L’ECONOMIA SOVRANA TRA PROPAGANDA E REALTÀ da IL MANIFESTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
Cultura, Saperi, Università, Dialogo
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L’ECONOMIA SOVRANA TRA PROPAGANDA E REALTÀ da IL MANIFESTO


L’economia sovrana tra propaganda e realtà

NUOVA FINANZA PUBBLICA. La rubrica settimanale di politica economica. A cura di autori vari

M. Bertorello, D. Corradi  15/06/2024

Come afferma efficacemente un recente editoriale di Jacobin-Italia, il quadro che emerge dalle elezioni europee è in larga parte figlio della crisi del 2007-2009. Le promesse di crescita e benessere della globalizzazione neoliberista sono state disattese e chiunque si sia cimentato con il governo è risultato inefficace su crescita, benessere e crisi climatica. Un contesto che ha alimentato sfiducia nella politica, ben evidenziato dal record di astensionismo.

Lo spostamento a destra nasce in questo contesto di fragilità e incertezza. La retorica di successo securitaria e anti-migranti è in parte compatibile con un quadro economico che invece non sembra nella sostanza modificabile. Ma quanto reggerà il discorso neonazionalista alla prova dei fatti? Che tipo di «economia sovrana» è ipotizzabile per l’Europa? Proviamo a riflettere considerando fattori strutturali.

Gli scenari possono essere potenzialmente due: il primo più probabile, perlomeno nel suo affacciarsi a breve, consiste nell’adattamento della destra al quadro politico economico internazionale con il rafforzamento dell’alleanza Stati Uniti-Europa in chiave anti-cinese (quella che appare la strategia subita e agita dalla Meloni in Italia, realizzata con i conservatori alleati ai popolari), oppure un «liberi tutti» con il riemergere di prospettive più marcatamente nazionali (l’orientamento Salvini-Le Pen per semplificare).

Entrambe prospettive fragili e piene di contraddizioni dove a pagare un prezzo elevato potrebbe essere innanzitutto la Germania, paese caratterizzato da un’impresa rivolta all’export su prodotti di qualità medio-elevate e già segnato dalla crisi della globalizzazione e dal ritorno della geopolitica. Gli Stati Uniti riducono le importazioni dalla Cina già da 5 anni e la svolta protezionista sembra strutturale, ma in Europa il quadro sembra molto più incerto.

Le importazioni dalla Cina sono in calo da minor tempo, a causa di una debolezza nelle catene di fornitura che rende più complesso riportare a casa produzioni anche strategiche. Gli Usa non possono fare a meno completamente di un’economia internazionale (troppo a fondo sono andati i meccanismi della globalizzazione per annullarli) e, dunque, stanno provando a torcere il progetto europeo in direzione di rinsaldare un’alleanza atlantica anche sul piano economico.

L’Italia potrebbe fornire prodotti industriali a prezzi contenuti puntando sul lungo inverno salariale, sostituendo, almeno in parte, la Cina nelle importazioni di Washington. La Germania è ancora il paese più esposto verso la Cina per esportazioni e importazioni. Il capitalismo tedesco sarebbe disposto a percorrere questa strada? Significativo come Berlino si sia appena smarcata dalla proposta della Commissione di dazi aggiuntivi per le auto elettriche cinesi. Il rischio per la Germania è quello di una crisi strategica con riflessi importanti su redditi e salari (ma anche sui paesi subfornitori, Italia compresa).

Quanto malcontento si genererebbe nella popolazione tedesca? Una dinamica che potrebbe portare a un ulteriore rafforzamento dell’estrema destra e spingere nella direzione di un nazionalismo anti-europeista, magari alimentato dal crescente revanscismo francese sul piano continentale. Barba Navaretti parla di scivolamento verso un «protezionismo autogenerativo». Ma anche questa strada sembra assai fragile. Un’Europa spaccata in macro-aree sarebbe ancor più debole sul piano geopolitico ed economico. Tanto più considerando l’uso di risorse pubbliche che Cina e Usa impiegano nella contesa globale.

Per il momento a gongolare appare la destra nostrana, unica ad aver superato indenne due anni di governo, che non sembra porsi questo tipo di interrogativi. Ma in questa prospettiva neonazionalista è sufficiente prendersela con la Bce per il ritorno dello spread? Oppure, per fare solo un esempio, il problema del debito inizierà nuovamente a mordere in un’Europa senza visione a rischio implosione?

«Extra profitti» di guerra, un doppio errore

SCENARI. Difficile da definire, la tassazione sugli interessi degli asset russi rischia di ripetere la figuraccia del nostro governo con quelli delle banche. E allontana un altro po’ la diplomazia

Stefano Ungaro

La posizione del G7 sull’esproprio degli extra profitti russi è da condannare due volte. Perché è un ulteriore innalzamento della tensione con Putin e perché la sua reale efficacia economica sarà probabilmente molto limitata.

Si tratta insomma di un inganno, e per di più di un inganno pericoloso. Politicamente, l’annuncio di voler finanziare un prestito da 50 miliardi di euro all’Ucraina con gli extra profitti derivanti dai beni russi rappresenta un’escalation e un nuovo passo verso il coinvolgimento dei Paesi europei nel conflitto. Dal punto di vista pratico, al contrario, il compromesso trovato permetterà a oligarchi e miliardari russi di conservare conti correnti, yacht e ville detenuti in Europa.

I governi di Germania, Canada, Italia, Regno unito, Stati uniti, Francia e Giappone utilizzano questo accordo con un chiaro obiettivo politico. Dopo mesi di critiche sulle loro divisioni e sul loro atteggiamento nei confronti della Russia, che viene considerato troppo blando dai più bellicisti, ai governi, soprattutto europei, interessa mostrare forza e unità nel contesto della guerra in Ucraina. Inoltre, questa posizione permette loro di fare la voce grossa con Putin e contestualmente rassicurare Zelenski.

Dietro ai proclami e alle minacce, però, di pratico c’è molto poco. E questo per due ragioni. Innanzitutto perché una grande parte dell’opinione pubblica europea è contraria alla guerra e a misure che comportino nei fatti un inasprimento del conflitto. In Francia, è stata anche se non soprattutto l’opposizione alle posizioni belliciste di Macron a determinare la sua disfatta alle ultime elezioni europee. Le destre di mezza Europa hanno saputo cavalcare e appropriarsi di questo tema, che resta però trasversale e ampiamente maggioritario nel continente e soprattutto nei paesi come Italia, Francia e Spagna che soffrono di più la crisi economica e l’inflazione.

Ci sono poi ragioni tecniche che vengono portate a giustificazione del compromesso trovato sulla confisca dei beni dei cittadini russi.

I governatori delle banche centrali, ad esempio, invocano la credibilità della zona euro, che verrebbe a vacillare nel caso in cui i Paesi dell’area si mettessero ad espropriare beni di cittadini stranieri. Secondo loro, una misura di questo tipo potrebbe portare altri investitori a temere per i propri beni, e scatenare quindi una fuga di capitali. Un’eventualità quanto mai remota, in realtà, perché coinvolgerebbe cittadini di nazioni ad alto rischio di guerra con uno o più paesi europei. Una situazione fortunatamente non in vista, almeno sul medio periodo.

A questo, i banchieri centrali aggiungono l’evidente assenza di un quadro legale che permetta di prendere possesso di proprietà private altrui. Effettivamente, nel diritto internazionale esiste un sistema di prevenzione e contrasto al finanziamento del terrorismo e all’attività dei Paesi che minacciano la pace e la sicurezza internazionale, che poggia sostanzialmente sul congelamento dei beni di questi terroristi o Paesi, ma non sulla loro vendita.

Il compromesso trovato è quindi quello di non toccare capitali e proprietà russi, ma di appropriarsi esclusivamente degli «extraprofitti». Secondo Meloni si tratta «non di una confisca di beni ma degli interessi che maturano nel corso del tempo». Non è chiaro però come si definiscano e come si calcolino, questi «extraprofitti», né chi avrà nella pratica il potere di mettere mano a queste somme.

Viene subito in mente il pasticcio fatto con gli «extraprofitti» bancari da parte del governo italiano. Un grande annuncio utilizzato per fare la voce grossa e mostrare un governo «dalla parte del popolo», ma concluso con un nulla di fatto e anzi con ulteriori benefici per gli istituti di credito.

Allo stesso modo, dal punto di vista pratico questa operazione fornirà forse alla fine solo un piccolo sostegno economico all’Ucraina. Dal punto di vista politico, però, le conseguenze potrebbero essere molto gravi, in quanto si tratta di un ulteriore passo di allontanamento dalla logica della diplomazia e di avvicinamento a quella della guerra, nonché al nostro coinvolgimento sempre più totale nel conflitto.

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