CAMBIARE NOME, CAMBIARE SIMBOLO? “NON LI CAMBIEREI” da IL FATTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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CAMBIARE NOME, CAMBIARE SIMBOLO? “NON LI CAMBIEREI” da IL FATTO

“Non li cambierei. Meglio ragionare su Grillo e i temi”

Marco Revelli Politologo – “Ridurre i problemi a una questione nominalistica, come se un cambio di nome potesse mettere a posto le cose, sarebbe sbagliato.”

 Lorenzo Giarelli  10 Novembre 2024

Marco Revelli, politologo e sociologo tra i più noti in Italia, giudica positivamente il dibattito che sta portando al rinnovamento del Movimento 5 Stelle, “necessario, anche se non sufficiente” per uscire dall’impasse. Ma se alcuni cambiamenti, come quello sui due mandati o sul ruolo del Garante, appaiono non più rinviabili, Revelli ritiene sia meglio non cambiare nome: “Il dibattito rischierebbe di concentrarsi troppo su quello, mentre la sostanza è altrove”.

Professor Revelli, che idea si è fatto dei resoconti pubblicati dal M5S?

Intanto è un metodo che ho apprezzato. Il meccanismo di discussione e di elaborazione delle proposte per le possibili trasformazioni è stato ampio e con vari strumenti di partecipazione, dai suggerimenti iniziali al sorteggio per i tavoli di discussione, eccetera. Mi sembra un meccanismo di reale democrazia interna che si pone agli antipodi rispetto alla formula dei primi anni in cui per decidere bastava una figura apicale. È un bene che il baricentro torni verso il basso.

Non a caso uno dei temi di discussione è proprio la figura del Garante, Beppe Grillo.

Indubbiamente è una figura anacronistica, così com’è adesso. A maggior ragione se consideriamo la mutazione genetica della persona, che da elemento generativo è diventata elemento distruttivo. Grillo ha la sindrome del cattivo padre che a un certo punto invidia ai figli il fatto che gli sopravvivano. Per questo ben venga una modifica che abolisca la figura del Garante o che per lo meno la renda a termine e senza poteri da monarchia assoluta.

Ma il Movimento potrebbe velocizzare il proprio cambiamento scegliendo un altro nome?

Non porta granché fortuna cambiare i nomi alle formazioni politiche. E non mi sembra neanche possa avere grande utilità, non credo che agli elettori, compresi quelli delusi, possa cambiare qualcosa. È giusto fare i conti col proprio passato, ma sui temi.

Non sarebbe utile a dare un segnale di rottura più netto?

Ridurre i problemi a una questione nominalistica, come se un cambio di nome potesse mettere a posto le cose, sarebbe sbagliato. La sostanza politica sta da un’altra parte, la questione nominalistica finirebbe per togliere spazio ad altre, anche nel dibattito. Meglio togliere dal tavolo questo rischio.

Quando parla di alcuni conti da fare col passato si riferisce alle regole interne?

Non solo. Il processo costituente era un’operazione necessaria, anche se non sufficiente, per rinnovarsi dalla base e superare l’impasse che si è creata. Ma anche per riscoprire le ragioni del proprio essere. Alcune sono chiare: la campagna contro le armi è una di queste, la critica radicale a esperienze come quella del governo Draghi pure. Ma ci sono anche alcune caratteristiche delle origini che secondo me potrebbero essere recuperate. Battaglie su alcuni temi caldi molto sentiti dalla gente, come i comportamenti e le storture create dalle grandi società. Mi viene in mente Grillo contro la Telecom. Sono temi che le persone sentivano come propri e che potrebbero benissimo essere attualizzati.

Poi però arrivano le regole interne. Oltre al Garante, l’altra variabile decisiva è quella del vincolo dei due mandati. Che ne pensa?

Non mi convince l’assolutizzazione del tema, come se la propria identità dipendesse da un mandato in più o in meno. Rispetto all’ingenuità delle origini, il Movimento ha fatto i conti con la professionalità della politica. Non ci si improvvisa amministratori, una rotazione troppo rigida confligge con l’esigenza di una qualificazione e con l’apprendimento dei meccanismi delle istituzioni.

Occhetto, Fini e Veltroni: svolte tra pianti e addii

Le storie – Seconda Repubblica

Gianluca Roselli  10 Novembre 2024

Cambiare simbolo, per un partito politico, è sempre causa di scontri interni, psicodrammi, liti, battaglie e scissioni. Lo sanno bene tutte le forze politiche che, dalla caduta del muro di Berlino in avanti, hanno cambiato logo e linea. Il primo a sperimentare l’esperienza fu Achille Occhetto, ultimo segretario del Pci, che il 12 novembre 1989 dalla sezione della Bolognina annunciò a sorpresa l’intenzione di sciogliere il Pci per dare vita a un nuovo partito, con altro nome e simbolo. Lo psicodramma del popolo comunista durò un paio d’anni con infinite discussioni nelle sezioni, ben documentate da Nanni Moretti nel film La Cosa. Molti erano contrari ma alla fine prevalse la linea di Occhetto che, nel 1991, al XX congresso del Pci a Rimini, s’impose con una mozione appoggiata, tra gli altri, da Massimo D’Alema e Walter Veltroni, in cui si approvava lo scioglimento del Pci e la nascita del Partito democratico della sinistra (Pds), che per simbolo aveva una quercia poggiata su falce e martello. All’annuncio dello scioglimento del Pci, Occhetto scoppiò in un lungo pianto a dirotto. Armando Cossutta Fausto Bertinotti, contrari, uscirono dando vita a Rifondazione comunista.

Qualche anno dopo, sulle macerie di Tangentopoli, morì anche la Dc. Il 18 gennaio 1994 Mino Martinazzoli sancisce la fine della Balena Bianca ridando vita al Partito popolare italiano (Ppi) cui non aderiscono Pierferdinando Casini Clemente Mastella, che fondano il Centro cristiano democratico (Ccd) unendosi al centrodestra berlusconiano.

A sinistra vanno menzionati altri due capitoli. Nel febbraio 1998 il segretario D’Alema cambia di nuovo nome e simbolo del Pds: nascono i Democratici di sinistra (Ds), nel logo resta la quercia, scompaiono però falce e martello sostituiti da una rosa socialista. Poi, nove anni dopo, altro cambio: il 14 ottobre 2007, al Lingotto di Torino, Veltroni tiene l’assemblea costituente del Partito democratico, che si rifà ai grandi partiti a vocazione maggioritaria come il Labour inglese e i democratici americani. Nascerà sulle ceneri di Ds e Margherita (che in aprile tengono i loro ultimi congressi), unendo sotto lo stesso tetto le tradizioni ex comunista, socialista e cattolico-democratica. Il simbolo cambia di nuovo: sarà solo Pd con in basso un ramoscello d’ulivo stilizzato simbolo della coalizione di Romano Prodi. Non tutti entrano: tra gli ex Ds non aderiscono Fabio Mussi e Gavino Angius, mentre dalla Margherita restano fuori Gerardo BiancoLamberto Dini e Willer Bordon.

E a destra? La svolta più importante è quella di Gianfranco Fini che, insieme a Pinuccio Tatarella, nel gennaio 1995 a Fiuggi scioglie il Movimento Sociale Italiano (Msi) dando vita ad Alleanza nazionale (An). Nel logo la fiamma non è più in primo piano, ma sta in basso, più piccola. Contro il “traditore” Fini insorge Pino Rauti che, insieme a Giorgio Pisanò e Tomaso Staiti di Cuddia, fonda il Movimento sociale fiamma tricolore.

Ma a creare scompiglio fu anche la nascita del Popolo delle Libertà (Pdl), il partito unico del centrodestra, con una genesi al contrario. Nel novembre 2007, convinto che per contrastare il Pd occorra una forza unitaria pure a destra, Silvio Berlusconi lancia il nuovo partito col famoso discorso del predellino in piazza San Babila, lasciando di stucco Fini, che però deve abbozzare. Il Pdl si presenta alle elezioni del 2008 vincendole col 46,8% alla Camera, ma ufficialmente nascerà solo l’anno successivo col congresso fondativo del marzo 2009. Alcuni, specie in An, sono contrari, ma non ci sono scissioni. Tra i cosiddetti colonnelli di An però alcuni, come Ignazio La Russa e Maurizio Gasparri (corrente di Destra Protagonista), voltano le spalle a Fini diventando fedelissimi di Berlusconi.

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