Campiglia Marittima. Una stazione senza paesaggio
di Rossano PAZZAGLI, da “l’Etrusco”, n. 124, dicembre 2008, p. 17.
Dopo Stazione Termini, prosegue il nostro approfondimento sulle Stazioni del Capitale.
Una cinquantina d’anni fa, intorno al 1960, chi arrivava in treno a Campiglia poteva ancora vedere la campagna, guardarsi intorno e scorgere un paesaggio che era il frutto di un incontro equilibrato tra uomo e natura, un abbraccio tra mare e terra impreziosito dalle coltivazioni agricole, come carezze su un suolo utilizzato ma non consumato, trasformato ma non violentato. Così dovevano apparire allora i dintorni della stazione a Carlo Laurenzi, romanziere e giornalista, maestro di prosa e di stile, che se n’è andato, ormai vecchio, alcuni anni orsono.
«Dov’è al mondo una stazione ferroviaria simile alla stazione di Campiglia Marittima?», scriveva in un libro del 1961. «La ritrovo sempre qual’era, senza tettoia, ventosa, esposta alla pioggia e al sole, priva di edicola di giornali, popolata di butteri, di cani, di marinai che vanno in licenza. (…) La stazione di Campiglia Marittima sta sola nel cuore della Maremma ed è la Maremma. La fasciano i campi e il silenzio, con le colline e il mare ai due orizzonti» (C. Laurenzi, Toscana delusa, Firenze Vallecchi, 1961).
Oggi chi scende da un treno vede una zona sommersa da palazzi e capannoni industriali, le colline squarciate dalle cave, il mare nascosto e più lontano, le strade di accesso in uno stato di degrado e abbandono, come i poveri e scalcinati palazzi dei ferrovieri. E come se non bastasse si parla di costruire qui intorno nuovi impianti industriali e addirittura un cementificio a ovest delle Lavoriere e della stazione, verso la costa e il Golfo di Baratti.
Quanto sarebbe utile oggi il paesaggio descritto da Laurenzi! Servirebbe a trasmettere il senso di una terra bella e accogliente, sarebbe una risorsa economica e culturale, i turisti si fermerebbero più volentieri e noi abitanti ci sentiremmo più fieri di vivere qui. Invece la povera stazione è trascurata, perfino dai treni, e i suoi dintorni sono vittime della mano invadente del profitto, di trasformazioni continue e irreversibili, ferita nella trama dei campi e nei suoi larghi orizzonti ventosi. Non si vede più neanche il tramonto. Lei, la stazione, non è più fasciata dai campi e dal silenzio, non è più sola nel cuore della Maremma, non è più la Maremma.
No Comments