LA SPERANZA CHE VIENE DALLA CORTE DELL’AJA da IL MANIFESTO
La speranza che viene dalla Corte dell’Aja
ISRAELE/PALESTINA. Nella sentenza del più importante tribunale del mondo Israele entra nel perimetro del diritto internazionale, dove le ragioni avanzate possono limitare il potere e la violenza
Luca Baccelli * 28/01/2024
Quando la Corte internazionale di giustizia (ICJ) ha reso nota la sua prima ordinanza relativa al caso Sud Africa vs. Israele è stato difficile nascondere un moto di delusione. La più importante delle misure preventive richieste, l’immediata sospensione delle operazioni militari a Gaza, non è stata adottata dalla corte. Che invece il 16 marzo 2022, a tre settimane dall’aggressione dell’Ucraina, aveva intimato alla Federazione Russa il cessate anche fuoco. Anche in quel caso si faceva riferimento alla Convenzione sul genocidio del 1948, in quanto i leader russi avrebbero sostenuto che era in corso un genocidio nei confronti della popolazione del Donbass. Insomma, è ritornato prepotentemente il sospetto che la giustizia internazionale sia profondamente condizionata dagli equilibri geopolitici e non riesca a liberarsi dalla sindrome del doppio standard.
Via via che sono arrivate le reazioni – sostanzialmente soddisfatta la ministra degli esteri del Sudafrica, i rappresentanti istituzionali e i sostenitori dei palestinesi, indignati i leader israeliani, con il consueto florilegio di accuse di antisemitismo e di oltraggio – l’impressione si è modificata. E soprattutto una lettura attenta dell’ordinanza autorizza una valutazione più equilibrata.
La ICJ, in primo luogo, respinge le richieste di Israele: non indicare misure preventive e archiviare il caso. Questo perché accoglie la tesi del Sudafrica: c’è effettivamente una controversia fra i due Stati (negata da Israele nonostante che per esempio il suo ministro degli esteri abbia dichiarato che l’accusa di genocidio «non è solo giuridicamente e fattualmente incoerente, è oscena»); questa controversia riguarda prima facie l’interpretazione e l’applicazione della Convenzione sul genocidio, dunque in base all’art IX la ICJ è competente.
C’è un nesso fra i diritti di cui si richiede la protezione – quello dei palestinesi a non subire genocidio e quello del Sudafrica all’ottemperanza della convenzione – e le misure provvisorie richieste. Contro la pretesa di Israele che al conflitto si applichi “solo” il diritto internazionale umanitario (peraltro costantemente violato) la corte ricorda le decine di migliaia di morti e feriti, le centinaia di migliaia di abitazioni distrutte, i milioni di profughi, citando le agenzie delle Nazioni Unite (Ocha, Unrwa, Oms) e le parole dei loro responsabili: «Gaza è diventata un luogo di morte e disperazione», e i suoi abitanti «vivono nell’invivibile, con l’orologio che corre veloce verso la carestia». A cui fanno riscontro le dichiarazioni disumanizzanti dei Gantz, degli Herzog, dei Gallant che abbiamo più volte citato. Tutto questo è scolpito in una sentenza del più importante tribunale internazionale, nonostante le sottovalutazioni del governo israeliano e dei suoi difensori. Quella forma di negazionismo per cui Israele non può essere accusato di genocidio mentre Hamas dimostrerebbe chiari intenti genocidari, ripetuta persino da Jürgen Habermas, è destituita di fondamento. La rivendicazione del diritto degli abitanti di Gaza di essere protetti dagli atti di genocidio è «quantomeno plausibile». La corte deciderà poi nel merito.
L’ICJ richiede il rilascio immediato e incondizionato degli ostaggi di Hamas e ordina a Israele, fra l’altro, di impedire atti di genocidio come le uccisioni, i danni fisici e mentali, condizioni che portano alla distruzione del gruppo, «imporre misure finalizzate a impedire le nascita» (nel suo ricorso il Sudafrica ricorda la «violenza riproduttiva» di cui sono vittime donne e bambini a Gaza); deve prevenire l’incitamento al genocidio e provvedere aiuti umanitari (queste ultime due misure sono state approvate anche dal giudice ad hoc israeliano Barak). Difficile capire come tutto questo sia possibile se continua l’intervento militare.
Forse all’Aja l’umanità non ha superato un bivio, forse non è avvenuta una renovatio mentis. Eppure la denuncia del rischio di genocidio ha solide basi giuridiche. E se il diritto internazionale è tutt’altro che onnipotente, si può continuare a sperare che costituisca un perimetro i cui le ragioni sono avanzate in una forma che permette di limitare, o almeno di trattenere, il potere e la violenza.
* docente di Filosofia del diritto, Università di Camerino; presidente di Jura gentium)
Un altro Israele oltre il cuore di tenebra
IL SILENZIO DELL’EUROPA. Il silenzio dell’abisso in cui risiedono la memoria della Shoah e la responsabilità occidentale per il genocidio è oggi accresciuto dal silenzio dell’Occidente di fronte al massacro in corso a […]
Iain Chambers 28/01/2024
Il silenzio dell’abisso in cui risiedono la memoria della Shoah e la responsabilità occidentale per il genocidio è oggi accresciuto dal silenzio dell’Occidente di fronte al massacro in corso a Gaza. Nonostante tutti i tentativi istituzionali di tenerli separati e distinti, per insistere sul fatto che l’antisemitismo non fa parte della più ampia violenza del razzismo, entrambi emergono da un intreccio storico di cui l’Occidente rifiuta di assumersi la responsabilità. Cercare di ragionare in prossimità di questo silenzio, cioè comprendere il genocidio e la pulizia etnica non come un’aberrazione ma come parte integrante della storia della modernità occidentale, tocca una storia più profonda e una sfida politica e critica più radicale. Chiaramente, politici e giornalisti mainstream, assorbiti dalla gestione e dalle spiegazioni del presente, di rado sono disposti a considerare questa sfida più complessa.
Ciò che rimane profondamente inquietante, tuttavia, è il fallimento intellettuale esposto da ciò che sta accadendo a Gaza. Se in Germania politici, filosofi e istituzioni culturali rimangono fermamente sionisti nel loro indiscutibile sostegno a Israele, ripetendo così ancora una volta una risposta totalitaria alla cosiddetta «questione ebraica», altrove in Europa e in Occidente, sia gli intellettuali che le comunità ebraiche (con una certa eccezionalità negli Stati Uniti) si sono in gran parte uniti a questo silenzio, dando così sostegno alla violenza oscena in corso e al sanguinoso smantellamento del credito morale occidentale e della sua screditata custodia dei diritti e dei valori umani. Come disse lo scrittore afroamericano James Baldwin: «Non posso credere a quello che dici, perché vedo quello che fai».
Non a caso, è dal Sud del mondo che si cerca un risarcimento legale per svelare le nostre ipocrisie, e lo stato di diritto viene messo contro coloro che pensano di avere, Soli, l’autorità di applicarlo. È chiaro che, mentre gli ospedali vengono deliberatamente distrutti, le università, le moschee e le chiese fatte saltare in aria, i cimiteri dissacrati, i giornalisti giustiziati e i civili ridotti a danni collaterali, alcune vite contano più di altre.
Questa disposizione razzista del potere e della comprensione è evidentemente troppo brusca e brutale perché la diplomazia politica e la filosofia contemporanea la riconoscano. Eppure, è proprio nel silenzio di quel cuore di tenebra che risiedono e si intrecciano l’antisemitismo e il razzismo occidentale come aveva insisto Hannah Arendt.
Ascoltare, assorbire e parlare accanto a quel silenzio implica non solo smantellare la brutale semantica che apparentemente ci governa, ma anche muoversi in un altro spazio critico e politico in cui la Shoah e le storie della modernità genocida impartiscono un percorso più complesso e ricco di redenzione. Il silenzio può evocare una politica di ascolto e di eventuale comprensione, oppure può semplicemente indicare un vuoto circondato da una retorica moribonda.
Alla luce delle recenti misure proposte dalla Corte internazionale di giustizia in merito alle accuse di genocidio mosse dal Sudafrica a Israele, l’Occidente è ora investito della responsabilità di garantire il rispetto delle sentenze della Corte. Ciò offre l’opportunità di rompere il silenzio della complicità occidentale nelle intenzioni coloniali dello stato ebraico.
Non solo per ripensare la specificità dell’evento preciso della Shoah in un insieme più ampio di storie che sottolineano il ruolo del genocidio nella costruzione della modernità, dagli spazi coloniali al cuore dell’Europa come sostenevano sia Hannah Arendt e Zygmunt Bauman che Aimé Césaire, ma anche per districare inquietanti collegamenti con il suo esito attuale nel Mediterraneo orientale.
Forse il pensiero pubblico europeo e il mondo intellettuale dovrebbero tornare a sostenere la libertà di una discussione più incisiva di questa complessa e scomoda eredità.
Il futuro di Israele (e dei suoi alleati occidentali) non può risiedere eternamente nell’occupazione militare e nella violenza coloniale. Un altro Israele post-coloniale, come ci ha insegnato anche il Sudafrica, potrebbe emergere staccandosi da questa traiettoria omicida. Proprio in nome del genocidio e in onore dell’Olocausto, gli amici e gli alleati di Israele devono ora cercare un altro linguaggio per meglio rielaborare quello che storicamente si è rivelato un progetto eticamente e politicamente condannato. Le scuole, gli ospedali e le università, per non parlare delle migliaia di vite, il 70% delle quali donne e bambini, che l’Occidente ha distrutto con il suo sostegno incondizionato a Israele, ci spingono a considerare altri scenari e iniziative diverse che portino alla necessaria riconfigurazione di un altro Israele.
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