L’AUTONOMIA SARÀ UN BOOMERANG PER MELONI
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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L’AUTONOMIA SARÀ UN BOOMERANG PER MELONI

L’autonomia sarà un boomerang per Meloni

Pino Ippolito Armino  04/07/2024

La Camera dei deputati ha approvato e reso definitivo il decreto legge Calderoli già licenziato in gennaio dal Senato. Così la presidente del Consiglio ha offerto all’indispensabile alleato leghista lo scalpo dell’autonomia differenziata, al prezzo di contraddire se stessa e l’obiettivo a suo tempo dichiarato di voler abolire le istituzioni regionali in quanto moltiplicatrici delle occasioni di malaffare, di poltrone e di spesa pubblica (opinione peraltro largamente condivisibile). La coerenza non è la principale delle sue virtù ma per Giorgia Meloni, con questo dietro-front, si tratta soprattutto di avventurarsi in un doppio azzardo. Nessuno ignora che l’appoggio al decreto leghista sia stato dato in cambio della condivisione del vecchio progetto della destra post-fascista e missina di trasformare la repubblica italiana da parlamentare a presidenziale, per avvicinarla quanto più possibile, pur nel mutato quadro internazionale, al modello della Repubblica Sociale di cui Giorgio Almirante, padre spirituale di Giorgia Meloni, è stato “degno” rappresentante. Tuttavia, mentre l’autonomia differenziata è già legge e potrebbe essere abrogata soltanto da un referendum o da una maggioranza parlamentare diversa da quella attuale, la riforma cosiddetta del premierato dovrà obbligatoriamente passare attraverso il vaglio referendario, giacché si tratta di una revisione costituzionale che non ha ottenuto il voto favorevole dei due terzi del Parlamento. Potrebbe, dunque, darsi che il premierato venga respinto dagli italiani quando l’autonomia differenziata ha già prodotto parte dei suoi perversi effetti con le intese frattanto raggiunte fra Stato e Regioni. Verrebbe anche a liquefarsi l’argomento esibito dalle destre che una maggiore autonomia delle regioni troverebbe contrappeso, a preservazione dell’unità nazionale, nella maggiore forza di un esecutivo guidato da un(a) leader eletto(a) direttamente dal popolo. Un argomento del tutto inconsistente sul piano costituzionale ma che potrebbe aver fatto presa su parte dell’elettorato. Il secondo azzardo è probabilmente più rischioso e riguarda la tenuta dell’elettorato di Giorgia Meloni nel Mezzogiorno, come mostra l’accorta mossa del presidente della Calabria, il forzista Roberto Occhiuto, di smarcarsi insieme agli altri deputati corregionali dalla responsabilità di un voto che non può piacere a gran parte degli italiani che vivono al Sud. Possono, perciò, destare sorpresa le manifestazioni di giubilo dei parlamentari meridionali all’approvazione del decreto ma non è la prima volta nella storia del nostro Paese che i rappresentanti del Mezzogiorno mostrano un comportamento così apertamente autolesionista. Già agli albori dell’Unità vi sono episodi che tradiscono questa pulsione. In una delle prime sedute del nuovo Parlamento italiano, il 27 maggio 1861 a Torino, furono portati alla discussione per la convalida i decreti con i quali, con sospetta urgenza già nel settembre dell’anno precedente, erano stati uniformati i dazi doganali napoletani a quelli piemontesi. I contrari a quella norma, che con la contrazione dei diritti all’importazione anche dell’80% decretava la fine del sistema industriale meridionale, furono appena 13 su 190 e tra i pochi meridionali va ricordato l’industriale napoletano Giuseppe Polsinelli. Tra la fine di aprile e l’inizio di maggio di quello stesso anno, così cruciale per il futuro del Mezzogiorno, le richieste di maggiore autonomia sostenute anche da uomini di governo come l’emiliano Marco Minghetti sulla scorta del pensiero di Mazzini e di Cattaneo, subirono la bocciatura in blocco dei deputati venuti dalle province del Sud nell’apposita commissione istituita per definire un assetto più decentrato dello Stato e contrastare l’accentramento a Torino voluto dagli ambienti politici più moderati. In entrambi i casi fu, però, possibile trovare una spiegazione al comportamento dei meridionali. La deputazione del Sud era in gran parte composta da possidenti agrari i quali, a differenza degli industriali, traevano un vantaggio dalla riduzione delle tariffe perché facilitava l’esportazione dei loro prodotti. Inoltre il borbonismo era ancora una concreta minaccia e il deputato napoletano Carlo Poerio poteva dirsi contrario alle Regioni per la necessità di dare forza al neonato Stato italiano contro i pericoli che ne insidiavano l’unità appena realizzata. Quel che oggi lascia, invece, stupefatti è, fatti salvi i quattro deputati forzisti calabresi, l’autolesionismo senza apparente motivazione della rappresentanza meridionale. Nessuno di loro, infatti, ignora che la riforma non può essere a somma zero e che le regioni del Sud saranno inevitabilmente, ulteriormente penalizzate. Non resta a spiegare il loro voto che la fedeltà al capo, anche quando progetta di immiserire ulteriormente le regioni dalle quali provengono. L’interesse della comunità passa in subordine a quello personale, il futuro collettivo è sacrificato a quello individuale. Così si comporta una classe politica ignobile e meschina e su di essa può contare Giorgia Meloni per il suo rischioso azzardo.

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