L’AUTONOMIA È UN PROBLEMA. ANCHE PER IL NORD da IL MANIFESTO e IL FATTO
L’autonomia è un problema. Anche per il Nord L
REGIONI DIFFERENZIATE. Cari lavoratori, imprenditori, famiglie del Nord: l’autonomia differenziata, nell’interpretazione estrema barattata dalla Lega con FdI e FI, farà male anche a voi, non soltanto al Sud
Stefano Fassina 29/04/2024
Cari lavoratori, imprenditori, famiglie del Nord: l’autonomia differenziata, nell’interpretazione estrema barattata dalla Lega con FdI e FI, farà male anche a voi, non soltanto al Sud. Perché? Primo. La legge contraddice in radice il principio cardine del federalismo: la responsabilità politica del prelievo delle tasse, ossia delle risorse da spendere, in capo ai governi territoriali. Qui, la Regione differenziata non ha alcuna responsabilità: le entrate acquisite attraverso l’autonomia differenziata derivano interamente da compartecipazioni al gettito di uno o più tributi erariali maturati sul “suo” territorio. In sostanza, la Regione si prende, a seconda di quanto definito nell’Intesa negoziata con il governo centrale, una quota di Irpef, di Ires, di IVA a prescindere dall’efficienza nell’utilizzo. Anzi, poiché le basi imponibili delle principali imposte erariali compartecipate da Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna crescono più della spesa corrente da finanziare (vedi analisi dell’Ufficio parlamentare di bilancio), gli incentivi piegano verso l’inefficienza e gli sprechi.
Secondo. Anche il Nord subirà gli effetti del declassamento politico di un’Italia ritornata «espressione geografica». Quale peso politico può avere a Bruxelles, nelle relazioni internazionali bilaterali e multilaterali un presidente del Consiglio senza il controllo legislativo sulle principali materie economiche, sociali, infrastrutturali? Ad esempio, con quale affidabilità avrebbe potuto negoziare un Pnrr dedicato quasi tutto a investimenti e riforme di esclusiva competenza regionale? Germania, Spagna, Austria, ecc. sono Stati federali e negoziano autorevolmente, ma noi saremmo, come per il premierato, un unicum nel globo terraqueo, poiché tutti gli Stati federali hanno una camera delle autonomie territoriali per raccordare i livelli di governo sussidiari e dare flessibilità ai poteri legislativi regionali. Noi, invece, avremmo 21 Intese rigide, soggette al veto del presidente della Regione per le modifiche.
Terzo e quarto (sintetizzo e rinvio al mio lavoro per Castelvecchi L’Autonomia differenziata fa male anche al Nord, prefazione di Pierluigi Bersani). In un quadro di federalismo competitivo, l’autonomia alimenterà il dumping regolativo e – spezzati i contratti collettivi nazionali dei privati a seguito della regionalizzazione del lavoro pubblico – retributivo; moltiplicherà le norme e gli adempimenti amministrativi e lascerà le nostre aziende senza il sostegno politico-diplomatico dello Stato.
Quinto. L’impatto sul costo di mutui e prestiti per imprese e famiglie. Il canale di trasmissione è il tasso di interesse sui nostri Titoli di Stato. Il debito pubblico rimane al Tesoro, parte dei tributi erariali è trattenuta dalle Regioni. È un nodo cruciale per un debitore malmesso come noi. Nessun problema se le entrate erariali sottratte al centro fossero strettamente correlate al finanziamento delle spese trasferite. Non è così. Nelle bozze di Intesa sottoscritte da Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna con la ministra Stefani e tenute in vita dalla legge Calderoli è scritto: «L’eventuale variazione di gettito maturato sul territorio delle Regione dei tributi compartecipati … , rispetto alla spesa sostenuta dallo Stato nella Regione o, successivamente, rispetto a quanto venga riconosciuto in applicazione dei fabbisogni standard, anche nella fase transitoria, è di competenza della regione». Chiaro? Le risorse a garanzia del debito pubblico diventano sempre più esigue. Quindi, in stretta correlazione, salgono i rischi di sostenibilità, i tassi di interesse pagati dallo Stato e, a valle, le rate dei debitori privati.
Arrivati qui, pronto il soccorso, anche del Nord, con i mitici Lep. In primo luogo, va segnalato che soltanto una parte delle materie è dotata di Lep. In secondo luogo, che la definizione dei Lep, nonostante offra amplissimi margini di discrezionalità agli autori, viene lasciata al completo arbitrio del governo. Per valutarne il livello di affidabilità cito un passaggio della posizione della Banca d’Italia: «Le prestazioni qualificate come Lep effettivi … sono nella maggior parte dei casi formulate in termini troppo generici, in buona parte riconducibili a mere dichiarazioni di principio».
Sull’autonomia non dobbiamo alimentare la “guerra civile” sudisti contro nordisti, è anche questione settentrionale. Spieghiamolo bene da Roma in su.
Premierato, un Parlamento eletto con questa legge elettorale non può toccare la Costituzione
MAURIZIO MALO 27/06/2024
Com’è noto, nei giorni scorsi il Parlamento (I) ha approvato in via definitiva la legge ordinaria che reca norme procedurali per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario (deliberazione Camera dei deputati di mercoledì 19 giugno); (II) ha effettuato (Senato della Repubblica, martedì 18 giugno) la prima delle quattro deliberazioni volte alla adozione della legge di modifica della Costituzione sul punto della forma di governo dello Stato (elezione diretta del primo ministro).
Sono discipline che stanno su diversi piani.
(I) Disporre in tema di autonomia differenziata significa attuare la Costituzione. Si può discutere se la legge ordinaria ora approvata consista in una buona o in una cattiva disciplina, ma è comunque legittimo e potrebbe dirsi doveroso per il Parlamento, in ossequio alla Costituzione, disciplinare l’autonomia differenziata. Dev’essere chiaro, infatti, che l’autonomia differenziata è norma costituzionale, di quella parte della Costituzione così ideata e riformata nel 2001 (inserendo con convinzione anche l’autonomia differenziata) dalla più dotta sinistra italiana di quegli anni: l’autonomia differenziata per Regioni ordinarie è “Costituzione vigente” (art. 116 Cost.), al pari per esempio del diritto dei lavoratori ad una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro prestato (art. 36 Cost.); al pari del ripudio della guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali (art. 11 Cost.); al pari del principio “del più ampio decentramento nei servizi che dipendono dallo Stato” (art. 5 Cost.) e via dicendo.
Se ora si ritiene che l’autonomia differenziata sia in realtà una pessima cosa (incoerente rispetto ai principi supremi della Costituzione), allora (laddove, nel 2001, si contribuì al suo inserimento in Costituzione, si faccia innanzitutto debita ammenda e poi) si presenti un progetto di revisione costituzionale volto ad abrogare il terzo comma dell’articolo 116 della Costituzione (che altrimenti va attuato: la Costituzione si deve attuare tutta, non solo le parti che piacciono di più nella contingenza delle fasi politiche). Ma più che in ipotetico conflitto con principi costituzionali supremi, l’autonomia differenziata di Regioni ordinarie si presenta come “declinazione” del principio costituzionale supremo “di promozione delle autonomie regionali e locali” (art. 5 Cost.): cioè, essa è direttamente coniugata ad un principio fondamentale della Costituzione, naturalmente se concepita e modellata – com’è ben possibile e doveroso fare – in stretta aderenza a quello che è il sistema dei valori e dei principi costituzionali, tra i quali il principio di eguaglianza, il principio di solidarietà, il principio di responsabilità.
(II) Invece, disporre l’elezione diretta del primo ministro è tutt’altra cosa sul piano dell’attività legislativa, in quanto, lungi dal dare attuazione alla Costituzione, si va viceversa a modificare la Costituzione stessa, tra l’altro su un punto particolarmente nevralgico del sistema istituzionale: la forma di governo che da “parlamentare” (quale essa è a Costituzione vigente) passerebbe ad essere una inedita forma di governo di tipo plebiscitario. E infatti si agisce non con “legge ordinaria”, bensì con “legge di revisione costituzionale”.
Nel merito, si possono nutrire fortissimi dubbi di opportunità politica e pure di legittimità costituzionale (rispetto ai principi costituzionali supremi, immodificabili) della legge di revisione, approvata in prima deliberazione il 18 giugno 2024: essa “concentra tutti i poteri in capo al premier, senza contrappesi che bilanciano i sistemi presidenziali; indebolisce il ruolo di garanzia ed equilibrio del Presidente della Repubblica; rende il Parlamento ancor più succube del governo; contrasta con i principi supremi di democrazia e stato di diritto che neppure una riforma costituzionale può violare” (Gruppo ASTRID, Costituzione quale riforma?, Firenze 2024).
Ma, riguardo alla legge di revisione costituzionale, resta anche un grave vulnus nel metodo: nel procedimento. Per approvare una legge di modifica della Costituzione vanno effettuate quattro deliberazioni del Parlamento, due delle quali a maggioranza assoluta. La metà più uno dei componenti deve votare favorevolmente il testo. La legge costituzionale approvata in modo definitivo può essere sottoposta al voto referendario confermativo del corpo elettorale. Al popolo l’ultima parola. Ma non si fa luogo a referendum se la legge è stata approvata, da ciascuna delle due Camere, a maggioranza dei due terzi (art. 138 Cost.). Questa disciplina, stabilita dalla Assemblea costituente, presuppone necessariamente il sistema elettorale proporzionale puro per l’elezione delle due Camere.
La modifica della Costituzione è cosa assai delicata che richiede la più larga convergenza politica: il voto favorevole della metà più uno dei deputati e dei senatori (maggioranza assoluta) venne ritenuto, dalla Assemblea costituente, appena sufficiente e comunque sufficiente a determinare una larga convergenza di diverse forze politiche parlamentari (ma sul presupposto che il Parlamento sia rappresentativo in modo fedele, autentico, della consistenza delle diverse forze politiche presenti nel Paese).
Con un voto favorevole dei due terzi o superiore ai due terzi ad opera di entrambe Camere, venne escluso il referendum confermativo in quanto veniva dato per scontato il voto favorevole della maggioranza del corpo elettorale, del popolo, rappresentato fedelmente all’interno delle due Camere. Infatti, il voto popolare è superfluo se il Parlamento rispecchia in modo autentico la consistenza delle forze politiche nel Paese: di tutte le forze politiche, e questo può accadere solo con una legge elettorale proporzionale pura (senza neppure soglie di sbarramento).
Del resto, la funzione legislativa costituzionale è del tutto distinta dalla funzione di governo che può richiedere una disciplina elettorale del Parlamento in qualche misura divergente da quella proporzionale pura, al fine di bilanciare principio democratico-rappresentativo e principio di stabilità di governo. Nell’esercizio del potere legislativo costituzionale, si è nettamente fuori dalla funzione di governo: per stabilire la disciplina elettorale dell’organo a cui è affidato il delicatissimo compito di modificare la Costituzione vale in via esclusiva e rigorosa il principio democratico-rappresentativo; l’organo dev’essere il più fedelmente possibile rappresentativo delle forze politiche presenti nel Paese, secondo la loro autentica consistenza.
Non si può tacere allora l’attuale composizione del Parlamento frutto (avvelenato, aggiungerei) della disciplina elettorale in vigore. Non si può tacere nel momento in cui questo Parlamento decide di modificare radicalmente la Costituzione sul fondamentale punto della forma di governo.
Si annuncia infatti una riforma costituzionale approvata ancora una volta dalla sola maggioranza di governo: maggioranza schiacciante in Parlamento, ma assai lontana dall’essere autenticamente maggioranza nel Paese, per effetto di una disciplina elettorale decisamente distorsiva rispetto al sistema proporzionale puro. Si annuncia una riforma costituzionale approvata da un organo che per la sua composizione risulta del tutto improprio al fine di esercitare la funzione legislativa di tipo costituzionale: funzione che richiede il pieno e profondo rispetto del principio democratico-rappresentativo.
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