Alberi in città
di Piero BEVILACQUA, da “il manifesto“, 10 maggio 2018
Pochi elementi naturali, più degli alberi, la loro presenza e cura, misurano la qualità del rapporto degli uomini con il loro habitat. Potremmo aggiungere: il loro grado di civiltà, se al termine civiltà non assegniamo solo il compito di designare la raffinatezza dei costumi, l’elevatezza della cultura generale di una società, ma anche il grado di rispetto della natura e delle sue espressioni vitali ed estetiche. E sono gli alberi che oggi misurano il cammino storico all’indietro, la grandiosa regressione di civiltà compiuta dalle società capitalistiche contemporanee. Ci riferiamo, in questo caso, agli alberi delle città, non quelli delle foreste e dei boschi, travolti dall’avanzare delle società industriali e dall’urbanesimo. Perché per secoli, anzi per millenni, le città hanno continuato ad ospitare non le singole piante, ma l’intero loro habitat di appartenenza sotto forma di giardini e di orti. La Roma imperiale vantava horti sontuosi come quelli Sallustiani, costituiti sotto l’influenza delle culture agronomiche ed estetiche dell’Oriente. Il mondo antico ha perfino conosciuto gli orti botanici, come quello di Alessandria d’Egitto, benché non sorretti dalle finalità scientifiche che caratterizzeranno più tardi i giardini botanici moderni. Questi iniziano a operare a Padova e a Pisa, collegate alle università, a partire dal XVI, e poi in altre città d’Europa, come Francoforte. Ma sono state soprattutto le nostre città rinascimentali e barocche, Firenze e Roma in primo luogo, a vantare giardini privati costruiti secondo criteri estetici raffinatissimi (poi diffusi in tutta Europa), in cui la natura e la collocazione degli alberi avevano funzioni scenografiche e architettoniche integrate agli edifici. I palazzi dei signori e le città si facevano belli con l’eleganza delle piante.
Ma gli alberi in città si impongono quali elementi dell’urbanesimo moderno, sotto forma di parco pubblico, destinato alla salute e al godimento dei cittadini, solo ai primi dell’800, a Londra. È il Saint James Park, inaugurato nel 1814, ad avviare la tendenza, seguito più tardi, nello stesso Regno Unito, da Liverpool, poi da Parigi, con il Bois de Bolulogne e Bois de Vincennes, dagli Usa (che inaugurano i primi parchi naturali della storia) con il Central Park di New York. In Italia i parchi urbani sono tardivi ritagli novecenteschi, dovuti ad espropri di ville private, le poche che si sono salvate dalle lottizzazioni edilizie. Il caso di Roma, che pure conserva aree di grande bellezza, oggi in semiabbandono, è una storia di devastazioni irraccontabili.
Ma gli alberi si diffondono in città, soprattutto durante la grande espansione urbana del XIX secolo e primo ’900, anche come singole piante. Essi vengono piantati per adornare e ombreggiare piazze, strade e viali. E l’aspetto più singolare di questa strategia dell’arredo urbano, che ai manufatti estetici dell’architettura (facciate di edifici di pregio, statue, fontane, ecc) aggiungono la bellezza della creazione della natura, è il carattere cosmopolita delle piante. Gli alberi a noi familiari vengono da paesi lontani. I grandi Cedri dal Libano, la Magnolia dal Sud America, l’Ippocastano dalla Penisola balcanica, il Tiglio dalle regioni caucasiche. Gli ornamenti arborei delle nostre città sono le ignorate testimonianze dei legami sotterranei che uniscono le culture dei popoli, gli scambi, i traffici di semi, piante, frutti, con cui agronomi e contadini hanno sparso per il globo e reso universale la natura domesticata delle piante.
Ma tali monumenti storici del paesaggio urbano, con le ex ville patrizie, i parchi delle rimembranze, i nostri giardini comunali, lanciano oggi un duplice messaggio. Indicano il coraggio e la lungimiranza di una borghesia capace di rinunciare alla rendita fondiaria ricavabile da aree centrali della città per destinarla all’interesse collettivo e alla bellezza urbana. Al tempo stesso denunciano la miseria degli appetiti presenti. Se le città dei due secoli trascorsi fossero state governate dalla borghesia dei nostri giorni, noi avremmo oggi non delle città, ma foreste di pietra, dove ad ogni frammento di spazio sarebbe richiesto di generare profitto. Basti osservare di quanto verde son dotati i nuovi quartieri, le nostre squallidissime periferie. Lo stesso termine verde denuncia la degradazione subita dalla natura, ridotta ad elemento accessorio e residuale dell’espansione urbana.
Eppure oggi gli alberi e il loro contesto ambientale vedono accresciute le ragioni della loro presenza in città. Alle motivazioni estetiche e salutistiche che animarono un tempo una borghesia dotata ancora di senso dell’interesse generale, si aggiungono nuove necessità. È la città intesa secondo il nuovo paradigma di ecosistema, che reclama la presenza degli alberi all’interno dei cortili, tra gli spazi edificati, ai lati delle strade e dei viali, nelle aree dismesse, negli incolti abbandonati e trasformati in discariche. Alberi ovunque, perché sono regolatori climatici, essi possono ridurre la temperatura nelle grandi calure estive, assorbire anidride carbonica, polveri e particolato, che inquinano il bene comune dell’aria che respiriamo e al tempo stesso generare ossigeno. Un piccolo contributo alla riduzione dell’effetto serra e un incremento del benessere urbano. Ma gli alberi e il suolo che li circonda assorbono grandi quantità di acqua piovana, limitano il dilavamento spesso rovinoso dei grandi temporali, aiutano a non disperdere le risorse idriche, a ripascere le falde sotterranee. Senza infine dimenticare che gli alberi, specie se non isolati, sono sede di uccelli, insetti, rettili, piccoli mammiferi, frammenti di natura vivente con cui conviviamo. Ci rammentano che non siamo i solitari padroni del pianeta, che spartiamo la vita con altri viventi, che una nobiltà da vantare oggi e in futuro sarebbe quella di prendercene cura, dopo averli, per millenni, estromessi e in tanti casi annientati.
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