IL SENSO DEI REPORTER PER LA VITA da IL MANIFESTO
Il senso dei reporter per la vita
OBIETTIVI DI GUERRA. La mano che stringe il microfono è ferita, è fasciata, il filo del microfono parte dalle bende, nell’altra mano si organizza il lavoro con un cellulare. Intanto quel tecnico aiuta il cameraman a «fare il bianco», cioè alza un foglio A4 in modo da perfezionare il colore della ripresa
Valeria Parrella 09/01/2024
Wael Dahdouh è direttore e corrispondente di Al Jazeera da Gaza. L’esercito israeliano gli aveva ucciso i figli di sette e quindici anni, sua moglie e altri otto parenti. Ieri l’ultimo figlio, il più grande, giornalista anche lui. Giravano in rete suoi video di quando aveva scoperto della strage della sua famiglia mentre copriva il servizio, mentre seppelliva il figlio: succede durante una guerra, se sei una persona esposta mediaticamente, che qualcuno riprenda le cose tue private, che tutti vedano il lutto che abitualmente è una stanza segreta, preclusa ai più.
Ma ieri è accaduta una cosa diversa, diversa dalle macerie, dai piccoli sudari a cui ci siamo abituati in questi tre mesi, dico abituati, ché non avremmo mai pensato di conoscere così bene l’aspetto di sepolture diverse dalle nostre.
E mentre ci eravamo abituati, dico abituati che non significa accettare, significa solo sapere cosa stiamo guardando, in qualche modo quindi controllare quanto e quale dolore prendere su di noi di questo genocidio, è successa una cosa diversa: che questo omone grosso e piegato dal lutto si è asciugato le lacrime, si è fatto fasciare la mano ferita, ed è tornato alla base – un miserrimo rifugio dove stanno gli altri colleghi, tutti gli inviati – per lavorare. Si vede questo ultimo video in cui arriva, un medico gli porge le sue condoglianze abbracciandolo, con uno dei sorrisi più comprensivi e dolci che io abbia mai veduto sul volto di un uomo, poi un tecnico gli dà il microfono.
La mano che stringe il microfono è ferita, è fasciata, il filo del microfono parte dalle bende, nell’altra mano si organizza il lavoro con un cellulare. Intanto quel tecnico aiuta il cameraman a «fare il bianco», cioè alza un foglio A4 in modo da perfezionare il colore della ripresa. È un gesto dovuto, automatico, è Al Jazeera, la più grande emittente del mondo arabo, non si sbaglia. Ma in quel momento succede qualcosa: nel momento in cui il tecnico alza il foglio in uno scenario mostruoso, fatto di fumi e macerie e perdita del senso comune dell’essere umano, irrompe nuovamente l’umanità. È la quotidianità con i suoi segni, è il senso profondissimo del dovere, è la vita intesa come missione, ed è quello che tutti noi conosciamo quando ci siamo obbligati a lavorare mentre ci crollava l’esistenza attorno.
Quando quel tecnico alza il foglio bianco, alza la vita, la rende di nuovo degna, tollerabile nell’intollerabile; di fronte a quel bianco dovuto al mondo che guarda, perché sappia, senta, non rinasceranno i centodue giornalisti uccisi dall’inizio della rappresaglia israeliana su Gaza, ma ne rinasce il lavoro, il senso, l’indirizzo. Il tecnico alza quel foglio, il cameraman dà l’ok, Wael Dahdouh inizia la sua diretta, e vivendo ci insegna qualcosa. È in quel momento che il participio passato «abituati» frana, smette di avere senso, si torna a sentire profondamente perché stavamo piangendo, invocando giustizia, cessate il fuoco, perché riusciamo a sperare. Riusciamo a sperare davanti a una delle più grandi ingiustizie della storia perché quel foglio è come una bandiera, quel foglio già non è più bianco, è già pieno di parole che gridano: succede con la vita, mica con la morte.
Reporter palestinesi sotto tiro, per Israele sono tutti «terroristi»
GAZA. La Striscia di stringe intorno a Wael Dahdouh di Al Jazeera. Sterminata la famiglia. E il figlio è il 109° giornalista ucciso dal 7 ottobre
Michele Giorgio, GERUSALEMME 09/01/2024
Hanno fatto il giro delle case palestinesi e del mondo intero le immagini di Wael Dahdouh, capo della sede di Al Jazeera a Gaza, che rende omaggio al figlio giornalista Hamza ucciso due giorni fa insieme al collega Mustafa Thuraya in un attacco aereo israeliano a Rafah. Forte il dolore di Dahdouh che ad ottobre aveva già perduto la moglie, un figlio, una figlia e un nipote in un raid aereo. Profondo è il dolore per tutti i giornalisti di Gaza che conoscevano bene Hamza e Mustafa, gli ultimi nomi tra 109 operatori palestinesi dell’informazione uccisi dal 7 ottobre. I due free lance talvolta lavoravano anche per media stranieri. Per il Jerusalem Post invece Hamza e Mustafa erano solo dei «presunti» reporter, a conferma dell’idea generale che si ha nei media israeliani dei colleghi palestinesi: attivisti politici se non addirittura «terroristi» che si presentano come giornalisti senza esserlo in realtà. Non sorprende che la morte di tanti reporter palestinesi non abbia suscitato reazioni apprezzabili tra i giornalisti israeliani, con qualche rara eccezione. Sempre il Jerusalem Post si è affrettato a sottolineare che i due «presunti» giornalisti uccisi, per l’Esercito erano «terroristi impegnati in attività che minacciavano la sicurezza» delle forze militari israeliane. Perché avevano alzato in volo un drone (per fare delle riprese dall’alto). «Le forze armate israeliane non hanno mai e non prenderanno mai di mira deliberatamente i giornalisti», ha ripetuto il portavoce militare. Eppure, ogni giorno, si allunga l’elenco di giornalisti uccisi.
Antony Blinken, che quasi al termine del tour mediorientale sostiene di aver trovato i leader di Emirati e Arabia saudita e di altri paesi arabi determinati a impedire che il conflitto tra Israele e Hamas a Gaza si estenda, è giunto ieri sera in Israele, accolto dalla giornata più insanguinata dall’inizio dell’anno. Che potrebbe rendere vano l’impegno che il segretario di Stato starebbe portando avanti per impedire un allargamento del conflitto nella regione. Ore prima del suo arrivo, Israele ha assassinato in territorio libanese, a 10 km dal confine, Wissam Al Tawil, uno dei principali comandanti militari di Hezbollah. Un colpo duro che spinge verso il baratro di una guerra vera e propria tra Israele e il movimento sciita libanese. L’assassinio di Al Tawil è stato accolto con soddisfazione dai comandi militari israeliani e dal gabinetto di guerra guidato dal premier Netanyahu. Si sarebbe trattato di una risposta all’attacco di Hezbollah contro le postazioni radar e di intelligence di Israele al Monte Meron, che sua volta era stata una reazione all’assassinio di Saleh Aruri, il numero due di Hamas, compiuto da Israele la scorsa settimana a Beirut.
Israele comunica di aver ammazzato a Gaza un comandante militare, di Hamas, nel quadro della cosiddetta terza fase dell’offensiva di terra. Questi omicidi e gli attacchi violenti e improvvisi «contro Hamas» a Khan Yunis in particolare, sarebbero un aspetto di questa nuova fase che vede l’esercito israeliano anche impegnato a creare un corridoio da est a ovest fino alla costa, poco sotto Gaza city, volto a spaccare in due la Striscia. In questo modo l’Esercito, oltre a consolidare il controllo completo del nord di Gaza annunciato nei giorni scorsi, può tenere confinati in appena 200 kmq di territorio meridionale circa due milioni di palestinesi, lanciando operazioni mirate in determinate aree per mesi e mesi, fino a raggiungere, afferma Tel Aviv, la «distruzione di Hamas». Che nel frattempo non appare affatto morto e lancia razzi, ieri anche verso Tel Aviv, e realizza agguati contro le truppe occupanti. I comandi militari sostengono di sapere dove si nasconda il capo di Hamas a Gaza, Yahya Sinwar, ma, spiegano i media, non lo colpirebbero perché si troverebbe in tunnel sotterranei assieme a decine dei circa 130 ostaggi israeliani. Alcuni dei sequestrati sono prigionieri di altre organizzazioni armate. Ieri il Jihad islami ha diffuso un video in cui appare un ostaggio nelle sue mani.
Gli attacchi israeliani nella notte di domenica e ieri hanno causato il più alto numero di vittime palestinesi giornaliere dall’inizio del 2024. Le forze israeliane hanno bombardato la parte orientale di Khan Younis e il centro della Striscia. A Deir al Balah, 18 membri della stessa famiglia sono stati uccisi nel sonno da una bomba ad alto potenziale. 247 persone sono state uccise in 24 ore secondo i dati del ministero della sanità che ha aggiornato a 23.084 il numero totale dei palestinesi morti sotto i bombardamenti. Da giorni è sotto pressione per l’elevato numero di feriti l’ospedale Al Aqsa, dichiarato zona rossa da Israele, e dal quale sono andate via le ong internazionali, come la britannica Medical Aid for Palestine, perché non ci sono più le condizioni di sicurezza per il suo personale medico. Quasi tutti i 2,3 milioni di abitanti di Gaza sono fuggiti dalle proprie case almeno una volta e molti si stanno spostando di nuovo, spesso rifugiandosi in tende improvvisate o rannicchiati sotto teloni cerati. Centinaia di famiglie di Rafah stanno scappando dalle loro abitazioni sotto la spinta, denunciano fonti locali, dei carri armati israeliani che avanzano.
A Gerusalemme ieri mattina, dozzine di israeliani, hanno bloccato la strada di ingresso della Knesset al grido «Dimettiti» rivolto a Netanyahu. Il premier è accusato di usare la guerra e i suoi tempi in apparenza ancora lunghi per prolungare il suo potere e provare a recuperare i consensi perduti il 7 ottobre con l’attacco a sorpresa di Hamas.
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