LA GRANDE GUERRA MEDIORIENTALE SULLA PELLE DEL POPOLO SIRIANO da IL MANIFESTO e IL FATTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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LA GRANDE GUERRA MEDIORIENTALE SULLA PELLE DEL POPOLO SIRIANO da IL MANIFESTO e IL FATTO

La grande guerra mediorientale sulla pelle del popolo siriano

Sulla via di Damasco Israele, che ha frantumato Hamas e Hezbollah, con l’atomizzazione del mondo arabo vede un traguardo all’orizzonte: il suo affermarsi come unica superpotenza regionale

Alberto Negri  08/12/2024

Per i Jihadisti anti-Assad, lanciati all’attacco dal loro padrino Erdogan, l’assedio di Damasco è sempre più vicino e si specula già sulla spartizione della Siria tra le milizie e le potenze coinvolte, Turchia, Israele (che occupa il Golan dal 1967), Iran, Russia (tre basi militari), Stati Uniti.
Come se la Siria – dove l’esercito si sta dissolvendo come quello iracheno davanti all’Isis – fosse solo un campo di battaglia e non anche un popolo.
La tragedia dei siriani non si ferma: 300mila profughi in una settimana di avanzata dei jihadisti e di raid aerei russi. La Siria è un Paese di profughi: su 24 milioni 7,2 sono rifugiati interni, 5,5 in altri Paesi (la maggior parte in Turchia, Libano, Giordania e Germania). Il 90% dei siriani vive sotto il livello di povertà, il 47% dei rifugiati è sotto i 18 anni e un terzo non va a scuola. Tutte le cifre sono dell’Unhcr che teme altre ondate di profughi sia nei Paesi vicini che verso l’Europa.

La Siria è una partita geopolitica fondamentale ma si compie sulla pelle di un popolo, come si è già verificato con i destini di altri della regione, dai palestinesi ai curdi agli iracheni. In realtà la Siria come nazione unita e indipendente deve scomparire nella disgregazione del Medio Oriente esplosa con la fine dell’Iraq di Saddam Hussein dovuta all’invasione americana nel 2003, proseguita con al Qaeda e l’Isis, la colonizzazione israeliana della Palestina e ora con la fulminea ascesa dei jihadisti di Hay’at Tahrir al Sham (Hts), teleguidati con droni e satelliti dalla Turchia di Erdogan.

Israele, che ha frantumato Hamas e più che dimezzato Hezbollah, vede un traguardo all’orizzonte: l’atomizzazione del Medio Oriente arabo e il suo affermarsi come unica superpotenza regionale. I colpi assestati a Hezbollah e pasdaran iraniani in Siria e Libano hanno sguarnito le deboli difese di Assad che ora vede un appoggio sempre meno convinto della Russia di Putin, pronto a trattare per le sue basi militari nel Mediterraneo sia con la Turchia che con Israele e gli Stati uniti, come del resto il Cremlino ha fatto sempre in questi anni con Erdogan e Netanyahu. E ovviamente la partita russa è assai condizionata alla guerra in Ucraina.

Al disegno egemonico israeliano manca solo l’Iran, l’ossessione di Netanyahu da vent’anni, che con Trump alla presidenza dal 20 gennaio dovrà affrontare la già sperimentata strategia della «massima pressione». La repubblica islamica, del resto, promette di sostenere Assad ma anch’essa come la Russia non è troppo convincente: in questi anni si è dissanguata spendendo 20 miliardi di dollari per tenere in piedi il regime alauita, la minoranza di Bashar Assad – il cui padre Hafez nel 1979 fu l’unico leader arabo a sostenere la rivoluzione islamica sciita di Khomeini – salita al potere nel 1971.

Teheran, che sta negoziando con Ankara e Mosca, è in grado di tenere le posizioni della Mezzaluna sciita, dall’Iraq alla Siria, dal Libano allo Yemen? L’operazione è complicata e gli iraniani hanno già evacuato dalla Siria in Libano i capi dei pasdaran. L’ammiraglio Tony Radakin, capo delle forze armate britanniche, in un discorso al Royal United Services Institute di Londra, ha rivelato questa settimana che Israele ha usato i suoi F-35 per effettuare gli attacchi del 26 ottobre contro siti militari in tutto l’Iran. «Israele – ha detto – ha usato più di cento aerei e nessuno di questi si è dovuto avvicinare a meno di cento miglia dal bersaglio nella prima ondata, distruggendo quasi l’intero sistema di difesa aerea iraniano e la capacità dell’Iran di produrre missili balistici per almeno un anno».

Gli inglesi se ne intendono perché sono stati i loro aerei da ricognizione dal 7 ottobre a individuare con gli Usa oltre il 70% dei bersagli da colpire a Gaza e in Libano. Questa è una “grande guerra” del Medio Oriente dove per la prima volta si usano in battaglia caccia come gli F-35 con sistemi di bombardamento e intelligence di ultimissima generazione, non disponibili da nessun altro. Un avvertimento non solo agli stati della regione ma anche a Russia e Cina. «Tutto questo non avviene certo per caso, come non è casuale il coinvolgimento di Israele negli eventi in Siria», afferma Alastair Crooke, ex diplomatico britannico e agente del servizio di intelligence all’estero MI6.

La Turchia, come Israele, vede anch’essa vicino il traguardo di abbattere il regime di Assad. Erdogan è stato in passato il principale sostenitore della rivolta armata contro il leader siriano, al punto di usare anche il capo di Hamas a Damasco Khaled Meshal, che arrivò a scatenare una guerra civile tra palestinesi a Yarmouk, nella capitale siriana. Passati 13 anni da quella ribellione, esplosa dopo le proteste antigovernative del 2011 e degenerate in un sanguinoso conflitto, l’escalation può materializzare tre degli obiettivi di Erdogan: ampliare la presenza militare al Nord, spezzando l’unità della Siria, spingere al ritiro le forze curde siriane, in particolare quelle legate al Pkk, alleate degli Usa contro l’Isis, rimpatriare dalla Turchia in Siria oltre tre milioni di profughi siriani.

Cosa aspetta i siriani in caso di caduta del regime? Al Jolani, ex qaidista capo di Hts, con una taglia Usa sulla testa, in un’intervista alla Cnn (con una giornalista velata) ha dichiarato che «il popolo non deve avere paura di un governo islamico» e che le truppe straniere dovranno ritirarsi, senza per altro mai nominare Israele. I siriani – mentre persino l’Isis ha rialzato la testa – sono divisi tra i filo-islamisti che vedono la possibile vittoria della rivoluzione e i laici e le minoranze che temono di finire in un emirato islamico come a Idlib. Il finale, come avrebbe detto il poeta siriano Adonis, è che di questo popolo travolto dal caos rischieremo di raccogliere le ceneri.

Dal Golfo all’Iran fino a Israele: effetto domino regionale

Riposizionamenti – Tel Aviv tra Teheran e gli islamisti. Un ponte per il Libano: perdere l’alleato è un duro colpo per gli Ayatollah anche per l’investimento profuso in questi anni

 Alessia Grossi  8 Dicembre 2024

L’avanzata fulminea dei ribelli in Siria segna la prima vera prova dell’impegno dei potenti stati arabi a riconciliarsi con Assad. La dichiarazione, lapidaria, è firmata da Mostafa Salem per la Cnn. Il motivo? Da quando il presidente – ora introvabile a Damasco – aiutato da Russia, Iran e Hezbollah libanesi è sopravvissuto e ha reclamato territorio, diventando, sotto le sanzioni Usa un “narco-stato”, le nazioni arabe hanno teso una mano al regime e, negli ultimi anni, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti lo hanno riabilitato fino alla riammissione, nel 2023 nella Lega araba. Il risultato è che entrambi gli stati arabi del Golfo erano al suo fianco mentre era alle prese con una nuova ribellione.

Da più parti, come il Consiglio di cooperazione del Golfo (GCC) lo scorso fine settimana, i leader hanno chiesto la preservazione dell’integrità territoriale della Siria al contrario del 2011 quando lo invitarono a “fermare immediatamente la macchina di morte, porre fine allo spargimento di sangue e rilasciare i detenuti”.

L’Iran ha utilizzato la Siria per espandere la sua influenza regionale attraverso gruppi proxy di stanza nel Paese. La Repubblica islamica, insieme ad Hezbollah, si è dimostrata determinante nel mantenere Assad al potere, aiutando le forze governative a riconquistare il territorio perduto, mentre inviava i propri comandanti del Corpo delle guardie rivoluzionarie islamiche (IRGC) per consigliare l’esercito di Assad. Ma con la guerra a Gaza, Hezbollah ha ritirato le sue forze dalla Siria per concentrarsi sulla sua guerra con Israele, lasciando Assad esposto. In Siria, Israele ha costantemente preso di mira il personale iraniano e le rotte di rifornimento utilizzate per trasferire armi ai suoi delegati. La caduta di Aleppo e potenzialmente di altre città al confine con il Libano interrompe ulteriormente tali rotte, mettendo l’Iran in una posizione difficile. E perdere la Siria rappresenta un duro colpo per l’Iran, anche per l’investimento significativo nonché in quanto ponte di terra per il Libano.

Anche Israele si trova in una posizione difficile. Assad, che vede Israele come un nemico, non ha rappresentato una minaccia diretta per il Paese, scegliendo di non rispondere ai regolari attacchi israeliani in Siria nell’ultimo anno. Ma il regime ha permesso che il suo territorio fosse utilizzato dall’Iran per rifornire Hezbollah in Libano. Hadi al-Bahra, leader dell’opposizione siriana che rappresenta i gruppi anti-Assad, tra cui l’Esercito nazionale siriano (SNA) sostenuto dalla Turchia, ha affermato che i ribelli si sono sentiti incoraggiati ad avanzare verso Aleppo la scorsa settimana dopo che Israele ha indebolito Hezbollah e la presenza dell’Iran nella regione. Tuttavia, il gruppo che guida la ribellione, Hayat Tahrir Al Sham (HTS), il cui leader Abu Muhammad Al Jolani, ex combattente di Al Qaeda, di ideologia islamista si oppone a Israele. “Israele si trova tra l’Iran, i suoi proxy e i ribelli islamici della Siria”, ha detto alla Cnn Avi Melamed, ex funzionario dell’intelligence israeliana. “Nessuna delle scelte è buona per quanto riguarda Israele, ma per il momento l’Iran e i suoi proxy sono indeboliti, il che è positivo”.

E poi c’è la Turchia, che ha cercato di prendere le distanze dalle azioni dei ribelli nel nord della Siria, ma è il principale sostenitore dell’Esercito nazionale siriano, uno dei gruppi che spinge l’offensiva. Nell’ultimo decennio, Ankara ha rappresentato l’opposizione anche nei negoziati con la Russia, che hanno portato nel 2020 a un accordo di cessate il fuoco tra le parti in Siria, ciascuna delle quali sostiene l’opposizione.

Tuttavia il presidente Recep Tayyip Erdogan ha chiesto “negoziati di pace” con Assad, l’uomo che aveva etichettato come terrorista. Ankara ha anche il problema dei circa 3,1 milioni di rifugiati siriani che ospita, più di qualsiasi altro Paese. Un altro obiettivo della Turchia è respingere i gruppi di insorti curdi lungo il confine e creare una zona cuscinetto. Erdogan si è opposto al nazionalismo curdo e ha chiarito che il suo obiettivo è quello di eliminare il Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), il gruppo politico e militante curdo di estrema sinistra con sede in Turchia e Iraq che combatte lo Stato da 30 anni.

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