Il terremoto e la politica
di Piero BEVILACQUA –
Il 5 febbraio del 1783 una violentissima scossa di terremoto sconvolse la Calabria meridionale. L’epicentro fu individuato nel territorio di Seminara, nella Piana di Gioia Tauro, ma l’onda d’urto investì con diversa intensità l’intera regione e la Sicilia, seguita da altre potenti scosse nei giorni e mesi successivi, lasciando dietro di sé uno sciame sismico che durò anni. Fu uno dei più catastrofici terremoti della nostra storia, reso particolarmente distruttivo nei paesi della Piana dagli effetti del moto ondulatorio e sussultorio, che sollevarono il suolo alluvionale poggiante sulla roccia madre e lo scaraventarono altrove. Non pochi vigneti e uliveti furono lanciati su proprietà altrui, creando problemi ardui di ricognizione ai tecnici della ricostruzione. Scrisse di quell’evento lo storico Pietro Colletta: »Nulla restò della antiche forme: le terre, le città, le strade, i segni svanirono; così che i cittadini andavano stupefatti come in regione peregrina e deserta». Ma quel terremoto merita di essere oggi ricordato non per la sua violenza – che per fortuna non è paragonabile con quella che tormenta oggi i paesi dell’Appennino centrale – quanto per l’ardimento e l’originalità con cui reagì il potere politico del tempo. Nel 1784 il re di Napoli, Ferdinando IV, prese una iniziativa rivoluzionaria, trovando il tacito consenso del papa di allora, Pio VI. Con una serie di “regal dispacci” abolì gran parte dei conventi e monasteri esistenti in regione, i beni immobili di proprietà degli enti ecclesiastici vennero confiscati, la ricchezza della Chiesa venne incamerata in una speciale “Cassa sacra” e utilizzata, grazie alla messa in vendita dei beni, per finanziare la lunga e costosa opera di ricostruzione. «La calamità della Calabria – scrisse l’abate Galiani – è stata tale e tanto distruttiva, che offre il campo a poter spaziosamente formare un nuovo sistema di cose… Bisogna adunque profittar del momento per formare un piano generale del suo ristoramento».
Ecco la grande lezione che ne viene a noi oggi.
Realizzare una shock economy di segno rovesciato rispetto a quelle realizzate negli ultimi decenni – come ci ha raccontato Naomi Klein – dai governi neoliberisti. Approfittare dell’evento disastroso del terremoto multiplo dell’Italia centrale, non certo per incamerare i beni della Chiesa, ma per realizzare due grandi operazioni distinte, in grado, per dirla col Galiani di «formare un nuovo sistema di cose».
I costi elevati delle ricostruzioni possono essere finanziati non con l’obolo caritatevole richiesto a tutti i cittadini, ma riorganizzando il sistema fiscale italiano. Vale a dire creando una gerarchia di esazione più severamente progressiva, colpendo i grandi patrimoni, organizzando un sistema apposito di leggi e di macchina inquisitiva per combattere l’evasione fiscale, rendendola severamente rischiosa e punitiva per chiunque la pratichi. Da ciò verrebbe, com’è ovvio, un vantaggio generale per il paese e risorse per rimettere in piedi il nostro welfare. Ma la seconda operazione non è soltanto un piano di ricostruzione.
Il recente terremoto rischia di rendere irreversibile il più grave problema demografico-territoriale del nostro Paese, ignorato sovranamente dalle nostre classi dirigenti. Non si tratta di “mettere in sicurezza il territorio”, come si usa dire, quasi che tutto si esaurisse in un’opera di ingegneria civile. Si dimentica la drammatica situazione della Penisola: ormai quasi il 70% della sua popolazione si addensa lungo le aree costiere e la Valle padana, mentre il centro si svuota. Se dovessero verificarsi terremoti violenti o altri eventi catastrofici in queste aree, a parte il numero dei morti, l’intera economia nazionale e le infrastrutture civili subirebbero danni che metterebbero in ginocchio per anni la nostra comunità.
Dunque, nelle terre da ricostruire non bisogna solo portare dei cantieri momentanei, ma popolazione ed economie. Le aree interne, quelle oggi abbandonate e quelle colpite dal sisma, devono rinascere non con una gigantesca opera pubblica, ma con un progetto che affidi alle popolazioni l’opera di creare o ricreare il tessuto produttivo, nuove relazioni sociali, servizi, oltre a nuovi modelli abitativi da affiancare alle ristrutturazioni. Non è un nuovo gravame che si aggiunge al nostro debito, ma un investimento per il nostro futuro: si tratta infatti di far rifiorire la nostra agricoltura montano-collinare, riprendere l’economia dei nostri boschi, estendere gli allevamenti, dare nuove opportunità all’artigianato, ai saperi alimentari, al turismo, ecc. Per tutti i millenni della nostra storia sono state prevalentemente queste le aree della nostra economia produttiva.
E oggi non si tratta di tornare indietro, ma di incoraggiare il nuovo già in atto, perché l’agricoltura biologica, non produce solo cibo, ma protegge il suolo, fa vivere il paesaggio, alimenta il turismo, tutela gli habitat, incrementa la salubrità. Come sappiamo da tempo oggi l’agricoltura non è più un’economia marginale, bensì il centro irradiatore di servizi avanzati.
Ma per una tale prospettiva occorre che lo Stato torni a progettare in proprio, senza attendere che il mercato trovi le proprie convenienze. Bisogna bandire le fallimentari ricette neoliberiste. E, come vado ripetendo da tempo, i migranti che arrivano sulle nostre terre costituiscono un’opportunità grandiosa e insperata per affrontare un problema da cui letteralmente dipende il futuro dell’Italia.
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