Oslo

Olympe de Gouges  4 marzo 2024

Ipocrisia e cinismo al colmo: aerei Usa paracadutano “aiuti” in modo che gli abitanti di Gaza siano vivi al momento in cui saranno bombardati e assassinati con le armi fornite dagli Usa agli israeliani.

Nel 1991 fu avviato un processo di pace con la conferenza di Madrid, che ha consentito nel 1992 la creazione di un gruppo di lavoro per la condivisione dell’acqua. Nel 1993, nella Dichiarazione di principi per accordi provvisori di autogoverno (a volte chiamata Oslo I), fu stabilito che “Israele riconosce, ai sensi degli articoli 1-3, il diritto dei palestinesi all’acqua in Cisgiordania” (una formulazione di un diritto che la dice lunga sulla situazione di fatto). In seguito agli accordi di Oslo, nel 1995 è stata istituita l’Autorità palestinese per l’acqua (PWA).

L’anno prima, nell’ottobre 1994, il trattato di pace giordano-israeliano risolse anche la questione idrica tra questi due paesi sulla base della cooperazione: veniva riconosciuto alla Giordania l’accesso alle acque del Giordano – fino ad allora interamente sfruttate da Israele – che riceverà 50 milioni di m3 ogni anno. Tra il 1996 e il 2001, Israele ha rispettato i suoi impegni solo per due anni su sei e hanno restituito alla Giordania solo una media di 47 milioni di m3 all’anno, secondo fonte governativa israeliana (vedi in seguito).

Inoltre, Israele si era impegnato a partecipare ai lavori dello Yarmouk per fornire altri 100 milioni di m3 al regno hascemita, ma nel 2001 lo Stato ebraico non aveva ancora mantenuto la parola data. Infine, venne regolarizzato il pompaggio nei pressi della confluenza Giordania-Yarmouk (100 milioni di m3/anno), effettuato illegalmente da Israele dal 1967, eccetera.

Nel settembre 1995, i cosiddetti Accordi di Oslo II prevedevano una condivisione delle acque sotterranee che sarebbe rimasta in vigore fino alla firma dell’accordo finale israelo- palestinese che avrebbe dovuto avvenire prima del 1 maggio 1999!. Questo accordo tratta i principi della condivisione delle falde acquifere della Cisgiordania e pretende di soddisfare i bisogni israeliani e palestinesi; infatti, essendo le falde acquifere occidentale e nord- orientale già completamente utilizzate (principalmente da Israele), la trattativa non poteva che riguardare la falda orientale, quella di qualità meno buona, di cui erano disponibili 78 milioni di m3, secondo le stime dell’epoca. Le quote idriche assegnate all’Autorità Palestinese vengono aumentate di poco più di 80 milioni di m3 (di cui 9,5 milioni di m3 provenienti da Israele).

Tuttavia, secondo l’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem, Israele non rispetta questo accordo (dal 2002, la quantità di acqua ceduta da Israele è quasi un terzo inferiore a quella ceduta all’inizio degli anni ‘90, quando avrebbe dovuto aumentarla di un terzo); il problema della condivisione dell’acqua è (come vedremo più avanti) una necessità imperativa da parte israeliana, motivata dal timore di vedere l’Autorità Palestinese prendere il controllo di una risorsa strategica.

Inoltre, Israele impone altri due limiti in materia d’acqua: i palestinesi non hanno accesso alle acque del Giordano e non è autorizzato alcun trasferimento di acqua dalla Cisgiordania a Gaza.

L’Autorità Palestinese per l’Acqua (PWA) ha giurisdizione teorica sulle questioni legate all’acqua e ai servizi igienico-sanitari, ma non ha alcun potere sui flussi – Mekorot continua a gestire le quantità di acqua messa a disposizione dei palestinesi – e può intervenire solo nelle aree A e B (enclavi palestinesi all’interno dell’area C in Cisgiordania), restando l’area C (60% della Cisgiordania, completamente sotto controllo israeliano) per l’acqua (come per tutte le altre questioni) di esclusiva competenza delle autorità occupanti israeliane. Questa situazione limita notevolmente le possibilità di intervento dell’ANP che, molto spesso, “serve solo come capro espiatorio di fronte al malcontento delle popolazioni palestinesi”.

L’altra struttura creata, la Joint Water Commission (JWC), non è più efficace: composta in parti uguali da esperti palestinesi e israeliani, ha giurisdizione solo sulle aree A e B e opera per consenso, il che, di fatto, dà a Israele un diritto di veto; quindi, solo la metà dei progetti palestinesi sono stati approvati dalla JWC. Nel campo dei servizi igienico-sanitari, degli 8 impianti di trattamento individuati, solo due (Nablus e Hebron) sono stati realizzati.

Nel 2009, Amnesty International ha criticato la JWC per aver “semplicemente istituzionalizzato il sistema intrinsecamente discriminatorio di controllo israeliano sulle risorse palestinesi che era già in vigore dall’occupazione israeliana dei territori occupati tre decenni prima”. La Banca Mondiale ha osservato: “JWC non ha adempiuto al suo ruolo di fornire un efficace quadro di governance collaborativa per la gestione e gli investimenti congiunti delle risorse […]. JWC non funziona come un’istituzione “congiunta” di governance delle risorse idriche a causa di asimmetrie fondamentali – di potere, di capacità, di informazioni, di interessi – che impediscono lo sviluppo di un approccio consensuale alla risoluzione dei conflitti di gestione dell’acqua.” (Wikipedia).

Pertanto, gli accordi di Oslo, nonostante la fornitura di alcune decine di milioni di m3 d’acqua ai palestinesi, hanno comunque confermato il dominio indiviso di Israele sulle risorse idriche e sulla loro distribuzione, dal momento che le strutture palestinesi (PWA, o fintamente paritetiche come JWC) hanno, di fatto, il più delle volte, solo un ruolo consultivo senza un reale potere decisionale in una “gestione quotidiana largamente asimmetrica”.

* * *

Per comprendere uno dei principali motivi del mantenimento dell’occupazione israeliana dei territori palestinesi è di sicuro interesse quanto si legge, tra l’altro, in uno studio governativo israeliano:

«Se Israele attuasse i ritiri dal Golan, dalla Giudea e dalla Samaria impliciti negli accordi discussi con Damasco e l’Autorità Palestinese, perderebbe il controllo sul destino di una parte molto significativa delle riserve idriche da Israele attualmente utilizzate – secondo alcune stime fino al 65% degli importi attualmente disponibili» (Israel Institute for Strategic Studies, marzo 2011).

Sul fatto che Israele possa accettare l’istituzione di due Stati in Palestina o anche solo il rispetto degli accordi sottoscritti, è istruttivo il monito contenuto nelle conclusioni dello stesso documento governativo:

«È ovviamente vero che, in ultima analisi, la politica israeliana riguardante il mantenimento o il trasferimento dell’autorità e del controllo sui territori del Golan e della Giudea, Samaria e Gaza agli arabi non sarà determinata solo da considerazioni idrologiche, ma da un approccio complesso ponderato di fattori di sicurezza, strategici, diplomatici, politici ed economici. È tuttavia imperativo che i policy maker siano consapevoli delle implicazioni idro-strategiche e idro-politiche di qualsiasi linea d’azione che decidano di adottare, e soppesino con giudizio i relativi rischi implicati in ciascuna di esse».

Inoltre, sempre dalla stessa fonte governativa e per comprendere i motivi dell’attuale strategia israeliana, tendente ad espellere la popolazione palestinese dalla Palestina, è interessante tener presente quanto segue:

«[…] per molti aspetti, la crisi è già così grave da aver superato i limiti di un problema economico, […] e ha assunto le dimensioni di un problema strategico, che incide sulla stessa sopravvivenza fisica del Paese. […] al di là della relativa parsimonia del consumatore non agricolo in Israele, il significato di fondo dell’analisi precedente è inquietante. Infatti, se la popolazione di Israele, che all’inizio del 1999 superava di poco i 6 milioni (escluse Giudea, Samaria e Gaza), dovesse raggiungere i 7-7,5 milioni e la domanda urbana si avvicinasse ai livelli più bassi di tale domanda nei paesi ricchi occidentali, l’intera produzione sicura di acqua dolce del paese (comprese le fonti attualmente non incluse nel sistema nazionale come le falde acquifere di Arava, Beit Shean e la Valle del Giordano) sarebbe necessaria per soddisfare la sola domanda urbana».

A togliere ogni illusione che possa un giorno essere raggiunto un qualunque accordo tra Israele e Autorità palestinesi è sempre lo stesso documento:

«Le autorità israeliane, indipendentemente dall’appartenenza politica al partito, sono da tempo consapevoli dell’importanza cruciale del controllo delle fonti d’acqua in Giudea e Samaria. Ad esempio, l’ex ministro dell’Agricoltura del partito laburista Avraham Katz-Oz ha affrontato la questione in una lettera all’ex premier Yitzhak Shamir, datata 14/5/89, intitolata “La sicurezza dell’acqua nello stato di Israele oggi e in futuro”. In esso Katz-Oz, allora ministro responsabile per legge della sorte del sistema idrico, proponeva che il governo israeliano prendesse misure per “impedire qualsiasi aumento delle operazioni di pompaggio in Giudea, Samaria e Gaza” e lo esortava a “preparare una base giuridica e politica per garantire il controllo e l’amministrazione israeliani continui delle fonti d’acqua in Giudea e Samaria, qualunque sia la situazione politica futura».

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