GUERRE. DISUGUAGLIANZE. CLIMA. IL VICOLO CIECO DEL CAPITALISMO da IL MANIFESTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
Cultura, Saperi, Università, Dialogo
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GUERRE. DISUGUAGLIANZE. CLIMA. IL VICOLO CIECO DEL CAPITALISMO da IL MANIFESTO

 

Guerre, disuguaglianze, clima. Il vicolo cieco del capitalismo

ECONOMIA. Invece di cooperare per affrontare i problemi di fondo dell’economia di mercato che indeboliscono le stesse democrazie, i governi del mondo coltivano i conflitti. L’economia italiana continua a languire, esultando per uno zero virgola. Tante le cose da fare, dal taglio dei favori alle imprese agli investimenti pubblici

Pierluigi Ciocca  23/03/2024

Il Fondo Monetario sconta una tendenza del commercio e delle attività produttive mondiali a rallentare. Ciò che è più grave, l’economia di mercato capitalistica conferma i suoi tre sempiterni, radicati, difetti. È iniqua: l’1% più abbiente detiene quasi il 50% della ricchezza dell’intera umanità. È inquinante: la temperatura va a travalicare la soglia del riscaldamento globale, che sconvolge l’ambiente. È instabile: l’inflazione non è domata dalle incerte politiche monetarie della Fed e della Bce e il suo rialzo provocherebbe un ulteriore riduzione della crescita. Gli emigrati già sfiorano il 4% dell’umanità, oltre trecento milioni di persone.

Questi problemi, di gran fondo, incombono su tutti i paesi. Le stesse democrazie sono indebolite. Ma invece di cooperare per farvi fronte i governi coltivano e minacciano conflitti, caldi e freddi, con rischio atomico sullo sfondo, che certo non alimentano aspettative di sviluppo. Basti evocare la miopia della risposta economica dell’Occidente all’aggressione dell’Ucraina. Sanzioni, autarchia, protezionismo, fonti d’energia più costose di quelle russe, congelamento dei danari di Mosca all’estero si ritorcono sui paesi promotori. Hanno stravolto la rete di relazioni commerciali e finanziarie consolidate che nel tempo la cooperazione consentì e che solo la cooperazione può, nel tempo, ricostruire. Il sostegno a Israele nello scontro con Hamas e il massacro dei civili palestinesi, di fatto, isolano i paesi occidentali dal resto dell’umanità, ben più popoloso e con potenzialità di sviluppo economico.

Gli Stati uniti «drogano» la loro economia. Insistono nel forzare la domanda interna. Ma la dinamica della produttività è in discesa, il debito pubblico sfiora il 130% del Pil, la bilancia dei pagamenti permane in disavanzo da oltre mezzo secolo, la posizione netta del paese verso l’estero è debitoria per oltre 18 trilioni di dollari, 70% del Pil. Fra la Cina creditrice in sia pur rallentata ascesa e gli Stati uniti debitori in relativo declino l’Europa non riesce a darsi una linea. In politica è divisa. L’attività produttiva è fiacca, con la più forte economia industriale del mondo – la Germania – addirittura in recessione. Per il 2024 è forse ottimistica la previsione, pur mediocre, di una espansione europea dello 0,8%. Il nuovo Patto di stabilità mira a tagliare il debito pubblico. Ma non lo fa rilanciando investimenti in infrastrutture utili ai cittadini e capaci di moltiplicare reddito e gettito tributario, fino ad autofinanziare la spesa iniziale. Keynes ha chiarito ciò quasi un secolo fa, ma Berlino e Bruxelles persistono nel considerare nei pubblici bilanci gli investimenti alla stessa stregua delle uscite correnti: macroscopico errore.

In un quadro siffatto l’economia italiana continua a languire. Dopo il rimbalzo seguito al crollo da Covid del 2020 il Pil è tornato ad attestarsi sulla annosa tendenza intorno allo zero-virgola per cento, zero senza virgola pro capite. Tutti e tre i motori della crescita rimangono semi-spenti: gli investimenti netti, la domanda globale, il progresso tecnico. Il dato più preoccupante è proprio l’assenza di progresso tecnico, con la produttività totale delle risorse inchiodata ai livelli del 1995, trenta anni fa! Ci sono poi il debito pubblico prossimo ai tre trilioni di euro, la sanità in crisi, un territorio fragile e indifeso, il Mezzogiorno abbandonato a se stesso, una distribuzione del reddito e del patrimonio altamente diseguale, quasi sei milioni in povertà assoluta, giovani che né studiano né lavorano né intraprendono, servizi pubblici inadeguati… Se l’economia italiana non ritrova la via maestra della crescita – la questione che ricomprende tutte le altre – non solo le ferite della società non verranno sanate, ma l’Italia repubblicana e antifascista, la sua democrazia, saranno in serio pericolo.

Idealmente, i governi della Repubblica dovrebbero fare ciò che per decenni, da destra come da sinistra, non hanno fatto. Sette cose: risanare la finanza pubblica, tagliando non la spesa sociale ma i favori alle imprese e la evasione delle imposte; attuare un piano di investimenti pubblici ad alto moltiplicatore in infrastrutture essenziali (sanità, messa in sicurezza del territorio, istruzione, ricerca); concentrare tali investimenti nel Mezzogiorno; contrastare le diseguaglianze e soprattutto la vergogna della povertà; riformare il diritto dell’economia e la giustizia; imporre alle imprese la concorrenza; battersi a Bruxelles per una diversa conduzione dell’economia europea, anche con un uso pesante, motivato, del potere di veto. Per parte loro le imprese italiane devono convincersi che non possono continuare a far conto sui facili profitti assicurati da «moderazione» salariale, vuoti di concorrenza, trasferimenti statali, evasione dei tributi, commesse, appalti e concessioni a condizioni di favore per i fornitori. Devono tornare ad affidare la ricerca dell’utile all’accumulazione di capitale, alle innovazioni, alla produttività.

Non si può non essere preoccupati. Il governo in carica e la più gran parte dei media vantano risultati più apparenti che reali. Dissimulano i dati negativi. L’opacità è fitta. Oltre al fatto che l’economia tedesca – per sue specifiche ragioni – va persino peggio di quella italiana, si cita spesso l’aumento dell’occupazione nel Bel Paese. Ma nel 2023 il Pil è salito solo dello 0,9%, molto meno degli occupati (2,1%). La produttività del lavoro, quindi, è ulteriormente scesa. Piuttosto che investire e puntare su innovazione, progresso tecnico e produttività le imprese preferiscono togliersi i debiti e assumere dipendenti che producono poco perché il loro salario resta basso. Genera profitti e viene imposto a lavoratori spesso precari, privi di alternative, poco protetti dai sindacati.

Soprattutto, non pare che il governo abbia una strategia di lunga lena. La stessa spendita per investimenti delle cospicue risorse ottenute dall’Europa per il Piano di ripresa e resilienza non risponde a priorità essenziali, pochi grandi progetti. Si disperde in mille rivoli, con sprechi e ritardi. Le imprese, se sono pervenute a una qualche maggiore consapevolezza delle scelte che loro spettano rinviano le decisioni. E il Pil? Anche quest’anno: zero virgola.

Il disco rotto della mano invisibile

NUOVA FINANZA PUBBLICA. La rubrica settimanale a cura di Nuova finanza pubblica

Marco Bertorello, Danilo Corradi  23/03/2024

Questa settimana la Borsa Italiana ha raggiunto un nuovo record, superando i 34 mila punti. Un dato che non si vedeva dalla crisi del 2008. Frutto di una crescita dei listini bancari, avvantaggiati dalla drastica impennata del tasso d’interesse, associato ad alcune grandi imprese dell’economia reale (molte delle quali pubbliche) che godono di indubbia salute. Immagine sintetica di una euforia finanziaria che stona con il complessivo ristagno economico italiano ed europeo e che ci ricorda che in questi anni i profitti non sono andati male anche quando la crescita non si è data.

D’altronde, dopo quasi vent’anni di sconquassi, sembrano tornate di moda le vecchie ricette per ottenere la tanto agognata crescita.

Privatizzazioni, Stato marginale, centralità del mercato, tassazione minima. A spingere in questa direzione in primis la nostra premier in continuità con l’orientamento tradizionalmente liberista della destra italiana. Meloni è sostenuta, in qualche modo, da quella moltitudine di attori che da questa narrazione pensano di ottenerne vantaggi, perlomeno a breve termine. Innanzitutto le imprese accompagnate da un blocco sociale variegato, che va da parte del ceto medio impoverito (o spaventato rispetto a tale prospettiva) a una parte del mondo del lavoro e del sottoproletariato. Un arcipelago cementato da logiche aziendaliste, difensive, rancorose, che magari individuano nell’immigrato il principale nemico (non senza contraddizioni, dato che poi manodopera a basso costo risulta utile). A far galleggiare questo blocco l’ambizione a legittimare oltremodo l’evasione fiscale, il lavoro nero, un’economia a cui togliere lacci e lacciuoli in nome di una iniziativa privata sempre legittima. Una convergenza di interessi tra aziende, magari orientate all’esportazione, e medio-piccola borghesia capaci di influenzare anche settori popolari privi di una prospettiva alternativa credibile. Segmenti di punta dell’economia nazionale assieme a pezzi economicamente deboli.

In tale contesto socio-politico interno vengono rimosse alcune questioni che permangono come centrali. In nome di interessi aziendali viene relativizzata l’urgenza di una svolta ecologista, tramonta dal dibattito pubblico la necessità di una profonda riconversione industriale, nei consumi, negli stili di vita, a cui si aggiunge la parallela marginalizzazione di una qualsivoglia istanza tesa a immaginare un’economia meno squilibrata e sperequata socialmente. Dopo la sbornia neoliberale, la crisi globale del 2008 (e seguenti) sembravano aver instillato almeno qualche dubbio sulle capacità taumaturgiche di un mercato economico-finanziario senza freni.

Il governo Meloni, invece, decide di battere una strada già conosciuta e ben esemplificata da un lato dalla progressiva abolizione di un sostegno ai redditi e dall’altro dallo slogan che le imprese vanno lasciate in pace. Senza comprendere quanto in questi ultimi decenni le politiche pubbliche abbiano puntellato le rispettive economie nazionali. Queste hanno prima salvato i mercati e dopo reso meno deboli i relativi apparati economico-produttivi, in particolare per Usa e Cina.

A tal proposito, c’è la colpevole assenza di scelte europee, frutto di un continente ancorato a logiche austeritarie, impaurito delle proprie differenze e debolezze, incapace di sviluppare scelte comuni anziché promuovere (o arrendersi davanti a) politiche nazionali in concorrenza tra loro.

Insomma, larga parte delle classi dirigenti italiane sperano in un ritorno del pilota automatico del mercato, rimuovendo i fallimenti di questi ultimi decenni e spacciando come clamoroso successo qualche punto decimale di crescita in più rispetto alla Germania. Un disco rotto che viene riproposto senza nessuna capacità di indicare una strategia in discontinuità con le debolezze del passato. La borsa brinda, il mondo del lavoro no.

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