Dal vagone di coda le periferie inviano segnali
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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Dal vagone di coda le periferie inviano segnali

di Enzo SCANDURRA, “il manifesto”, 18 ottobre 2018

Al di là delle contorte definizioni degli specialismi su che cos’è “la periferia” oggi, possiamo affermare che è il luogo dove abitano e vivono le persone in carne ed ossa, dove si consuma la vita vera, essendo il centro ormai un museo a cielo aperto. Un luogo attraversato solo da fiumi di turisti e disseminato di mangiatoie aperte a tutte le ore del giorno e della notte.

Ma più che la definizione è interessante capire quali trasformazioni hanno subito in questi anni.

C’è un’espressione, usata in passato dal Comandante Marcos, che a me sembra adeguata per capire cosa è successo alle nostre periferie: «Nel grande treno dello Sviluppo i vagoni di testa hanno accelerato e i vagoni di coda si sono staccati per strada».

Se allora paragoniamo le nostre città a quel treno, possiamo immaginare che i primi vagoni rappresentano il centro, poi ci sono i vagoni di mezzo che rappresentano i quartieri storici consolidati e infine i vagoni ultimi: le periferie. Se l’immagine è adatta, allora le periferie si sono progressivamente separate dalla città, abbandonate al loro destino.

Oppure, al contrario, esse rappresentano oggi la città vera. Globalizzazione, modernizzazione, finanziarizzazione e tecnologia sono stati “i grandi balzi in avanti” dei primi vagoni che non hanno mai raggiunto gli ultimi. Anzi questi balzi in avanti hanno aggiunto disuguaglianze, miseria e degrado.

A Roma l’ultimo tentativo di agganciarle al centro è stato quello della giunta Petroselli-Nicolini con l’invenzione dell’estate romana. Fiumi di giovani provenienti dalle periferie si riversarono nel centro attratti dall’aria festosa e dagli spettacoli nati dalla fantasia creativa dell’architetto. Petroselli, a sua volta, vedeva il parco dei Fori come l’unica possibilità di restituire la città a chi ne era stato espropriato: una grande piazza pedonale, l’agorà di tutti i cittadini romani.

Sappiamo come è finita.

Nelle periferie l’abbandono e l’esclusione sono stati metabolizzati; nessuno si aspetta più (come negli anni Sessanta) che dal Centro arrivino i soccorsi. E il degrado della città aumenta a tal punto che ci siamo abituati, assuefatti, all’immondizia, all’inefficienza del trasporto pubblico, all’incuria del verde e dei monumenti. Così esse si sono sviluppate in maniera autonoma (qualche volta con proprie “leggi” e comportamenti). Sono nate associazioni, gruppi di volontariato (pulizia del verde e raccolta dei rifiuti), quasi fossero delle repubbliche autonome, oppure si sono “perse” diventando complici di attività illegali; o entrambe le cose. La profezia di Walter Siti (Il contagio) si è avverata: il Centro si è periferizzato, contaminato.

Accanto al rancore e al risentimento nei riguardi del Centro (luogo del potere e dell’inganno, comunque estraneo e lontano), si sono sviluppate attività culturali: musica, teatro, rappresentazioni artistiche (Metroliz ne è un esempio di come un vecchio edificio periferico abbandonato, l’ex salumificio Fiorucci, sia diventato sede del terzo museo di arte contemporanea di Roma, con opere d’arte riconosciute anche dalle istituzioni accademiche), tali addirittura da attrarre l’interesse dell’intera città, dei cittadini che ora si spostano invertendo il flusso: dal centro verso le periferie. E anche la narrativa e il cinema si sono interessate a loro: la questione sociale è tornata alla ribalta quasi come negli anni Cinquanta e Sessanta, all’epoca dei film neorealisti di Visconti, Germi, De Sica, De Santis o delle narrazioni di Gadda, Gatto, Pasolini, Moravia, Morante, Bartolucci.

A Roma i giovani si danno appuntamenti al Pigneto, al Quadraro, perfino a Corviale abbandonando ai turisti il Centro e la “Grande Bellezza”. La vita vera si svolge in questi luoghi tra mille contraddizioni ed espedienti di sopravvivenza (vedi il bel libro, La parte migliore di Christian Raimo) ma pur sempre con la precisa coscienza che “del centro non sappiamo che farcene”.

Le responsabilità della sinistra sono più che mai evidenti, avendo abbandonato l’attività di assistenza capillare e di crescita di una cultura politica praticate per anni dalle vecchie sezioni del Pci. Non siamo ancora alla rivendicazione del “diritto alla città” di Lefebvre, ma a qualcosa di più e di meno. Di meno c’è la sofferenza individuale che non sa trasformarsi (e forse non vuole) in organizzazione politica né trova sponde nella sinistra tradizionale; di più c’è la diffusione molecolare di un disagio che sa diventare resistenza tenace al falso modernismo del neoliberismo.

Sono segnali (ancorché deboli) che dovrebbe raccogliere una nuova sinistra che in primis dovrebbe fare i conti con questa realtà in rapida trasformazione, fatta di nuovi linguaggi, forme di resistenza all’omologazione dominante, se vuole sentirsi in comunione con il sentimento popolare.

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