LA LOBBY da 18BRUMAIO BLOG
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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LA LOBBY da 18BRUMAIO BLOG

La lobby

 Olympe de Gouges  16 ottobre 2023 

Il miliardario ebreo americano, James Wolfensohn, ex presidente della Banca Mondiale, appena in pensione dall’istituto, nel 2007, accettò il ruolo di inviato speciale del Quartetto (Stati Uniti, Unione Europea, Russia, Nazioni Unite). La sua missione era quella di ripristinare l’economia della Striscia di Gaza, enclave costiera di 360 chilometri quadrati, dissanguata dalla repressione israeliana della Seconda Intifada (2000-2005), e di oltre due milioni di abitanti concentrati nella rabbia e nella miseria. Il filantropo di New York aveva già raccolto 9 miliardi di dollari in donazioni. Dunque il denaro non mancava, tanto che Thomas Friedman, editorialista del New York Times, prevedeva il destino di Gaza come una “Dubai nel Mediterraneo”.

Posta sotto blocco dal 2007, bombardata a intervalli regolari, l’enclave palestinese si è trasformato in un vulcano, che, all’alba del 7 ottobre, è esploso. Hamas, il movimento islamico che governa il territorio dal 2006, attacca le comunità ebraiche vicine con i pick-up, in motocicletta e persino con gli ultraleggeri, seminando il terrore. Risultato di questo assalto: oltre mille morti, in grande maggioranza civili, e almeno 120 rapiti secondo le autorità israeliane. Proiettati in immagini di disumanità e di odio, non ci si può sottrarre dalla domanda perché tutto ciò è accaduto. Di fronte all’orrore, l’opinione pubblica occidentale si è divisa. I media, non certo neutrali, hanno preso posizione compatti per le “ragioni” d’Israele, ritenendo scontata e anzi giustificata la reazione israeliana, di una ferocia che non ha nulla da invidiare a ciò che accadde a Varsavia negli anni dell’occupazione nazista.

Va avanti così da 75 anni. Occupanti e occupati dicono di volere la pace, ma ognuno alle proprie condizioni. Gli israeliani vogliono la pace continuando ad occupare e dominare ciò che non gli appartiene. I palestinesi vogliono la pace solo dopo che gli occupanti se ne saranno andati. È evidente che i governi occidentali in tutto ciò hanno la maggiore responsabilità storica, politica e morale: colonialismo e imperialismo sono i due seni dai quali il sionismo e lo Stato d’Israele ricevono nutrimento.

Gli Stati Uniti hanno la responsabilità più pesante poichè, per motivi politici ed elettorali, sono sotto ricatto dei facoltosi e influenti ebrei americani, sul tipo dell’American Israel public affairs committee (AIPAC), che, con più di tre milioni di aderenti, organizzato in ogni Stato americano e a capo di diverse associazioni che coordina, è una forza importante nel plasmare la politica degli Stati Uniti in Medio Oriente.

Il New York Times, ancora negli anni Ottanta, stimava che “la lobby” (così viene chiamata comunemente l’AIPAC) potesse contare su un minimo di 40-45 senatori e 200 dei 435 deputati. I paesi arabi, che più di una volta si sono visti respingere le loro richieste dal Congresso nonostante l’appoggio della Casa Bianca, non hanno mancato di prendere atto del fatto. Re Hussein di Giordania, per esempio, dichiarò nel 1984: “Gli Stati Uniti possono muoversi solo entro i limiti concessi dall’AIPAC e da Israele.»

Mervyn Malcolm Dymally, politico statunitense, membro della Camera dei Rappresentanti per lo stato della California dal 1981 al 1993, uno dei pochi membri del Congresso che ha potuto criticare l’influenza dell’AIPAC (anche se alla fine ha sempre votato a favore delle misure richieste da Israele) osservava che un membro eletto del parlamento israeliano è più libero di criticare la politica israeliana rispetto a un membro del Congresso (citato dal NYT il 7 luglio 1987).

In un mondo politico in cui la rielezione è un’ossessione costante, nessuno è mai stato sconfitto a causa del proprio appoggio alla comunità filo-israeliana. Al contrario. Anche al di fuori degli Stati in cui l’elettorato ebraico è significativo (New York, New Jersey, Illinois, California, Florida), un candidato ha tutto da perdere non sostenendo Israele.

Secondo la rivista Forbes, il 20 % dei più ricchi americani sono di origine ebraica (*). Qualsiasi rappresentante eletto che condivida le loro convinzioni sulla questione israelo-palestinese ha modo di assicurarsi i fondi necessari per condurre una campagna e, allo stesso tempo, per negarne l’accesso a un possibile rivale.

In questo ambito la lobby filo-israeliana dimostra la sua astuzia politica. Mentre l’organizzazione è in gran parte finanziata da ebrei americani la cui sensibilità politica è prevalentemente per il Partito Democratico, l’AIPAC ha sostenuto anche un certo numero di senatori repubblicani conservatori poichè avevano difeso le posizioni di Gerusalemme. Diversi candidati democratici, ebrei, filo-israeliani e progressisti, sono stati così informati che, visti i voti del repubblicano uscente sulla questione del Medio Oriente, non avrebbero ricevuto alcun sostegno se avessero deciso di candidarsi contro di lui.

Premiare i tuoi amici e punire i tuoi avversari è un principio difficilmente discutibile, non solo in politica. Il problema è che, poichè gli avversari quasi non esistono, l’AIPAC conduce una campagna contro i rappresentanti eletti la cui unica colpa  sia quella di aver criticato in qualsiasi modo la politica del governo israeliano.

Un esempio concreto: Paul Findley, eletto repubblicano in un distretto rurale dell’Illinois, perse il suo seggio dopo ventidue anni di carriera alla Camera dei Rappresentanti per aver commesso l’errore di incontrare Yasser Arafat e di sostenere quella che il Wall Street Journal definì una “politica più equilibrata per il Medio Oriente”. La lobby filo-israeliana svolse un ruolo chiave in questa vicenda pagando più di 100.000 dollari al concorrente democratico totalmente sconosciuto.

L’economia israeliana dipende in larga misura dagli aiuti di Washington, che coprono il prezzo della quasi totalità delle importazioni del paese e gli permettono di continuare a vivere di burro, cannoni e gadget tecnologici.

Eccetera. La parola passi ora alle armi per la giusta “punizione”.

(*) Numericamente, gli ebrei statunitensi, pur rappresentando meno del 3 per cento della popolazione, ma con un tasso di astensione molto basso, inferiore al 10%, il loro potere elettorale è tutt’altro che trascurabile, e in grandi città come New York, Chicago e Los Angeles, dove alcune elezioni si vincono con un margine del 5-10%, il loro il supporto può essere decisivo. 

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