INCHIESTA DELL’ONU: ” A GAZA È STERMINIO” da IL MANIFESTO
L’Occidente lascia fare in attesa del «nuovo ordine»
Opinioni La presenza dell’Onu nel sud del Libano è un ostacolo e sarà rimosso. Si prepara un’altra umiliazione del diritto internazionale. Questa volta dipinta di blu
Alberto Negri 12/10/2024
Lungo la Blue Line, la linea di demarcazione che separa il Libano da Israele, oltre 120 chilometri, stabilita dalle Nazioni Unite nel 2000, sono piantati e ben riconoscibili i caratteristici «blue pillars», i pioli di acciaio opportunamente verniciati di blu. Israele, colpendo ogni giorno i caschi blu, come è avvenuto anche ieri, è chiaramente intenzionata a sradicarli. Nella sua guerra di annientamento di Hezbollah e del Libano, Netanyahu non vuole, come a Gaza, testimoni internazionali.
E neppure l’ombra del diritto internazionale o di una mediazione diplomatica, come hanno compreso perfettamente le famiglie degli ostaggi. La sua logica è ferrea e cinica: se sacrifico anche la mia gente, figuriamoci se mi faccio problemi a sparare sui caschi blu.
Il governo israeliano, imponendo con la forza al contingente militare di quaranta nazioni, tra cui la nostra, di levare le tende, non solo non intende avere testimoni ma ci dice anche di voltare la testa dall’altra parte per non vedere quanto accade in Medio oriente. E tutto questo in attesa di valutare la rappresaglia israeliana sull’Iran. In realtà l’Italia e l’Europa – per non parlare degli Stati uniti – hanno già girato lo sguardo accettando che in questo anno ci fossero decine di migliaia di civili uccisi, che venissero costantemente violate tutte le leggi umanitarie e fossero commessi crimini di guerra inenarrabili. Tutto questo senza muovere un dito.
LA CONDANNA della comunità internazionale si limita a qualche voto all’Onu e alle indagini della corte penale internazionale: in pratica per il governo Netanyahu non c’è mai nessuna conseguenza degna di nota. Anzi. Israele continua a ricevere dagli Usa decine di miliardi di aiuti militari (oltre venti nell’ultima tranche di fine agosto) e la collaborazione militare e di intelligence degli europei con lo stato ebraico prosegue senza colpo ferire. Business as usual.
L’Italia è un formidabile esempio della doppiezza europea e occidentale. Il ministro della Difesa Crosetto ha tuonato contro Israele per l’attacco all’Unifil ma è anche lo stesso ministro che l’8 novembre è andato a Gerusalemme per dire che «Israele è uno Stato di diritto e in guerra si muove rispettando delle regole, questa è la differenza con i terroristi di Hamas». Non solo, aggiunse in quell’occasione che «Israele ogni volta che bombarda a Gaza avverte la popolazione di mettersi in salvo». Come no, anzi suona direttamente al citofono dei gazawi, ai quali per altro è rimasto in piedi meno del 30% degli edifici e il 70% è accampato ad aspettare un altro inverno di bombe.
Ma perché diciamo queste cose che sono palesemente delle bugie? Il motivo è semplice: siamo legati a Israele mani e piedi. L’8 marzo del 2023, durante la visita di Netanyahu a Roma, questo governo ha firmato un accordo per appaltare una parte consistente della nostra cybersecurity agli israeliani in cambio di commesse militari. Allora il capo dell’agenzia italiana si dimise due giorni prima di questa intesa perché evidentemente non era d’accordo.
In poche parole Israele, che detiene una quota formidabile del mercato mondiale della cybersecurity, ci osserva e ci scruta come e quando vuole, in questo agevolata anche dall’alleanza inossidabile con gli Stati uniti. I nostri sovranisti – sempre pronti a difendere la patria – farebbero bene a dare un’occhiata a questi accordi.
LA REALTÀ è che non facendo nulla per frenare Netanyahu siamo d’accordo con la guerra di Israele. In attesa, come scriveva ieri Tommaso Di Francesco, che il governo di Tel Aviv imponga a cannonate il “nuovo ordine” mediorientale, visto che i tentativi occidentali di imporne uno sono naufragati miseramente, dall’Afghanistan all’Iraq, dalla Libia alla Siria. Per di più Israele punta al bersaglio grosso dell’Iran per tentarne la destabilizzazione usando non solo le bombe ma forse la sua carta migliore, quella dell’infiltrazione del Mossad nei ranghi della repubblica islamica, come sembra voler dimostrare la controversa vicenda di Esmail Qaani, capo delle brigate Al Qods dei Pasdaran messo agli arresti, un segnale comunque della lotta interna di potere in atto Teheran.
Gli occidentali non sono certo gli unici ad attendere che Israele imponga il suo “ordine”. Non c’è nessuno stato arabo che nei fatti sostenga la causa palestinese o degli Hezbollah libanesi. Le monarchie sunnite e assolutistiche del Golfo, l’Arabia saudita, il Marocco e l’Egitto si sono tutti avvicinati a Israele e se anche alcuni di loro non hanno ancora firmato il Patto di Abramo si comportano come se l’avessero già fatto. Lo stesso Erdogan che lancia roboanti proclami contro lo stato ebraico e a favore di Hamas non ha mai fermato le vendite di armi turche a Israele.
Cosa accadrà adesso nel Sud del Libano? Di fatto Israele punta a cancellare la Blu Line per allontanare l’artiglieria di Hezbollah e riportare migliaia di israeliani nei villaggi dell’Alta Galilea. La presenza di caschi blu ostacola la creazione di una nuova “fascia di sicurezza”, così come Israele punta a Gaza al logoramento dei palestinesi per spingerli in spazi sempre più ristretti e invivibili.
Tutto questo avverrà, nonostante i proclami, con l’eliminazione dei caschi blu e delle agenzie dell’Onu. Per noi qui sarà soltanto un’altra umiliazione del diritto internazionale. Questa volta dipinta di blu.
Inchiesta dell’Onu: «A Gaza è sterminio»
Medio Oriente Il rapporto dell’Alto commissariato per i diritti umani: da Israele attacchi indiscriminati contro la sanità, «a rischio un popolo intero». Fonti dell’esercito alla stampa: l’assedio a nord durerà mesi e servirà a svuotarlo dei palestinesi
Chiara Cruciati 12/10/2024
Presa di mira dal governo Netanyahu su più fronti, dal tentativo di screditarne la legittimità politica agli attacchi militari mirati, l’Onu prova a proseguire il proprio lavoro di documentazione: la pace non riesce a ottenerla e allora si concentra sul dare un nome alle cose.
LO HA FATTO di nuovo giovedì con il rapporto frutto di una speciale commissione nominata dall’Alto commissariato per i diritti umani, che sarà presentato a fine ottobre a Ginevra. L’inchiesta delle Nazioni unite accusa Israele di aver «perpetrato una politica coordinata per distruggere il sistema sanitario di Gaza come parte di un’aggressione più ampia, commettendo crimini di guerra e il crimine contro l’umanità dello sterminio attraverso attacchi incessanti e deliberati contro il personale e le strutture mediche».
Il rapporto parla dell’uccisione, la detenzione e la tortura di sanitari (mille gli uccisi in un anno) e di attacchi militari contro ambulanze e ospedali, un mix di operazioni che colpiscono in particolare i bambini: Israele «ha negato loro l’accesso alle cure mediche di base e deliberatamente inflitto condizioni di vita che hanno portato alla distruzione di generazioni di bambini palestinesi e, potenzialmente, del popolo palestinese come gruppo».
Accuse durissime che ricalcano la decisione della Corte internazionale di Giustizia che, lo scorso gennaio, aveva accolto il caso mosso dal Sudafrica e avviato un’indagine per genocidio plausibile.
A Gaza l’assalto contro la sanità passa per pratiche diverse, non solo raid diretti. Tra queste, la mancata autorizzazioni alle missioni dell’Organizzazione mondiale della Sanità che tenta invano di raggiungere il nord di Gaza. Nell’ultima settimana è successo sette volte: il nord è inaccessibile a chi porta aiuti medici e organizza l’evacuazione dei pazienti da ospedali abbandonati a se stessi.
Come il Kamal Adwan su cui martedì è piovuto un nuovo ordine di evacuazione israeliano in concomitanza con la rinnovata offensiva di terra. La situazione, dicono i medici ancora presenti, è «catastrofica», tra la totale chiusura imposta dalle truppe e le bombe che cadono a pochi passi dall’ospedale. Sono 50 i pazienti intrappolati, quelli che non possono essere trasferiti, tra loro nove in terapia intensiva con il carburante per i generatori ormai agli sgoccioli. Identica la condizione di altri due ospedali del nord, l’al-Awda e l’Indonesian Hospital.
LE TESTIMONIANZE che giungono dal nord ridanno indietro la stessa immagine: la ferocia dell’offensiva è paragonabile a quella dei primi mesi di guerra. La ragione la si ritrova nelle tv e i giornali israeliani che, citando diverse fonti dell’esercito, indicavano nella pulizia etnica della popolazione palestinese del nord l’obiettivo del governo di Tel Aviv.
Serviranno alcuni mesi di assedio, hanno aggiunto le fonti militari: sono 400mila i palestinesi presenti, molti tornati dopo essere fuggiti a sud, nell’idea che nessuna zona sia davvero sicura. Secondo il giornale Yedioth Ahronoth, al momento l’esercito sta implementando «una versione in miniatura» del piano sul campo profughi di Jabaliya.
Qui l’offensiva di terra è stata lanciata sabato scorso e si traduce nell’isolamento totale della comunità – non entra niente, né cibo né acqua – e in bombardamenti aerei misti a colpi di artiglieria, una strage dopo l’altra: 15 uccisi nella notte, altri 20 ieri pomeriggio. «Non si tratta solo dell’intensa campagna di bombardamenti – scrive il giornalista Hani Mahmoud da Deir al Balah – e della distruzione sistematica di infrastrutture e strutture pubbliche, ma anche del fatto che l’esercito israeliano sta tagliando le forniture di cibo e acqua ai residenti».
IL PIANO di svuotamento definitivo del nord, scrive su Haaretz Amos Harel, ha «un significato importante per i piani futuri di Israele nella Striscia di Gaza e in particolare per le mosse che l’estrema destra sta architettando per garantirsi una lunga occupazione e il rinnovo del progetto di colonizzazione». Che all’orizzonte dell’ultradestra ci sia il ritorno dei coloni a Gaza non è una novità, lo dice da mesi e da mesi organizza apposite conferenze.
L’orizzonte si allarga ancora oltre se a guardarlo è il ministro delle finanze Bezalel Smotrich: in un’intervista all’emittente europea Arte, ha promesso un’espansione «passo dopo passo» «fino a Damasco».
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