IL G7 RICORDA HIROSHIMA E NE PREPARA TANTE ALTRE da IL FATTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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IL G7 RICORDA HIROSHIMA E NE PREPARA TANTE ALTRE da IL FATTO

Il G7 ricorda Hiroshima e ne prepara tante altre

 

FABIO MINI  24 MAGGIO 2023

Il G7 appena concluso in Giappone ha confermato il sostegno dei sette Paesi più industrializzati (o presunti tali) alla guerra in Ucraina contro la Russia. La presenza e il ruolo del presidente Zelensky lo hanno trasformato in un G7 e 1/2 come anticipazione del ritorno al G8, questa volta con l’Ucraina al posto dell’estromessa Russia. Il consesso ha anche confermato l’impegno comune nella guerra contro la Cina. Non è però riuscito a convincere nessuno del resto del mondo (i tre quarti) a mostrare un qualche interesse per l’ambizioso progetto. È comprensibile, si tratta di guerre mondiali di cui verifichiamo ogni giorno il potenziale distruttivo e sempre meno la soluzione o i vantaggi. Sono guerre già in atto anche se con un leggero scarto nella successione delle fasi: la prima è un conflitto aperto su tutti i piani, da quello psicologico a quello economico e a quello militare; la seconda è attiva a tutti i livelli tranne quello dello scontro armato per il quale è in atto la preparazione. La guerra contro la Russia coinvolge direttamente il continente europeo facendo perno sull’Ucraina, quella contro la Cina coinvolge direttamente il continente asiatico facendo perno su Taiwan. Entrambe riguardano indirettamente, ma in maniera pesante, tutto il resto del mondo e mettono a dura prova la tenuta della deterrenza nucleare che finora ha “garantito” che i combattimenti si svolgessero sul piano “convenzionale” e soprattutto non coinvolgessero il sub-continente nordamericano. È senz’altro una grande consolazione che però vale poco per l’Ucraina devastata da una guerra che si combatte con mezzi convenzionali in meno di un quarto del proprio territorio e che tuttavia non avrebbe potuto iniziare e non può continuare senza il cosiddetto sostegno, in realtà la partecipazione, degli Stati Uniti e dell’Unione europea. Non sarà di certo una consolazione per Taiwan, il Giappone, la Corea del sud e per la Cina meridionale quando il conflitto giungerà alla fase militare “convenzionale”. Proprio dalla guerra in corso viene infatti il monito che anche la deterrenza nucleare, intesa come dissuasione dell’avversario con una “minaccia” potenziale, ha i suoi limiti e le sue trappole. In particolare la Russia si rende conto che lo spiegamento della potenza militare occidentale in e per l’Ucraina non è frenato dal semplice “rischio” nucleare. Gli ucraini lo hanno capito e si preoccupano di farlo passare per un bluff in modo da non perdere il supporto occidentale. In realtà l’Ucraina invita i sostenitori esterni a “vedere” il bluff ponendo la Russia nella condizione di dimostrare a cosa servano le ottomila testate nucleari di cui dispone. Una sfida esplicita a passare dalla deterrenza passiva a quella attiva: alla “deterrenza per punizione” o con l’escalation convenzionale sull’intero territorio ucraino e/o l’impiego di armi nucleari tattiche. Di qui la trappola sia per la Russia che per gli Stati Uniti costretti o all’abbandono dell’Ucraina o allo scontro nucleare globale. In questi frangenti, più volte testati durante la Guerra fredda, è prevalsa la razionalità anche nel calcolo del rischio e non a caso i grandi detentori nucleari anche recentemente si sono impegnati a non impiegare le armi nucleari semplicemente perché “la guerra nucleare non può essere vinta da nessuno”. Ma siamo in tempi in cui la razionalità ha ceduto il posto all’emotività e alla irrazionalità. Tempi in cui i grandi giocatori affidano le sorti del mondo a chi sa barare meglio. In Giappone il presidente Zelensky ha fatto il pieno di promesse e rassicurazioni. Ma non è ancora convinto e si vede che c’è qualcosa che lo disturba. Dopo il giro in Europa e questo salto in Giappone è passato anche nei Paesi arabi. Il suo iper-attivismo al livello politico in cerca di appoggi non coincide con l’apparente convinzione che il sostegno promesso sia sufficiente per farlo “vincere”. Di fatto “lui” vuole vincere e non vuole che altri ne abbiano il merito. Tutto ciò che l’Occidente sta facendo lo fa per se stesso e lui ringrazia ma non deve nulla a nessuno. Così come gli Stati Uniti vogliono che sia lui a vincere (o perdere) per non avere l’onere dello scontro diretto con la Russia. Dopo aver amplificato il mantra del presidente Biden che la guerra sta difendendo la democrazia (la sua) contro l’autocrazia e la libertà (la sua) contro la tirannia, Zelensky si è trovato in un luogo, Hiroshima, che giustamente invoca la pace e in un consesso che spudoratamente e barando vistosamente alimenta la guerra affermando di volere la pace. E si è subito adeguato varando il nuovo sillogismo della “Vittoria certa che porta la Pace”. In realtà la vittoria militare raramente porta la pace. Può portare la sospensione dei combattimenti, una situazione minima e transitoria che contiene i semi della guerra successiva. Perché porti la pace, quella del vincitore, deve essere una vittoria totale, una debellatio, una eliminazione della potenza avversaria, un ritorno del vinto alla pastorizia o all’elemosina. I “Sette e mezzo” hanno chiarito che proprio questo è il loro piano. Russia, Cina e il resto del mondo devono soltanto prenderne atto e arrendersi. È un piano con poche probabilità di realizzazione pratica e che riesca o non riesca ha sempre una costante: per uno che vince, milioni sono fottuti.

La lobby di guerra e gli Usa in ostaggio

DEBITO BOOM – È passato da 3,5 mila miliardi di dollari (anno 2000) a 24mila miliardi (2022) proprio per le spese militari. Il Congresso è preda di questi interessi. Che moltiplicano il cartoon del “cattivi” – Putin, Xi & C. – da abbattere

JEFFREY D. SACHS  24 MAGGIO 2023

Nel 2000 il debito pubblico degli Stati Uniti era di 3.500 miliardi di dollari, pari al 35% del Pil. Nel 2022 aveva raggiunto 24mila miliardi di dollari, ossia il 95% del Pil. Questo aumento vertiginoso del debito pubblico statunitense è alla base dell’attuale crisi politica in corso a Washington sul rifinanziamento del bilancio federale.

Sia i Repubblicani che i Democratici, però, sembrano non vedere quale sia la vera soluzione al problema: fermare le guerre americane e ridurre le spese militari. Supponiamo che il debito pubblico Usa fosse ancora quel modesto 35% del Pil che era nel 2000, oggi sarebbe pari a 9 mila miliardi di dollari, contro i 24mila miliardi attuali. Ora, per quali ragioni il governo degli Stati Uniti ha contratto in questi anni un debito di 15mila miliardi di dollari? La risposta principale è che Washington dipende dalla guerra e dalle spese militari. Secondo il Watson Institute della Brown University, il costo delle guerre statunitensi dall’anno fiscale 2001 all’anno fiscale 2022 ammonta a ben 8mila miliardi di dollari, ossia più della metà dei 15mila miliardi di debito accumulato. Gli altri 7mila miliardi derivano in egual misura dai disavanzi di bilancio causati dalla crisi finanziaria del 2008 e dalla pandemia di Covid-19. Per superare la crisi del debito, l’America deve smettere di alimentare il suo complesso militare-industriale, che però è anche la lobby più potente di Washington. Come disse il presidente Dwight D. Eisenhower il 17 gennaio 1961: “Nei gabinetti di governo dobbiamo guardarci dall’acquisizione di un’influenza ingiustificata, voluta o non voluta, da parte del complesso militare-industriale. Esiste e persisterà il rischio della disastrosa ascesa di un potere mal riposto”. In effetti, dal 2000 a oggi, il complesso militare-industriale ha portato gli Stati Uniti a infilarsi in guerre disastrose come l’Afghanistan, l’Iraq, la Siria, la Libia e da ultimo l’Ucraina. Il complesso militare-industriale ha adottato da tempo una strategia politica vincente, assicurando che il budget militare arrivi a interessare ogni collegio elettorale. L’ufficio studi del Congresso Usa ha recentemente certificato che “la spesa per la Difesa incide sui distretti di tutti i membri del Congresso, attraverso le attività, tra le altre, di pagamento di salari o pensioni per militari ed ex militari, gli effetti economici e ambientali delle basi militari o la fabbricazione di sistemi o parti d’arma”. Solo un deputato molto coraggioso potrebbe votare oggi contro la lobby dell’industria militare, e il coraggio non è certo una caratteristica del Congresso.

La spesa militare attuale degli Stati Uniti vale circa 900 miliardi di dollari all’anno, ossia circa il 40% del totale mondiale e superiore a quella dei 10 Paesi immediatamente successivi nella classifica messi insieme. Nel 2022 la spesa militare degli Stati Uniti era il triplo di quella della Cina. Secondo l’ufficio di bilancio del Congresso, per il periodo 2024-2033 la spesa militare americana sarà di ben 10.300 miliardi di dollari, sulla base delle stime attuali. Un quarto o più di questa cifra potrebbe essere evitata ponendo fine alle guerre per scelta, chiudendo molte delle circa 800 basi militari americane nel mondo e negoziando nuovi accordi di controllo degli armamenti con Cina e Russia.

Tuttavia, invece di cercare la pace con la diplomazia e la responsabilità fiscale, il complesso militare-industriale Usa continua sistematicamente a spaventare il popolo americano con una rappresentazione da fumetto dei “cattivi” da fermare a ogni costo. Nella lista dei cattivi successiva all’anno 2000 troviamo nell’ordine i Talebani, Saddam Hussein, Bashar al-Assad, Muhammar Gheddafi, Vladimir Putin e (aggiunto più di recente) Xi Jinping. Quello che il complesso continua incessantemente a ripetere è che la guerra è necessaria per la sopravvivenza dell’America.

Una politica estera orientata alla pace negli Stati Uniti di oggi sarebbe di certo osteggiata strenuamente dalla lobby militare-industriale americana, ma non dall’opinione pubblica. Secondo i sondaggi, infatti, una significativa maggioranza degli americani vorrebbe già un minore coinvolgimento degli Stati Uniti negli affari di altri Paesi e un minore dispiegamento di truppe americane all’estero. Minore, non maggiore. Nello specifico del conflitto tra Russia e Ucraina, la maggioranza degli americani chiede un coinvolgimento minore degli Usa: il 52%, molti di più del 26% che chiede invece di incrementare l’impegno. Questo è il motivo per cui né Biden né altri presidenti recenti hanno osato chiedere al Congresso un aumento delle tasse per finanziare le guerre americane. Perché la risposta dell’opinione pubblica sarebbe un sonoro “no”.

Le conseguenze di queste “guerre per scelta” sono state terribili per l’America, ma certamente peggio per i Paesi che Washington pretendeva di salvare. Come ha detto Henry Kissinger: “Essere un nemico degli Stati Uniti è pericoloso, ma essere un amico è fatale”. L’Afghanistan è stato la causa dell’America dal 2001 al 2021, finché gli Usa non l’hanno lasciato distrutto, in bancarotta e affamato. Nell’abbraccio dell’America adesso c’è l’Ucraina, e probabilmente finirà allo stesso modo: guerra continua, morte e distruzione. Si potrebbe prudentemente ma allo stesso tempo profondamente tagliare il bilancio militare americano se gli Stati Uniti sostituissero le loro guerre per scelta e la corsa agli armamenti che esse implicano con una vera diplomazia e accordi di non proliferazione. Se i presidenti e i membri del Congresso avessero ascoltato gli avvertimenti di alti diplomatici americani come William Burns, ambasciatore americano in Russia nel 2008 e ora direttore della Cia, Washington avrebbe protetto la sicurezza dell’Ucraina con l’azione diplomatica, garantendo alla Russia che non avrebbe esteso il Patto Atlantico a Kiev se anche Mosca avesse frenato ogni sua mira sul Paese. Ma l’espansione incessante della Nato è una delle bandiere preferite del complesso militare-industriale americano, perché i nuovi membri dell’Alleanza sono i principali clienti degli armamenti statunitensi. Negli ultimi anni gli Stati Uniti hanno addirittura abbandonato unilateralmente accordi chiave per il controllo degli armamenti. Nel 2002 sono usciti unilateralmente dal Trattato sui missili anti-balistici, e quanto al nucleare, invece di promuovere il disarmo come tutte le potenze nucleari sono tenute a fare ai sensi dell’articolo VI del Trattato di non proliferazione nucleare, il complesso militare-industriale ha venduto al Congresso piani per spendere oltre 600 miliardi di dollari entro il 2030 per “modernizzare” l’arsenale nucleare statunitense. Adesso il complesso militare-industriale statunitense ha cominciato a parlare della prospettiva di una guerra con la Cina, per Taiwan. I tamburi di guerra su Pechino alimentano la crescita del budget militare, ma anche la guerra con la Cina sarebbe facilmente evitabile se gli Stati Uniti si attenessero alla politica di una sola Cina, principio di base delle relazioni tra Stati Uniti e Cina degli ultimi decenni. Inoltre una guerra del genere dovrebbe essere impensabile non solo perché manderebbe in bancarotta gli Stati Uniti, ma perché potrebbe rappresentare la fine al mondo pura e semplice. Certo, la spesa militare non è l’unico scoglio del dibattito sul bilancio in corso negli Stati Uniti: esiste il tema dell’invecchiamento della popolazione e dell’aumento dei costi sanitari, a cui si aggiungono i problemi fiscali. Secondo l’ufficio di bilancio del Congresso, il debito raggiungerà il 185% del Pil Usa entro il 2052, se le politiche attuali rimarranno invariate. Bisognerebbe limitare i costi della sanità e aumentare le tasse sui ricchi. Ma è certo che affrontare la lobby militare-industriale è il primo passo per mettere in ordine il bilancio americano: il passo fondamentale per salvare gli Stati Uniti, e forse il mondo, dalla politica perversa di un’America guidata dalle lobby.

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