LA CAMPANA DELL’ONU SUONA PER L’OCCIDENTE da IL MANIFESTO
La campana dell’Onu suona per l’Occidente
ISRAELE/PALESTINA. L’approvazione in Consiglio di sicurezza della risoluzione per il cessate il fuoco a Gaza è un segnale che va colto, anche se gli Usa cercheranno di sterilizzarne le conseguenze
Luca Baccelli 27/03/2024
Richiesta di un immediato cessate il fuoco durante il Ramadan che conduca a un durevole cessate il fuoco sostenibile, del rilascio degli ostaggi, dell’accesso per gli aiuti umanitari, del rispetto del diritto internazionale da parte di tutti gli attori. La risoluzione 2728 approvata dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite, con 14 voti a favore su 15, si esprime finalmente in modo chiaro sul che fare di fronte alla «catastrofica situazione umanitaria nella Striscia di Gaza».
Le scontate reazioni scomposte del governo israeliano, che del resto pochi giorni fa ha definito l’Onu un’organizzazione antisemita, preannunciano l’inosservanza della disposizione. Come è avvenuto del resto per decine di risoluzioni del Consiglio di sicurezza – a cominciare dalla 242 dei 1967 sul ritiro dai territori occupati nella guerra dei Sei giorni – e dell’Assemblea generale, oltre alle sentenze della Corte internazionale di giustizia fino a quella emanata il 26 gennaio sulla base della Convenzione contro il genocidio. Malgrado lo stato di Israele nasca proprio in virtù una risoluzione (la 181/1947) dell’Assemblea generale.
L’efficace azione militare preparata da anni, la dotazione di armi da parte del blocco filosovietico, l’ignavia della Gran Bretagna nonostante il mandato sulla Palestina, l’acquiescenza degli Stati uniti, la debolezza della resistenza araba hanno permesso al nuovo Stato di conquistare territori ben più ampi di quelli previsti dal piano di spartizione – già molto generoso con gli ebrei – e di cacciare 800mila nativi. La risoluzione 194/1948, che dopo l’omicidio dell’inviato delle Nazioni unite Folke Bernadotte chiedeva il ritorno dei profughi, è stata prontamente ignorata.
La notizia è che gli Stati uniti si sono astenuti, rinunciando finalmente a esercitare il diritto di veto attribuito ai cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza. Si prefigura la crisi della relazione speciale con lo Stato ebraico? Netanyahu potrebbe avere tirato troppo la corda, oltretutto nell’anno cruciale delle elezioni presidenziali. C’è da chiedersi se a questo seguirà l’uso della forma di pressione risolutiva: la sospensione dello straordinario sostegno militare americano a Israele. L’esperienza degli ultimi ottanta anni autorizza il pessimismo, dato che non si è mai vista un’effettiva azione americana per il rispetto del diritto internazionale, delle risoluzioni delle Nazioni unite, dello stesso accordo di Oslo vanificato dalla colonizzazione illegale della Cisgiordania e di Gerusalemme, mentre gli argomenti giuridici israeliani che hanno messo a frutto le ambivalenze dei documenti internazionali sono state in generale sostenute.
E tuttavia la risoluzione 2728 rimanda a un quadro generale. Un sintomo è che l’Assemblea dell’Onu non obbedisce più alle indicazioni che provengono dall’Occidente. Lo si è visto, fra l’altro, quando la risoluzione di condanna dell’aggressione russa all’Ucraina ha visto l’astensione di grandi potenze geoeconomiche e demografiche, dalla Cina all’India, al Pakistan, al Sudafrica, cui si sono aggiunte Brasile, Messico, Indonesia e Malesia, contrarie all’espulsione della Russia dal Consiglio dei diritti umani. Lo si è visto nelle posizioni sul massacro di Gaza e nei ripetuti appelli del segretario generale Antonio Guterres. Certo il Consiglio di sicurezza è l’espressione della struttura gerarchica delle Nazioni unite, che ricalcano il modello della Santa alleanza, come sosteneva Danilo Zolo ormai trenta anni fa, all’indomani della guerra del Golfo, prognosticando la loro non riformabilità.
Eppure c’è un «Sud globale» insofferente alla pratica dei doppi standard e sembra che le Nazioni unite risentano ormai della crisi di quel progetto di ordine mondiale che gli Stati uniti hanno cercato di imporre dopo la fine della Guerra fredda, basato sulla globalizzazione economica, sul loro dominio militare e finanziario, su un ruolo subordinato delle potenze emergenti come produttrici di merci a basso costo nella divisione internazionale del lavoro. Certo si assiste a un’ostinata difesa di retroguardia, dentro la quale rientra probabilmente il ruolo di Israele come gendarme dell’Occidente in Medio oriente. Ma si possono cogliere alcuni segnali di un rinnovato ruolo delle istituzioni internazionali, e del diritto internazionale, come campo di confronto pluralistico, spazio giuridico e politico per la composizione dei conflitti.
Persino nel Consiglio di sicurezza. Potrebbero accorgersene anche i leader europei, se non fossero impegnati a ripetere «se vuoi la pace prepara la guerra».
Natalia Ginzburg, la pace vera non può essere che disarmata
NOVECENTO. Intorno al libro «Una cosa finalmente lieta. Scritti civili e discorsi politici». Il volume, per le edizioni di Storia e Letteratura, vede la precisa curatela della scrittrice Michela Monferrini. Fu una parlamentare assidua, mai assente dall’aula, laconica e puntuale nei suoi rarissimi interventi, paradossalmente sostenuta da infiniti scrupoli. A Enrico Berlinguer dedicò un toccante e, nella sua asciuttezza, vibrante necrologio costellato di quattro aggettivi: le qualità che ne facevano un uomo timido, mite, schivo e solo
Massimo Raffaeli 27/03/2024
Non è una virtù da poter esibire, la coerenza, ma ancor meno è associabile a quelle cui si riferiva, ovviamente per antifrasi, il titolo di uno dei suoi libri più belli, intessuto di racconti messi insieme a bilancio della intera giovinezza, Le piccole virtù (’62): proprio la coerenza, l’adesione tra i comportamenti e le parole espresse, nel paese che nel lungo periodo ha fatto dell’opportunismo e del trasformismo il crisma identitario delle sue classi dirigenti, è invece la caratteristica elettiva di Natalia Ginzburg (1916-1991), iscritta nel senso comune dei lettori a partire da Lessico famigliare (’63), il libro che richiamandone l’ambiente nativo svelò l’orizzonte d’attesa di una donna tanto legata al proprio alveo di ebrei antifascisti quanto proclive al cosmopolitismo e a un umanesimo universalista.
SE È MAI ESISTITO chi somigliasse alle proprie pagine con quella che i francesi dicono présence, costei è Natalia Ginzburg nella sua austera compostezza, nella dignità di chi prende la parola solo ponderatamente e si direbbe in stato di costrizione, di assoluta necessità. Tanto che il lettore, senza mai essere intrigato o lusingato, se ne sente viceversa ed in ogni momento rispettato. E, in proposito, venne a Cesare Garboli l’immagine della pietas, il gesto di chi scrivendo «raccoglie qualcosa da tutto quello che vede e da tutto quello che gli capita. Ma non è una legge, qualche volta non raccoglie nulla o quasi nulla». E appunto Natalia si serve solo di quanto sente necessario alla declinazione, volta a volta diversa, di un sentimento per lei primordiale e cioè l’uguaglianza, in beni e in diritti, dovuta agli esseri umani.
Non si tratta di un sentimento religioso o di una ideologia ma piuttosto di una evidenza antropologica da tutelare o, se il caso, da ripristinare, e qui si veda Serena Cruz o la vera giustizia (’90) che fu il suo sottaciuto testamento. Ora lo conferma un piccolo prezioso libro, Una cosa finalmente lieta. Scritti civili e discorsi politici (Edizioni di Storia e Letteratura, «Civitas», pp. 139, euro 12.00) nella precisa curatela della scrittrice Michela Monferrini.
Lo compongono cinque discorsi e altrettanti articoli comparsi su l’Unità unitamente ad alcune interviste sui temi civili e un’appendice documentaria che include il breve necrologio pronunciato da Nilde Iotti, allora Presidente della Camera dei deputati dove Natalia Ginzburg espletò il proprio mandato di parlamentare eletta nelle file della Sinistra Indipendente per due legislature fra il 1983 e l’8 ottobre del ’91, giorno della sua morte.
Da parlamentare, per non usare come un potenziale alibi il suo nome di scrittrice, scelse, così unendo il cognome da ragazza a quello del secondo marito, di firmarsi Natalia Levi Baldini. E fu una parlamentare assidua, mai assente dall’aula, laconica e puntuale nei suoi rarissimi interventi, paradossalmente sostenuta da infiniti scrupoli e dal dubbio di non avere talento per la diretta militanza, pure se aveva sempre manifestato la sua opinione e parlato chiarissimo anche nel passato recente, firmando nel 1971 un pubblico documento contro il commissario Luigi Calabresi, circa la morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli, e ancora nel 1982 con Primo Levi aveva condannato l’invasione del Libano voluta dal governo di Israele con l’ipocrita denominazione di «Pace in Galilea».
NON È DUNQUE UN CASO che il disarmo, e anzi il disarmo unilaterale, sia un tema ricorrente nei suoi interventi a partire dal 15 novembre 1983, quando afferma con la schiettezza che le è propria: «L’idea che la pace debba essere armata e difesa con le armi è una idea totalmente falsa: la pace vera non può che essere disarmata, la pace vera ha in odio le armi e un simile odio essa lo pone al di sopra di tutto. Quello per cui l’Italia dovrebbe battersi è il disarmo unilaterale». (Pochi mesi dopo sarà un altro scrittore, Paolo Volponi – e qui si vedano i suoi Discorsi parlamentari, Manni 2013 – a gridare dal suo scranno di senatore che sarebbero bastati i soldi di un carro armato per salvare le mura antiche di Urbino).
Per parte sua, Natalia lega il tema della pace direttamente alla memoria del 25 aprile e rammenta, per l’anniversario del 1986, la bellissima canzone scritta dal suo amico Italo Calvino con il musicista Sergio Liberovici, Oltre il ponte (dove una strofa attacca con Tutto il male avevamo di fronte/tutto il bene avevamo nel cuore), per concludere rivolgendosi ai più giovani: «Oggi, ai ragazzi che sfilano dicendo no alla guerra e a noi stessi, dovremmo chiarire che no alla guerra significa dire no ad ogni forma di prepotenza e violenza, no al sangue, no alla lotta armata».
E IL DINIEGO TOTALE nei confronti della guerra spiega la sua costante attenzione agli elementi basilari della civiltà, quali il prezzo del pane, il costo della casa e spiega, di riflesso, anche il senso di prossimità alla vicenda umana e politica di Enrico Berlinguer cui dedica, sulle colonne del quotidiano comunista, un toccante e nella sua asciuttezza vibrante necrologio costellato di quattro aggettivi (qualcuno rilevò che la cadenza degli aggettivi in Ginzburg è quaternaria nei frangenti apicali) ovvero le qualità che ne facevano un uomo timido, mite, schivo e solo.
Ancora una volta la mano di Natalia mentre vibra è ferma, la sua voce è netta, il suo stile tutto risolto nella brevitas che non è soltanto brevità ma pregnante esattezza, insomma è il risultato provvido e imprevisto di chi prendendo la parola teme comunque l’inadeguatezza, l’errore. (Il suo massimo studioso ed editore, Domenico Scarpa, introducendo Non possiamo saperlo. Saggi 1973-1990 – Einaudi 2001 – scrive che in lei la consapevolezza di non poter sapere è solo pari alla ostinazione nel domandare o «alla cocciutaggine con la quale specifica la misura dei propri limiti nell’atto stesso di metterli alla prova, forzarli, superarli»). Perciò la scrittrice sembra restringere il campo di osservazione e la gamma degli interessi nel momento stesso in cui calcola, però, la fallacia di ogni stereotipo e partito preso, la vanità di qualunque obbedienza non sia prima passata al vaglio della ragione.
QUANTO A QUESTO, basterebbe l’esempio del discorso per lei più difficile, pronunciato alla Camera 15 marzo del 1989 nel corso di un dibattito sulla violenza sessuale e sul Codice Rocco per il quale lo stupro non rientrava fra i reati contro la persona ma, semplicemente, contro la morale. Si chiede Natalia all’inizio: «Come applicare e come formulare una legge su una zona della nostra esistenza che richiederebbe e riserbo e silenzio?»; ed immediatamente si risponde: «Come può rimanere impunito un delitto contro la persona? Come può sottrarsi alle forze dell’ordine chi ha commesso uno stupro semplicemente perché la vittima ha deciso di non denunciarlo?».
La postura è di chi sta proponendo un ragionamento, non un partito preso, ed è pari all’attitudine di una scrittura, la sua, che nell’atto di prodursi si esonera di qualunque sapere che non le venga dal metabolismo dello scrivere medesimo. Michela Monferrini, nella prefazione, riferisce che all’ingresso del Parlamento si presentò il primo giorno con la borsa piena di libri e di giornali, la camicia a quadretti e la gonna blu plissettata, come le studentesse di una volta: perché di tutto l’esistente, Natalia Ginzburg, non aveva mai smesso di sentirsi una allieva.
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