VIOLENZA MASCHILE: “NON CI VOGLIONO 40 GIORNI, CI VOGLIONO 40 ANNI PER RIPRENDERSI” da IL MANIFESTO
La Russa inadeguato come presidente e come padre
VIOLENZA MASCHILE. Non ci vogliono 40 giorni, ci vogliono 40 anni per capire che si è state vittime di una violenza, per riprendersi da quella violenza, per capire cosa è successo, per […]
Valeria Parrella 09/07/2023
Non ci vogliono 40 giorni, ci vogliono 40 anni per capire che si è state vittime di una violenza, per riprendersi da quella violenza, per capire cosa è successo, per riprendere confidenza con il proprio corpo, con la propria pancia. Ci vuole coraggio, confidenza, aiuto.
Bisogna avere la forza di pensare: «Non è colpa mia se mi sono trovata in una situazione sbagliata». Bisogna non sentirsi sbagliate. Trovare il coraggio di lavarsi, sentirsi integre di nuovo, di parlare, di chiedere a una madre, una sorella, un’amica: accompagnami a denunciare.
Succede per molto meno.
A volte ci troviamo in situazioni imbarazzanti da cui è difficile uscire, dove non credevamo di piombare, e bisogna averne davvero quaranta di anni e le spalle super larghe per ammettere che qualcosa era starato, che pensavamo di avere davanti un interlocutore e invece era una merda. Ci vergogniamo di ammettere che ci siamo cascate, ancora ancora e ancora. E quando dico «ancora» mi porto dietro secoli di donne prima di me, perché noi siamo fatte, forse, della stessa sostanza dei sogni, ma più sicuramente della stessa sostanza di quello che è accaduto a noi, alle nostre mamme e alle nostre nonne, ad Artemisia Gentileschi, a Teresa Mattei, a Franca Rame.
Il corpo è l’interfaccia con cui andiamo nel mondo, quando viene violato non abbiamo più niente per andare nel mondo. Sappiamo che quella ragazza è stata stuprata? No, lo stabilirà la magistratura. Possiamo esserle solidali totalmente già da adesso? Sì. Possiamo crederle totalmente fino a quel momento? Sì. E se possiamo, allora dobbiamo.
Lo stupro, perfino il sospetto di stupro, sono il crimine più odioso, perché è un crimine che non c’entra nulla con il sesso, c’entra con l’oggettificazione, la brutalizzazione dell’essere umano, c’entra con la disumanizzazione, con l’annichilimento della dignità della persona. E se non ti senti più persona, se non ti senti padrona del tuo corpo: dove vai, chi sei, perché la società dovrebbe accoglierti? Lo stupro è l’ultimo atto con cui le milizie peggiori marchiano i territori conquistati.
Così io trovo coraggiosissime, esemplari, le giovani donne che denunciano. Brava, ragazza anonima che ti sei alzata in piedi davanti alla Giustizia e hai rivendicato il tuo posto in questa orrenda storia di maschi. Grazie, perché per ogni Creonte c’è un’Antigone.
La legge dà un anno di tempo e ce ne vorrebbero quaranta: quaranta giorni sono pochissimi, e chi sostiene il contrario non sa di cosa parla, non capisce nulla né vuole provarci, a capire. Purtroppo per noi tutti, a non capirne nulla, a fare un processo sommario, a tentare di ridimensionare il presunto reato, a infierire sulla presunta vittima non è stato un privato cittadino, ma il presidente del Senato, la più alta carica dello Stato dopo Mattarella. Sarebbe dovuto rimanere in silenzio. Avrebbe dovuto dire: «Ne prendo atto, mi rimetto all’iter previsto», invece.
Hans Jonas, uno dei più grandi filosofi del Novecento, ne Il principio responsabilità dice che questo principio si basa sul rapporto altruistico, che l’Etica non si occupa più dell’agire dell’uomo ma dell’uomo che deve agire e indica tre figure che non possono prescindervi: dio, il capo di stato e il padre di famiglia (ovviamente intendendo anche la madre di famiglia, anche ogni carica rappresentativa dello stato); «estremizzando si può dire che la possibilità che si dia responsabilità costituisce la responsabilità preliminare».
Io non credo in dio ed evito di citarlo pure per chi ci crede. Restano le altre due figure, il padre di famiglia e il capo di Stato: secondo Jonas, Ignazio La Russa è inadeguato per entrambe.
Lo sappiamo tutte che la violenza maschile è sistemica
FEMMINICIDI. Dall’inizio del 2023 sono 47 le donne uccise, di cui 38 in ambito familiare-affettivo. Ieri le morti di Giulia Tramontano e Pierpaola Romano
Alessandra Pigliaru 02/06/2023
Lo sapevamo tutte, che era stata ammazzata. È ciò che da ieri in moltissime hanno scritto, inondando i social con un hashtag, quando è stato ritrovato il corpo di Giulia Tramontano, 29 anni, uccisa dal suo compagno. Dopo averla accoltellata e aver tentato di dare fuoco al cadavere per due volte, non riuscendoci. Il compagno ne ha poi inscenato l’allontanamento volontario in seguito a una discussione. Lo sapevamo tutte, che dopo quel confronto in cui, incinta di sette mesi, Giulia Tramontano era tornata nella loro casa di Senago (nel milanese) per chiedere conto della relazione parallela di lui appena scoperta, non era riuscita ad andare da nessuna parte. Perché a un livello profondo è questo un sapere che è anzitutto un sentire, una vicinanza intima e materiale alle nostre simili, ovunque si trovino.
Che Alessandro Impagnatiello, ora in carcere, abbia confessato il femminicidio e indicato il luogo in cui aveva inteso sbarazzarsi della sua fidanzata, e di suo figlio, è ulteriore corollario all’epilogo intuibile. Non lo ha potuto fare invece Massimiliano Carpineti, che ieri mattina ha ucciso Pierpaola Romano, perché dopo averle sparato nell’androne di casa a Torraccia (nord est di Roma) si è ucciso. Dividevano lo stesso ufficio, erano entrambi in polizia. Che cosa accomuna questi due femminicidi è intanto che a commetterli sono stati degli uomini. Sono tuttavia le cronache non di «morti annunciate» ma le storie che rendono situati e incarnati i dati della violenza maschile contro le donne e che contano a oggi in Italia (dall’inizio del 2023) 47 donne uccise, di cui 38 in ambito familiare-affettivo. E se il «movente» per l’uccisione di Pierpaola Romano verrà confermato, sono 39.
È un numero consistente, impariamo almeno a usare le parole giuste, quando ne scriviamo – a qualsiasi titolo – e ne parliamo – in ogni occasione utile – tenendo stretti gli orli di ciò su cui non si deve arretrare nemmeno di un millimetro: non c’è «passionalità» nella volontà deliberata di uccidere una donna.
Non c’è una sorta di corresponsabilità in una dinamica precisa in cui a morire è una donna in quanto tale e per aver manifestato il desiderio di andarsene o di agire la propria libertà, anche dicendo di no, preferirei di no.
È inaccettabile proseguire con questa solfa secondo cui ci saranno state delle avvisaglie precedenti e dunque sono le ragazze, le donne che andrebbero educate «a mettersi in salvo». Nessuna vuole né augura a se stessa di essere uccisa mentre è vero che, nonostante una rivalutazione delle pene (la ministra Roccella ha annunciato ieri che in Cdm ci sarà presto un pacchetto di norme anti violenza), nonostante le giornate internazionali in cui si fa il punto, la violenza maschile contro le donne non perde la sua fisionomia di fenomeno sistemico e strutturale. Con radici antiche che illuminano la vera questione: quella maschile, di una voracità proprietaria così prevaricante da risultare impraticabile per chiunque altro tranne che per gli stessi uomini. Anche se dire che li riguarda ormai non è sufficiente, non basta più.
Nel frattempo, mentre i centri antiviolenza sono in perenne affanno, si amplifica la retorica pubblica sulla «vita» e sulla famiglia come società «naturale» e inscalfibile. La realtà però dice il contrario, e lo dice sui corpi delle donne. Bisogna chiamarli femminicidi, lo sappiamo tutte, siamo nella posizione di poterlo dire anche al presente che lo sappiamo. Da sempre.
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