La benedetta partecipazione
di Enzo SCANDURRA, da “eddyburg”, 26 marzo 2017
Dietro questo concetto – partecipazione – si nascondono molte insidie e molte ambiguità. Come già nello sviluppo sostenibile, questa parola-grimaldello evoca qualcosa di assolutamente positivo, non confutabile, una vera e propria ontologia: “ma come non vorresti uno sviluppo sostenibile?”
Lo stesso si può dire della partecipazione: “ma come non vuoi che gli abitanti partecipino alle decisioni riguardanti la loro vita quotidiana?”
Partecipare è un po’ come fumare la sigaretta elettronica: un dispositivo complicato con il quale cerchiamo di risolvere un problema più semplice: quello di non fumare. Un tempo questo verbo – partecipare – si esprimeva facendo politica, occupandosi di politica. Si girava nei quartieri come attivisti dei partiti della sinistra, si attaccavano manifesti, si facevano riunioni nelle sezioni dei partiti, si scendeva in strada per protestare o per propagandare qualche idea condivisa. Le periferie romane, ad esempio, erano le roccaforti del pensiero rosso. Non solo si partecipava a tutti gli eventi che vi accadevano, ma anche ad eventi che travalicavano la scala del quartiere. Poi i Partiti, soprattutto quelli di sinistra, hanno abbandonato le periferie: sono…partiti. Hanno trovato più efficace lavorare dentro il Palazzo, rompendo il loro cordone ombelicale con il “popolo”.
«Come esistono quelli specializzati nel piastrellare un pavimento, così esistono i partecipatori. Questi vengono adoperati da amministrazioni, autorità locali ma anche grosse imprese di progettazione per mediare il rapporto tra progetto ed utenti. Diventano facilitatori del consenso, o comunque negoziatori tra le richieste della popolazione e le decisioni dei pianificatori» [1].
La loro vocazione (un tantino tenuta nascosta) è quella di eliminare il conflitto tra i rappresentanti e i rappresentati, tra l’amministrazione e gli abitanti, in ordine a un qualche progetto o a una qualche opera controversa. Dunque, semplificando, prima i rappresentati (cittadini) votano i loro rappresentanti politici (amministratori), poi, una volta eletti questi ultimi, si organizzano gruppi di pressione per far valere quelli che ritengono i propri diritti. Tutto questo laborioso progetto maschera la crisi della politica, il vuoto politico tra eletti ed elettori. Ma siamo sicuri che il conflitto (parola di questi tempi oscurata) vada eliminato o comunque ridotto?
«Si tratta, in sostanza, di riflettere sulle trasformazioni della rappresentanza in un’epoca in cui il popolo non si sente più rappresentato dalle istituzioni e i cittadini non concorrono più a determinare la politica nazionale [o locale, NdA] associandosi in partiti, ma, eventualmente, in altro modo. Potremmo deprecare o meno entrambi i fatti, tuttavia questo è il dato di realtà dal quale partire. E allora delle due l’una: o si ritiene si possa fare a meno del parlamento e dei partiti, rinunciando in tal modo all’idea stessa di democrazia così come definita dalla modernità giuridica (in fondo le pulsioni populiste che sono oggi egemoni operano in tal senso) oppure diventa necessario ricollegare le istituzioni e gli strumenti della democrazia rappresentativa alle diverse espressioni in cui si manifesta la volontà popolare. Se si vuole rafforzare la democrazia costituzionale è necessario ripensare oltre alle forme della rappresentanza anche le forme della partecipazione»[2].
Ma c’è un secondo aspetto della questione che è dirimente: chi partecipa alla partecipazione? Non tutti gli abitanti della città, ovviamente, ma un limitatissimo gruppo di loro esponenti, quelli che se lo possono permettere, mentre la gran parte della popolazione, una volta esaurita la fase elettorale, è occupata a procurarsi quanto necessario per vivere o, più spesso, per sopravvivere. Il gruppo dei partecipanti diventerà ben presto un gruppo di pressione che, a sua volta, pretenderà di aver ricevuto una delega dagli abitanti esclusi e di rappresentarli di fronte agli amministratori.
«Una specie di professione cuscinetto tra interessi diversi. Il problema è che in questa funzione filtro specializzata tutto si ricompone in maniera tale che poco cambia nella passività degli abitanti e nella vecchiezza dell’impostazione progettuale».[3]
Ma nel lungo periodo il rischio è che tale pratica tecnica aumenti ancora di più il distacco tra popolazione e suoi rappresentanti, anzi che ne sancisca definitivamente il distacco, che è crisi della politica, crisi della rappresentanza, crisi della democrazia. E anziché affrontare questa crisi, si preferisce aggirarla, sterilizzarla. E come sempre è la tecnica ad assolvere questa funzione. Perché, spiegano i cosiddetti facilitatori, la partecipazione ha delle regole ferree che bisogna conoscere e rispettare, pena la sua perdita di efficacia. Quella del “facilitatore” è diventata dunque una professione a parte che si avvale di un linguaggio e di tecniche che solo uno specialista può conoscere. Così che all’opacità dei progetti di una amministrazione si aggiunge quella, ancora più opaca, della partecipazione, con buona pace del conflitto e della cittadinanza attiva. Se applicassimo questo concetto alla malattia, sarebbe come dire che trovando oscure le parole del medico cui ci si affida e altrettanto incomprensibili le cure da lui prescritte, si decidesse di far nascere una figura professionale (il facilitatore) che fa da cuscinetto tra il paziente e il medico.
Qui la crisi dell’urbanistica, in quanto sapere specializzato, si fa più evidente. Sappiamo bene che un abitante che volesse leggere il piano regolatore del proprio paese per conoscere la destinazione d’uso di una qualche area e le norme tecniche che ad esso si riferiscono, troverebbe assai difficile comprendere quelle mappe e ancor più difficile destreggiarsi tra quelle norme. Sorge allora la domanda: quand’è che l’urbanistica si è così specializzata tanto da diventare incomprensibile agli abitanti al servizio degli interessi dei quali essa è nata, a tal punto specializzata che occorre una figura professionale ad hoc per decifrarne il senso e le insidie? Questa sua specializzazione, come la lingua latina usata da don Abbondio per abbindolare Renzo e Lucia, sembra costruita ad arte per essere di volta in volta, interpretata in funzione delle esigenze dei privati, delle agenzie immobiliari. Il piano regolatore, ad esempio, detta delle regole precise in tema di edificazione e uso dei suoli. Ma poi poteri forti sono sempre capaci di derogare quelle norme, o attraverso nuove norme o attraverso varianti al piano. Alla fin fine lo strumento di piano finisce sempre col favorire l’interesse privato rispetto a quello pubblico.
In che modo la cittadinanza può difendere l’interesse pubblico in una condizione di svuotamento della democrazia rappresentativa? Non sempre una democrazia pluralista e conflittuale può supplire questa carenza. La complessità sociale con la quale si manifesta oggi la cittadinanza difficilmente si presta ad essere interpretata e men che mai ad essere rappresentata. Così che anche «il rappresentato dovrà convincersi – in tempi di crisi della rappresentanza e di liquefazione del rappresentante – che la lotta per le istituzioni democratiche gli appartiene»[4].
Note al testo
[1] F. La Cecla, Contro l’urbanistica (2014), Einaudi, Torino, 2015, p. 79.
[2] Così Gaetano Azzariti riassume il senso dell’attuale crisi della rappresentanza; da: I tre cardini del rinnovamento istituzionale, “il manifesto”, 15 marzo, 2017.
[3] Ivi.
[4] Ivi
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