VIOLENZA POLIZIESCA, FRA NEOLIBERISMO E AUTORITARISMO da IL MANIFESTO
Stato di emergenza francese, una storia lunga e coloniale
FRANCIA. Prima volta nel 1955: De Gaulle contro la rivolta algerina. L’8 novembre 2005 Chirac lo dichiara per sedare i tumulti nelle banlieue
Francesca Maffioli, BORDEAUX 010/07/2023
L’état d’urgence ha una storia lunga e intrecciata con quella della Francia coloniale. La versione originale della legge del 3 aprile 1955 stabilisce che lo stato di emergenza possa essere dichiarato in due casi: pericolo imminente derivante da gravi attentati all’ordine pubblico; eventi qualificabili, dal ministero dell’Interno, come calamità pubbliche per natura e gravità.
La prima volta lo stato di emergenza venne dichiarato dal generale Charles De Gaulle in applicazione dell’articolo 16 della Costituzione ed esteso a tutta l’Algeria dopo la rivolta del 20 agosto 1955. Il 17 maggio 1958, quando il primo governo lampo di Pierre Pflimlin chiese la dichiarazione dell’état d’urgence a seguito della costituzione di un governo di pubblica sicurezza ad Algeri, in aperta ribellione contro l’esecutivo francese. Questo stato di emergenza si interrompe grazie a de Gaulle che tuttavia lo dichiara di nuovo il 22 aprile 1961 in tutti i dipartimenti della Francia metropolitana, dopo quello che si ricorda come il «golpe dei generali».
Viene dichiarato nuovamente il 22 aprile 1961, estendendone l’applicazione contro quegli stessi generali che, in opposizione alla politica gollista a favore dell’indipendenza dell’Algeria, avevano preso il controllo della capitale del paese nordafricano. Il regime eccezionale, istituito per reprimere i nazionalisti algerini nel 1955, è stato dunque usato anche contro i loro oppositori nel 1960. Lo stato di emergenza è ulteriormente prorogato fino al 31 maggio 1963, in applicazione della legge referendaria del 13 aprile 1962 per contrastare il rischio di azioni terroristiche compiute dai membri dell’Oas, un’organizzazione clandestina francese vicina all’estrema destra, che difendeva tramite azioni violente la presenza in Algeria.
L’ennesimo état d’urgence viene lanciato nel territorio della Nouvelle Caledonie, isola vicina all’Australia, in concomitanza al referendum che avrebbe consentito la scelta tra la permanenza nella Repubblica francese o la creazione di uno stato indipendente. Una nuova emergenza è dichiarata il 29 ottobre 1986 sul territorio delle isole di Wallis e Futuna, nel Pacifico meridionale, per un solo giorno. Il 24 ottobre 1987, invece, nella Polinesia francese a seguito di scontri tra scioperanti e forze dell’ordine.
L’8 novembre 2005 è una data che fa da spartiacque simbolico: Jacques Chirac proclama lo stato di emergenza nell’Île-de-France e nelle aree urbane adiacenti. Il motivo sono i disordini provocati dall’uccisione dei giovani Zyed Benna e Bounia Traoré a Clichy-sous-Bois che volevano sfuggire, come Nahel M. ucciso lo scorso 27 giugno, a un controllo di polizia. È la rivolta delle banlieue spesso evocata in questi giorni di analoghi tumulti. L’ultima dichiarazione dell’état d’urgence risale al 14 novembre 2015 (e dura fino all’anno seguente). È motivata dalle note azioni terroristiche allo Stade de France (attentato fallito) e dalle sparatorie a Parigi la sera del 13 novembre.
In cosa consiste questo regime speciale? In un assortimento di misure che forniscono alle autorità amministrative mezzi eccezionali. Si tratta in pratica di uno stato di crisi che rafforza i poteri delle autorità civili in materia di sicurezza personale e che, di conseguenza, limita le libertà pubbliche e individuali. Dovrebbe quindi essere un regime giuridico eccezionale che consente di adottare provvedimenti speciali, resi imperativi in determinate circostanze.
Dopo la recente esplosione della rivolta nelle banlieue e poi nelle città alcuni partiti di opposizione di destra ed estrema destra hanno chiesto la dichiarazione dello stato di emergenza. Per primo Les Républicains (LR). Poi il Rassemblement National, per voce del vicepresidente dell’Assemblée Nationale Sébastien Chenu. Infine da Éric Zemmour, che paventa l’inizio di una guerra civile.
Per adesso Macron ha disposto misure eccezionali e un enorme dispiegamento di forze dell’ordine ma ha evitato di dichiarare l’état d’urgence, nonostante ieri mattina avesse annunciato provvedimenti «senza tabù».
Violenza poliziesca, tra neoliberismo e autoritarismo
FRANCIA. La questione della violenza delle forze dell’ordine, senza perdere la sua dimensione specifica postcoloniale e di razza, sta sempre più allargandosi a questione democratica generale, sintomo della compenetrazione completa tra neoliberalismo e autoritarismo. Così lotte sociali e lotte antiautoritarie tendono a non separarsi più
Giso Amendola 30/06/2023
Dopo l’uccisione di Nahel a Nanterre, ammazzato a freddo con un colpo di pistola da un poliziotto dopo che si era fermato a un posto di blocco, il tentativo di difendere l’indifendibile è durato poco. Le immagini video hanno fatto piazza pulita della narrazione dell’estrema destra, e di gran parte dei sindacati di polizia, che avevano cercato di tirare in ballo la consueta legittima difesa.
Il tentativo menzognero di incolpare la vittima, abituale purtroppo come abituale è il tipo di evento, c’è comunque stato, prima che qualcuno cominciasse a pensare che non fosse ancora il caso di soffiare sul fuoco. E, insieme all’arsenale retorico sulla legittima difesa, si è immediatamente mobilitato anche il consueto apparato repressivo: schieramento dei reparti antisommossa e quartiere Picasso in stadio d’assedio «preventivo».
Davanti a un copione ormai diventato ordinario, la sorpresa inscenata dal governo e da Macron nei confronti dell’espandersi rapido della rivolta suona davvero fuori luogo. È chiaro, infatti, che i tentativi di ridurre l’episodio tutt’al più a una follia individuale della proverbiale «mela marcia», non hanno più capacità di reggere di fronte a un’evidenza inaggirabile: le violenze poliziesche sono ormai avvertite dalle persone, e in primo luogo dalle persone razzializzate, come un dato che appartiene al loro quotidiano.
Non è un caso che l’estrema destra trasformi la sua difesa «d’ufficio» tradizionale delle forze di polizia direttamente in un episodio della razzializzazione dello scontro interno, sfoderando immediatamente tutto l’ordine discorsivo sull’assedio e sulla paura dei «bianchi», proclamando esplicitamente una legittima difesa di razza e di classe.
C’è però un elemento importante di maturazione che emerge, analizzando rivolte e resistenze alla violenza di polizia: la trasformazione della resistenza delle persone razzializzate in un nodo di una rete sempre più fitta e diversificata di campagne e di lotte. In altre parole, la questione della violenza delle forze dell’ordine, senza perdere la sua dimensione specifica postcoloniale e di razza, sta sempre più allargandosi a questione democratica generale.
Così la lotta alla violenza poliziesca è entrata, come elemento centrale e qualificante, nei cicli di movimento francese più recenti: dai Gilets Jaunes al movimento contro la riforma pensionistica. E non si è trattato solo della consueta campagna antirepressiva che ogni movimento sociale si trova prima o poi ad affrontare, quanto dell’assunzione del problema della violenza della polizia come sintomo della compenetrazione completa tra neoliberalismo e autoritarismo, e della conseguente definitiva scissione tra democrazia e liberalismo che questo comporta.
Lotte sociali e lotte «antirepressive», antiautoritarie e contro la violenza strutturale delle forze dell’ordine, tendono a non separarsi più, come voleva una tradizione di difficile convivenza tra lotte «economico-sindacali» e lotte contro gli apparati di Stato.
Oggi i due aspetti, e in qualche misura anche i due diversi stili di lotta, cominciano a trovare una congiunzione molto più forte che in passato, seguendo del resto la scia dei movimenti americani, dove le campagne per sottrarre fondi alla polizia (Defund the police!) hanno alimentato sperimentazioni importanti su nuovi modelli di controllo sociale dal basso, sulla giustizia trasformativa oltre la sanzione penale, e più in generale su una nuova, intensa rivendicazione di democrazia «abrogazionista», che chiede il superamento radicale delle attuali forme della polizia e del carcere.
È presto evidentemente per capire se le rivolte contro la violenza poliziesca annuncino la ripresa immediata di un movimento forte e generalizzato in Francia: ma certo una dinamica nuova, almeno potenziale, le collega alle lotte sociali. Mentre la violenza sistemica delle forze dell’ordine rivela la crisi strutturale della «democrazia neoliberale» e la sua intrinseca contraddittorietà, la riappropriazione della democrazia, in tutta la sua portata e generalità, assume sempre più l’immagine dell’«intersezionalità delle lotte» lungo le linee di razza, classe e genere.
«Il mito integrazionista è fallito. Parigi ora teme l’alleanza tra poveri bianchi e neri»
FRANCIA. Intervista alla giornalista francese di origine algerina Louise Yousfi: «La sinistra, in particolare France Insoumise, ha avviato una riflessione su autoritarismo di Stato e antirazzismo. Una novità: nel 2005 il movimento delle banlieue rimase isolato»
Antonio Alia, Anna Curcio 30/06/2023
Louisa Yousfi, giornalista residente a Parigi e figlia di algerini immigrati, è autrice di Restare barbari, libro di grande successo in Francia e pubblicato di recente per i tipi di DeriveApprodi. Yousfi denuncia la violenza delle politiche assimilazioniste delle istituzioni francesi e descrive il conflitto che da almeno mezzo secolo infiamma le periferie d’oltralpe.
Ci spiega cosa sta avvenendo nelle banlieue? Ancora una volta con «i selvaggi all’assalto dell’Impero», per citare il sottotitolo dell’edizione italiana del suo volume.
Uno degli assi fondanti del movimento decoloniale è la lotta contro le violenze della polizia nei confronti degli abitanti dei quartieri popolari, principalmente arabi e neri. A partire da questa violenza immediata, spettacolare, visibile si è costruita la consapevolezza che in Francia esistono dei cittadini di serie b, le cui vite non hanno lo stesso valore di quelle degli altri cittadini della Repubblica. Quello che è successo a Nanterre è soltanto l’ennesimo episodio del trattamento coloniale che la polizia riserva ai quartieri popolari. Ogni anno ci sono in media tredici morti per mano della polizia e il 90% sono neri o arabi. La differenza è che questa volta abbiamo le immagini di quello che è successo. Immagini forti che rendono difficile la difesa dei poliziotti.
Prima della comparsa delle immagini, nella versione ufficiale, la vita dei poliziotti era in pericolo e si erano dovuti difendere. Si è però visto che non era solo un omicidio ingiustificato, c’era anche il tentativo di nasconderlo, che è quello che succede tutte le volte che non ci sono immagini: la polizia fa quadrato per nascondere i propri crimini. Restare barbari ci chiarisce come e perché le vite dei non bianchi sono inferiorizzate; quello che ho cercato di raccontare nel libro è la fine del mito integrazionista repubblicano secondo cui neri e arabi sono diventati francesi e si sono ritagliati un posto nella società.
Nel 2005 Sarkozy chiamò «racaille», feccia, i rivoltosi. Oggi lo Stato incrimina di omicidio il poliziotto che ha sparato a Nahel: cosa è cambiato?
La condanna istituzionale dell’omicidio è inconsueta. C’è il concreto timore che la situazione degeneri. Per tutta la notte nell’intera Francia ci sono state rivolte molto estese e violente. Ma va anche ricordato che il paese è reduce dal movimento contro la riforma delle pensioni che ha mobilitato milioni di persone. Il grande timore è quello di cui parla Houria Bouteldja nel suo libro Boeufs et barbares: un’alleanza tra le classi popolari bianche della sinistra e quelle delle banlieue. Un’alleanza inedita e pericolosa, resa possibile dalla forte opposizione al potere espressa da entrambe: in questa situazione lo Stato è pronto a «sacrificare» un poliziotto per calmare le acque. Inoltre le Olimpiadi del 2024 si terranno proprio nella regione parigina, dove sono situate le banlieue e quindi c’è in gioco anche l’immagine internazionale della Francia.
Su quali basi si sta costruendo questa alleanza tra «barbari» e «bifolchi»?
Oggi nessuno legittima la criminalizzazione della vittima che si è invece vista in passato; tutti dicono che non importa quale fosse la sua condotta, non meritava di morire perché viviamo in uno stato di diritto. È un discorso molto importante e grazie al lavoro fatto dal movimento decoloniale negli ultimi quindici anni oggi c’è una grande preparazione e capacità di mobilitazione contro le violenze poliziesche. In questo lasso di tempo questo è stato il fronte strategico più importante della politica antirazzista. Da parte sua la sinistra, in particolare quella rappresentata da France Insoumise di Mélenchon, ha avviato una riflessione su antirazzismo, autoritarismo di Stato e violenza poliziesca e si dice pronta a difendere gli interessi dei quartieri popolari. È una novità che la sinistra sia pronta a rompere il patto autoritario e ad accogliere le rivolte. Non fu così nel 2005, quando il movimento delle banlieue rimase isolato. Solo alcune frange dell’estrema sinistra espressero una timida solidarietà, mentre la sinistra istituzionale chiedeva repressione.
Oggi è quest’ultima a dire, attraverso Mélenchon, che non farà appelli alla calma e che solidarizza senza riserve con i rivoltosi. La marche blanche a Nanterre (di ieri pomeriggio, ndr), per rendere omaggio al ragazzo ucciso, è stata piena di collera, tanto da essere anche una manifestazione politica e di rivendicazione che certo non si esaurirà. Tutte le frange antirazziste della sinistra e della estrema sinistra si sono espresse in maniera solidale. Anche l’organizzazione «Soulevement de la terre», un movimento bianco ed ecologista molto forte, ha partecipato alla marcia di Nanterre. C’è dunque un blocco a sinistra che si sta ricostituendo. Bisogna essere prudenti, ma può crearsi un’alleanza tra quelli che noi chiamiamo «boeufs» e «barbares», cioè tra è bianchi della classe popolare e i neri e gli arabi delle banlieue.
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