Il virus ha tagliato la società svelando di cosa è fatta 3 articoli da IL MANIFESTO di Ignazio Masulli, Luciana Castellina e Paolo Favilli.
Il virus ha tagliato la società svelando di cosa è fatta
Se si taglia il tronco di un albero si possono vedere i cerchi concentrici formati durante la sua vita. Il boscaiolo vi legge i tempi della sua crescita, vi scorge le tracce delle sue malattie, vede i segni delle intemperie che l’anno scosso.
Anche nella storia della società umana vi sono eventi che ne tagliano la struttura e mostrano il modo in cui si è formata e lo stato in cui si trova.
La pandemia che ci sta colpendo è uno di quegli eventi taglienti e mette a nudo lo spaccato del sistema-mondo in cui viviamo. Quel che vediamo è un sistema malato, ormai privo di linfa vitale.
E’ cresciuto avvolgendosi sempre più intorno alla spirale di una logica meramente utilitaria e contingente cui l’hanno costretto i gruppi economici e politici dominanti. Una logica irresponsabile perché incurante dei guasti provocati da sfruttamento e mercificazione sempre più sfrenati delle risorse naturali e del lavoro umano.
La conseguenza è che abbiamo una percezione oltremodo incerta del nostro futuro. Viviamo nell’incubo che il riscaldamento del pianeta raggiunga il limite fatale di 2 gradi centigradi entro trent’anni. Lo squilibrio demografico tra Nord e Sud del mondo, con un aumento previsto della popolazione mondiale di 2,4 miliardi entro il 2050, che sarebbe concentrato per il 97% nei paesi più poveri prospetta un’altra situazione insostenibile. Così come insostenibile sta diventando il dilatarsi della diseguaglianza sociale tra paesi ricchi e poveri, e all’interno sia dei primi che dei secondi.
Sulla pericolosa china di un piano tanto inclinato non meravigliano le grandi difficoltà e le stridenti contraddizioni in cui dibattiamo nel tentativo di arginare l’infezione di un virus sconosciuto e di facile trasmissibilità.
Ed è comprensibile che il trauma che stiamo vivendo ci spinga a considerazioni, critiche e proposte tutte volte ad intervenire sulla contingenza. Ma, così facendo, corriamo il rischio di muoverci a valle dello stato delle cose. In altre parole rischiamo di pensare e agire conformandoci al modo di funzionare del sistema sociale in cui ci troviamo. Quasi dimentichi che proprio l’esperienza che stiamo attraversando mostra tutti i limiti di questo sistema e l’urgenza di modificarlo radicalmente.
Questo evento sta mettendo in tutta evidenza la fragilità della struttura economica, la debolezza dell’organizzazione sociale, per non dire dell’incapacità del ceto politico, quali si appalesano anche nei paesi che consideriamo più sviluppati.
Tutto ciò che questo “evento tagliente” impietosamente mette in evidenza ci deve far riflettere su un limite di fondo della nostra costruzione sociale. Essa è stata edificata sulla falsa contrapposizione tra uomo e natura e tra uomo e uomo come se non fossimo parte della natura e non fossimo accomunati nell’evoluzione, sia naturale che sociale, della nostra specie.
Il prezzo pagato da questa duplice alienazione che ci contrappone alla natura e a noi stessi è ben visibile nella nostra insipienza e impotenza. Accade così che le mura che siamo andati costruendo intorno a noi e dentro di noi sono quelle stesse in cui siamo rimasti prigionieri.
Riappropriaci del nostro futuro richiede perciò un completo cambiamento dei valori, morfologie sociali e modelli di comportamento su cui si basano le mappe cognitive dominanti.
E’, questa, condizione imprescindibile per un mutamento di prospettiva che ci metta in grado di dirigere le nostre azioni non per combattere un male ma per costruire un bene, così da passare dalla lotta contro la morte alla salvaguardia della vita, dalla reazione alla malattia alla difesa della salute, da comportamenti dovuti a costrizioni esterne a comportamenti di autodisciplina, dalla logica della separazione alla tendenza all’interezza
Migliaia di firme non solo sul governo ma sulla libertà
Invidio Antonio Floridia che ha avuto modo di leggere – come ha scritto nel suo ultimo articolo sul manifesto – le motivazioni che hanno spinto un numero straordinariamente elevato di persone – in due giorni più di 15.000 – a firmare l’appello a sostegno delle misure restrittive decise dal governo Conte contro il Coronavirus. E a denunciare la campagna di chi cerca di cavalcare una facile protesta in nome della libertà.
Sarebbe piaciuto molto anche a me leggere le parole di tanti che sento vicini come da tempo mi capita di rado. Stavo per definirli “compagni”, ma mi sono trattenuta perché ho temuto che qualcuno pensasse che io ritengo i firmatari tutti membri della mia stessa parte politica e invece – e dico per fortuna – credo che l’adesione venga da un’area assai più estesa e variegata.
Ma per me la parola “compagni”, ormai da moltissimo tempo, ha assunto un significato diverso da quello restrittivo che io stessa le ho dato a lungo per indicare, ora, un insieme di valori e di pratiche di vita che mi fanno sentire chi li condivide, umanamente ancor prima che politicamente, vicini. Di averne trovati tanti grazie all’Appello mi ha reso felice; e, infatti, la motivazione con cui ho accompagnato la mia firma è stata brevissima ma molto sentita: ”Sono felice di firmare questo appello”.
In realtà con questa parola, oltre che esprimere il mio consenso, volevo anche sottolineare che, invece, di appelli, negli ultimi tempi non ho più voluto saperne. Non perché non concordassi, almeno nella sostanza, col loro contenuto, infatti proposto quasi sempre da amici e compagni di cui ho la massima stima e con cui da anni lavoro gomito a gomito. Ho rifiutato di firmarli perché ho paura di diventare una “appellista”. A chi ci appelliamo, innanzitutto: al governo?
Non mi piace appellarmi a un governo, quale che sia: se non sono d’accordo cerco piuttosto di organizzare una protesta, un movimento, di aprire un conflitto, qualche forma di azione collettiva, che è cosa diversa che l’espressione di un’opinione da parte di un insieme di individui che non diventano collettivo organizzato , al limite persino simili a quelli affascinati– purtroppo sempre più numerosi – dalla dilagante pratica referendaria che consiste nel premere un tasto su cui c’è l’immagine di un pugnetto a pollice in su o in giù. Pretendendo che questa sia democrazia.
L’appello in questione è diverso, esprime un giudizio che chiede di condividere e non si rivolge ad una autorità, si limita a suggerire una riflessione. Non solo sull’operato del governo, ma – ed è questo, a me pare, il suo aspetto più importante – su cosa sia la libertà. Nelle ultime settimane ho riscontrato con qualche sconcerto nella stessa mia area politica di sinistra una insofferenza verso le misure restrittive dei nostri comportamenti, condivisibile se è solo l’espressione del fastidio che ognuno di noi prova nel rispettarle, e invece inaccettabile se si considerano lesione di un nostro diritto.
Qualcuno ha invocato la Costituzione. E non si tratta di chi coglie l’occasione per inscenare una campagna contro il governo, ma di chi si sente davvero vittima di una violazione di diritti. Come se ci fosse il diritto di esporre al rischio di contagio chi è più fragile, perché vecchio o in cattiva salute o ben protetto da trasporti privati. Siccome io sono molto vecchia, dunque categoria molto a rischio, sono felice che le occasioni di contagio siano ridotte al minimo e trovo indecente l’insofferenza di chi vorrebbe esercitare la sua libertà a mio danno.
Questo appello ci ripropone un antico e sacrosanto principio: la mia libertà trova un limite in quella dell’altro. L’individualismo esasperato, che è uno dei danni principali prodotti dal neoliberismo, ha finito per insidiare il nostro senso di appartenenza a una collettività, a mettere in discussione i doveri che questa impone. Nessuno è restato immune da questo guasto, stiamoci attenti.
La libertà è una bella cosa, il libertarismo è una faciloneria. E per carità non si dica che non bisogna trattare il popolo come un bambino, che non si deve invocare disciplina ma senso di responsabilità, capacità di autoregolazione. Sì, certo, sarebbe meglio: ma queste virtù non crescono spontanee, c’è bisogno di una lunga e non solo teorica acquisizione di conoscenze indispensabile per capire la complessità dei problemi, di confronto fra punti di vista diversi, tutte cose che, pur fra tanti difetti, alla mia vecchissima generazione avevano insegnato i partiti democratici di massa. Lo so che molti degli stessi lettori del manifesto diranno:uffa! questa rompicoglioni di veterocomunista di Castellina!
Sì, sono vetero e non sopporto i “nuovisti”. E continuo a preferire i partiti alla piattaforma Rousseau.
Parlare di guerra è improprio ma utile per la Fase2
Non siamo in guerra, ma è intenso il dibattito sul dopoguerra. Le metafore sulle pandemie come guerre sono state usate ricorrentemente. In molti, anche su questo giornale, ce ne hanno illustrato sia le ragioni che i pericoli. L’Europa che nel corso del XX secolo ha vissuto le «pandemie» belliche del 1914-18, e del 1939-45, deve avere ben chiaro il senso delle proporzioni.
Eppure pensare in termini di dopoguerra ha una sua giustificazione: significa porsi il problema del mutamento delle forme dei vari capitalismi, e, più in profondità, del meccanismo fondamentale di funzionamento del capitalismo dopo una crisi grave e sistemica. Una crisi cui i pesantissimi effetti di un evento esogeno si sono aggiunti a quelli provocati dai modi tramite i quali si è risposto, o meglio non risposto, alle ragioni profonde della crisi iniziata nel 2008 e mai davvero superata.
«Tutto cambierà nel mondo della finanza», nell’epicentro di diffusione della crisi, si disse allora, cioè ieri. Ed invece tutto è stato fatto proprio perché non cambiasse nulla, ed oggi i fenomeni indicati allora come patologie, si sono addirittura rafforzati. Aumentata la pratica di riacquisto delle azioni; senza interruzione o minimo ripensamento, anzi incrementata, quella della distribuzione dei dividendi; ampliata l’area della finanza occulta. «I toni crudi della vita» si sono imposti sul «sogno di una vita più bella», per dirla con Johan Huizinga.
Dall’esperienza della pandemia che stiamo vivendo «un bisogno enorme di uguaglianza è emerso chiaramente», afferma la filosofa Roberta De Monticelli. Ora è difficile una valutazione quantitativa dell’«enorme», ma soprattutto è difficile ipotizzare il peso di uno stato d’animo, sia pure generalizzato, sui processi di trasformazione degli equilibri complessivi (economico-sociali e politici) determinanti il momento attuale. «Tutto dipende dall’ambiente storico in cui si trova collocato, quel groviglio di possibili che caratterizza il nostro presente. È lì, secondo una delle più feconde lezioni marxiane, che va condotta l’analisi per tentare di individuare quali lineamenti di quel groviglio abbiano reale possibilità di svolgimento nel prossimo futuro. È lì che le buone ipotesi desideranti vanno messe alla prova dei contesti di realtà.
Esemplare, a proposito la vicenda del primo dopoguerra del Novecento. Per quel che riguardava l’Italia il sentimento generalizzato del «nulla sarà come prima» veniva pensato nei termini di una «ricostruzione» del paese o per via riformatrice o per via rivoluzionaria.
Rifare l’Italia è, appunto, il titolo del discorso, di grande spessore culturale politico, pronunciato alla Camera nel giugno 1920 da Filippo Turati. Al progetto di «riformismo rivoluzionario», come Turati lo aveva sempre definito, venivano chiamate a collaborare «forze borghesi elementi borghesi», nell’interesse comune alla ricostruzione di un’Italia radicalmente diversa da quella precedente la guerra. Ma l’«ambiente storico» era quello che emerge bene da una testimonianza riportata da Emilio Lussu nel suo Marcia su Roma e dintorni. «Siamo riusciti a stroncarli – dice il figlio di un agrario, giovane squadrista che era stato sottotenente agli ordini del capitano Lussu durante la guerra.
«È finita la cuccagna. Pensi che ogni contadino guadagnava persino quaranta lire al giorno. – E adesso? – Quattordici lire. E sono anche troppe». Il percorso per Ricostruire l’Italia, dunque, non poteva che incrociare l’altro percorso, quello che, nelle forme dei diversi contesti storici, garantisce le condizioni migliori per la valorizzazione del capitale.
Ecco, questo è il centro permanente del groviglio di possibili connesso ai modi di svolgimento, e di scioglimento, di una crisi sistemica quale quella che stiamo vivendo. Possiamo davvero pensare che l’uscita da una crisi del genere, prodotta in origine proprio dalle difficoltà di garantire l’accumulazione anche tramite l’ipertrofia del capitale finanziario, esplosa poi per l’irruzione di un evento inatteso, possa non riproporre la stessa logica delle grandi crisi precedenti? Possiamo davvero pensare che uno degli effetti principali della crisi sia la fine del neoliberismo? Come se il neoliberismo fosse principalmente un’ideologia e non un campo di forze istituzionali, di organizzazione culturale, di continua e pervicace iniziativa politica.
Senza la costruzione di un altro campo di forze opposto che abbia la medesima articolazione, i buoni desideri, i buoni sentimenti sono destinati a rimanere tali.
Sul piano culturale, seppure in maniera non particolarmente organica, il lavoro procede da tempo.
Non c’è però una risposta politica della sinistra che ne tenga conto. «Se una sinistra almeno esistesse», ha constatato, con forte senso della realtà, il condirettore di questo giornale.
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