I VALORI DELL’OCCIDENTE: “COLONIALISMO E IPOCRISIA” da IL FATTO
I valori dell’Occidente: colonialismo e ipocrisia
FRANCESCOMARIA TEDESCO 16 SETTEMBRE 2023
La guerra russo-ucraina ha contribuito a rinfocolare il mai sopito dibattito sul rapporto tra l’Occidente e gli altri. Giorgia Meloni, in un colloquio telefonico dell’ottobre scorso con Jens Stoltenberg, aveva affermato che “l’Alleanza Atlantica è indispensabile per difendere la sicurezza e i valori comuni che caratterizzano l’identità occidentale”. Temi non nuovi, che hanno avuto grande riscontro all’epoca della lotta al terrorismo, quando si sosteneva la primazia di quei valori rispetto a quelli di altre culture, e che occorreva essere conseguenti: se la democrazia e i diritti come pensati in Occidente sono superiori, allora è doveroso diffonderli (esportarli) con ogni mezzo, missili sui civili compresi.
Eravamo nel “momento unipolare” di strapotere imperiale statunitense. Già allora la più avveduta teoria aveva da tempo messo in guardia dal parlare di un Occidente indistinto sia sul piano politico sia su quello culturale: antropologi, sociologi, filosofi, diffidavano dall’usare acriticamente l’idea di “valori” o di “identità” occidentali. Naturalmente sapevano che essi sarebbero stati usati per supportare ideologicamente l’antico vizio imperialistico e colonizzatore dell’Europa e degli Stati Uniti. Ed è per quel motivo che riprese vita, di contro, quel filone del pensiero critico che da destra e da sinistra, denunciava l’infondatezza di quelle pretese di superiorità snocciolando i crimini della storia occidentale e invocando la necessità di un mondo multipolare. Quella pretesa superiorità veniva decostruita, lasciando non poche macerie.
Ora che è in corso di ripubblicazione il lavoro di un grande scrutatore dello spirito occidentale, quell’Ernesto de Martino di cui Einaudi rimanda in stampa da ultimo La terra del rimorso, su Avvenire di fine agosto Franco Cardini, uno di quegli abili decostruttori (da destra), ha chiamato a testimone l’antropologo napoletano accomunandolo a un altro grande studioso, Lévi-Strauss, nella “coscienza di una cultura occidentale moderna dotata d’una capacità violentissima di distruzione di qualunque altra civiltà e di un’immensa superbia che per circa quattro secoli l’ha autorizzata non solo a cancellare, ma anche a condannare come “false”, “arcaiche”, “illusorie”, “superate” tutte le altre civiltà che l’avevano preceduta”: L’Occidente che si sente nel vero deve essere “provincializzato”. Non si può che concordare.
Eppure quella critica all’Occidente ha due vie d’uscita: essa può riprendere la via dei grandi reazionari anti-moderni (da destra) o dei maestri del sospetto (da sinistra) e denunciare la contraddittorietà e l’ipocrisia dei suoi assunti principali (democrazia, progresso, diritti), inficiati tra l’altro dai loro peccati originali (l’essersi originati convivendo bellamente con l’oppressione, lo schiavismo, il colonialismo). Con il risultato, in entrambi i casi, di rifiutare il progetto illuministico moderno perché ritenuto “falso”, “ipocrita”, e con l’abbraccio a forme di irrazionalismo spiritualistico e/o decisionistico.
Tuttavia c’è l’altro modo: la critica dell’Occidente per mezzo dello strumentario critico occidentale, ovvero l’idea che l’Occidente stesso, conscio di quei limiti, non rinuncia alla costruzione del grande progetto moderno (democrazia, progresso, diritti), pur sapendo di che lagrime esso grondi, e di che sangue. Anzi, quei principi vengono “presi sul serio” e rovesciati contro l’Occidente stesso. Contro le ipocrite carte rivoluzionarie che parlavano di umanità chiudendo gli occhi sulle forme del dominio del diverso, non il motto di Carl Schmitt (che cita Proudhon) “chi dice umanità mente”, ma la vernacolarizzazione di quelle idee, la loro fusione dialettica con il punto di vista dell’altro. In fondo, fu ciò che fecero Olympe de Gouges per il femminismo o Toussaint Louverture per gli schiavi haitiani. Ed è quello che bisogna fare a partire proprio da De Martino, pur criticandolo. Egli infatti sosteneva una forma di etnocentrismo critico: l’essere, noi occidentali, situati e incapaci di un punto di vista disincarnato, astratto (il “punto di vista di Dio”), suggerendo un impiego non dogmatico delle categorie occidentali. De Martino con ciò pretendeva di rimettere criticamente al centro l’egemonia occidentale, ma noi possiamo oggi declinare quell’insegnamento nel senso di pensare che in fondo il progetto moderno di emancipazione va criticato, ma non liquidato. Che occorre pensare al mondo plurale, e che è proprio questo il miglior insegnamento di un Occidente critico verso se stesso e verso le sue pretese di superiorità.
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