L’ILLUSIONE MERITOCRATICA da CODICE ROSSO
L’illusione meritocratica
Il termine meritocracy, probabilmente comparso la prima volta nell’articolo del sociologo Alan Fox Class and Equality pubblicato sulla rivista “Socialist Commentary” nel 1956, si è diffuso a partire dall’uso che ne è stato fatto nel 1958 dal laburista Michael Young, anch’egli sociologo, nel romanzo distopico The Rise of the Meritocracy 1980-2033. An Essay on Education and Equality (L’avvento della meritocrazia, 1962) in cui vengono raccontate le tappe che, attraverso una serie di riforme scolastiche e socio-economiche, hanno condotto all’instaurazione nel 2033 di un sistema meritocratico ove la classe dirigente viene scelta in base al “livello di intelligenza” misurato “scientificamente”. Una società, dunque, in cui il “giusto merito” per governare sugli altri deriva dal quoziente intellettivo associato all’impegno.
Se l’intenzione di Young era quella di mettere in guardia dai rischi di una società sempre più managerializzata – tanto da mostrare, nella seconda parte del romanzo, come le forme di discriminazione introdotte da tale sistema diano luogo a una rivolta radicale –, da tempo l’aspirazione a una società meritocratica viene sbandierata, più o meno demagogicamente, da opinionisti e politici di ogni tipo come strada maestra per risolvere le storture e le ingiustizie che attraversano la società.
Da tali considerazioni prendono il via le riflessioni di Francesco Codello nel libro L’illusione meritocratica (elèuthera, 2024). «Certamente in una società che premia il demerito appare del tutto evidente che invocare e aspirare a una società meritocratica non può non essere un obiettivo da tutti facilmente condiviso» – scrive l’autore – ma, come del resto aveva intuito Young, «valorizzare le attitudini personali, i singoli talenti e le specifiche sensibilità è una cosa, il merito un’altra, la meritocrazia un’altra ancora».
Codello non intende stabilire il “significato unico” di termini sfuggenti come “merito” e “meritocrazia”, quanto piuttosto evidenziare, senza pretesa di esaustività, i pericoli che si nascondono dietro agli usi disinvolti che vengono fatti in ambito politico e culturale di tali concetti intesi come l’essenza della “giustizia”.
Pur mossa dalla legittima aspirazione al superamento dei privilegi e delle diseguaglianze, l’idea di risolvere tutto ricorrendo al merito fatta propria da culture e visioni politiche così diverse, non può che suscitare qualche interrogativo. L’illusione meritocratica intende «mettere in discussione un dogma talmente forte e condiviso da essere riuscito, grazie alla sua potenza evocativa, ad annullare tutte le differenze di visione tradizionali della politica», svelando «quale sia il possibile esito di una società meritocratica, vale a dire quello di naturalizzare le disuguaglianze».
Se l’attribuzione di un senso condiviso al termine “intelligenza” è questione decisamente problematica, non lo è da meno pretendere di comparare «in modo oggettivo e impersonale le diverse intelligenze». Ogni ambiente socio-culturale richiede e forma specifiche tipologie di intelligenza; proporsi valutazioni uniformi, sottolinea l’autore, significa premiare il conformismo e l’omologazione.
L’uguaglianza delle opportunità su cui si vorrebbe fondare l’ideologia meritocratica guarda al “merito” come se si trattasse di una costante mentre è in realtà una variabile dell’azione umana. La versione più radicale dell’ideologia meritocratica, sottolinea Codello, insiste sull’uguaglianza dei risultati a prescindere dai diversi punti di partenza. «Ciò che conta per l’ideologia meritocratica è che tutti abbiano le stesse opportunità di salire la scala del successo. Questa semplice e apparentemente ovvia affermazione evoca, nelle persone che soffrono a causa di una qualche forma di ingiustizia, una speranza, una possibilità di riuscita e di successo. Ma questa dichiarazione non tiene conto e non ha nulla da dire su quanto dovrebbero essere alti i gradini della scala e neppure se sia giusto o corretto dare per scontato che debbano esistere comunque dei gradini».
La forza dell’idea meritocratica risiede nel suo risultare attrattiva tanto per coloro che «l’hanno interiorizzata come concezione psicologica perché sono certi di appartenere alla categoria esclusiva dei vincitori», quanto per chi, da “perdente”, spera attraverso essa di poter raggiungere lo status di “vincitore”. «È dunque un’idea simbolicamente perfetta per l’immaginario sociale […] nonostante sia al contempo straordinariamente efficace per perpetuare le disuguaglianze e farle accettare dai più come inevitabili, giuste, persino necessarie». Inoltre, alimenta «l’illusione della giustizia come risultato della libertà di competere ad armi pari e quindi di poter ottenere un giusto esito dalla vita comune».
L’idea meritocratica, sottolinea l’autore, postula l’accettazione della superiorità morale e psicologica di alcuni sugli altri. Ad essere intimamente legata all’idea meritocratica è la questione della “valutazione”. «Valutare vuol dire dare valore, quindi pesare, quantificare, attribuire un peso a qualcosa di spendibile nel mercato».
L’attuale società è attraversata dall’ossessione della valutazione e tutto ciò è in linea con l’“economia cognitiva”, «nella quale l’impresa (nel senso ampio del termine) investe nel “capitale umano” (vero orrore espressivo), secondo equazioni come “ricchezza e sviluppo nazionale = innovazione”. In altre parole, l’individuo è chiamato a forza ad aumentare le sue competenze per rendersi più competitivo». Si tratta di una logica che, sostiene Codello, «persegue il passaggio dal saperfare al saper-essere. Con il pretesto dell’efficienza, in realtà si valuta solo la capacità di adattamento al sistema complesso e globale di valutazione, ai suoi tempi, spazi, luoghi, modi, relazioni, incitando a una competizione esclusivamente finalizzata al raggiungimento del risultato (a qualsiasi costo), promuovendo questo nuovo soggetto-oggetto dal “cervello aumentato”, piegando l’espressione libera e spontanea del proprio specifico sé alle esigenze delle batterie valutative appositamente confezionate”.
I nuovi sistemi scolastici mirano a costruire e fornire ad un mercato del lavoro sempre più globalizzato e fluido, soggetti-oggetti flessibili, acritici e dotati di notevole capacità di adattamento professionale e psicologico, spendibili nei più diversi contesti. «Abbiamo ormai consumato il passaggio strategico dall’idea di istruzione obbligatoria a quello di formazione obbligatoria, dall’uomo produttore a quello consumatore. Ecco perché in passato l’attenzione era rivolta all’acquisizione delle conoscenze mentre adesso è rivolta all’acquisizione delle competenze. Il sistema scolastico è transitato dall’essere al servizio dell’economia, all’essere al servizio di uno dei settori strategici dell’economia. La sua mission è infatti quella di formare adeguatamente i lavoratori alle esigenze della logica capitalistico-finanziaria, di educare e stimolare il consumatore, di aprire le scuole stesse alle strategie pervasive dei mercati. Il futuro lavoratore (fin da studente) deve essere flessibile, adattabile, competitivo, animato da spirito d’impresa e soprattutto responsabile, ovvero conscio che il suo interesse coincide con quello generale (cioè con quello delle classi dominanti)».
La “pedagogia delle competenze” ed i “sistemi valutativi” si sono imposti a livello globale strutturando un modello educativo “formativo” «che ha trasformato la Scuola in una fabbrica di allievi performanti, in una fabbrica di “risorse umane”. Si è così imposta una valutazione che poggia su una filosofia caratterizzata da una misurazione standardizzata e da un approccio quantitativo, una valutazione del tutto estranea al contesto quotidiano della dinamica apprendimento/insegnamento/apprendimento». Tutto ciò «sta imponendo un tipo di essere umano privo di autonomia, servile e ignorante, ma fortemente disponibile, perché ne ha interiorizzato i fondamenti, a essere consumato in modo assolutamente a-critico».
Insomma, al mantra meritocratico Codello risponde non solo mettendo in luce come in realtà questo poggi su piedi d’argilla, visto che presupporrebbe la parità delle condizioni di partenza, ma anche evidenziando quanto la meritocrazia trasformi la disuguaglianza da fatto sociale a dato naturale. Il mito meritocratico si fonda infatti sull’interiorizzazione di una piramide sociale inappellabile in cui ognuno, vincente o perdente che sia, occupa il posto che “si merita”: un naturalizzato “governo dei migliori” che deve regnare sulla “servitù volontaria”, una sofisticata riproposizione del principio di disuguaglianza.
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