Il benessere sociale nei luoghi occupati
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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Il benessere sociale nei luoghi occupati

di Enzo SCANDURRA, da “il manifesto”, 23 maggio 2018

Nella minaccia di sfratto alla Casa Internazionale delle Donne di Roma si gioca una partita molto seria che rinvia a più grandi e generali ideali che riguarda a pieno titolo il senso della città, il senso del vivere insieme, la democrazia.

L’amministrazione vorrebbe applicare, ai tanti e diversi immobili occupati a Roma, una tecnica nota con il nome di “Analisi Costi e Benefici”. Quanto costa l’occupazione di un immobile pubblico in termini di mancato introito per le casse comunali? Sull’altro piatto della bilancia ci sono i benefici (collettivi) che derivano da questa occupazione. Ora mentre i costi sono oggettivamente quantificabili (per esempio, in denaro), i benefici sono soggetti ad interpretazioni politiche, sociali e di altro genere e i cui effetti si misurano in tempi lunghi.

Se per esempio assumiamo l’espressione « con la cultura non si mangia», la conseguenza, in termini di Costi e Benefici sarà semplice: non ci sono benefici collettivi a fronte del mancato reddito. Se, all’opposto, l’occupazione produce eventi culturali, manifestazioni collettive, cultura, musica, ovvero benessere sociale, convivialità, felicità collettiva, e queste cose sono considerate essenziali per la vita pubblica di una città, ecco che il risultato è completamente rovesciato e i costi (sotto forma di mancato reddito) sono irrilevanti rispetto al valore d’uso prodotto.

Fin qui nulla di nuovo. Ma l’apparente neutralità di una amministrazione comunale che si trincera dietro il mancato guadagno che da quegli immobili potrebbe venire (cosa tutt’altro che scontata, vedi il caso delle sale cinematografiche chiuse), in realtà svela come la città è considerata essa stessa una merce.

A partire da queste premesse è ovvio che il confronto tra amministratori della cosa pubblica e “occupanti” (a vario titolo) risulta un dialogo tra sordi.

Già molti anni fa (1968) Lefebvre nel suo famoso libro, Il diritto alla città, affermava che i processi produttivi capitalistici trasformano l’opera umana (valore d’uso) in prodotto di serie, in mera merce (valore di scambio). È quello che chiamiamo processo di mercificazione, in cui prevalgono le logiche di mercato (F. Biagi, Spazio e politica). Le città finiscono allora per essere trasformate in smart cities, città globali, hub cities. Questo processo impoverisce la vita pubblica e le manifestazioni del vivere collettivo, così che molte persone si ribellano a tale logica formando comunità spontanee che preferiscono vivere in luoghi sottratti alla detta mercificazione per creare ambienti di vita autentica.

La conseguente riduzione dello spazio pubblico ne è il risultato: le mostre, le manifestazioni artistiche e persino le feste, sono sempre più confinate in luoghi non facilmente accessibili alle persone (e in special modo ai più deboli) e la città, originariamente opera pubblica e collettiva, diventa sempre più privata mentre, al contrario, è resa “attraente” dalle archistar, dalle grandi opere e dagli eventi spettacolari. L’esatto opposto dell’esperimento realizzato da Nicolini nella famosa Estate Romana, che aveva trasformato la città in un luogo di festa accessibile a chiunque volesse partecipare.

Ecco che l’ideale di Lefebvre, il diritto alla città, riacquista un valore attuale: di trasformazione e riappropriazione dello spazio di vita fruibile a tutti, ideale che si contrappone chiaramente a quello della mercificazione. È questo lo sguardo con il quale si deve guardare alla Casa Internazionale delle Donne (e non solo) che nel tempo ha liberato uno spazio per discutere, incontrare, produrre convivenza, convivialità, socialità, come ben sa chi si è affacciato anche una sola volta in quell’edificio sottratto alla speculazione del mercato da oltre trent’anni.

La logica miope e ragionieristica degli amministratori è penetrata anche nelle scuole, nelle università, nei trasporti, nella sanità. Ci sono servizi e istituzioni che “costano troppo e non ci possiamo permettere” è il mantra del nuovo linguaggio liberista. Ma il gioco non è a somma zero: sul piatto della bilancia c’è la felicità e il benessere delle persone e il senso di città. Infine, l’istanza legalitaria di cui si fanno vanto i cinquestelle e la sindaca Raggi ha prodotto fino ad ora il degrado dei manufatti occupati e “liberati”, così come dimostrano i tanti cinema chiusi a Roma in attesa di bando pubblico.

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