USTICA: ANCHE QUESTO GOVERNO È INADEMPIENTE da IL MANIFESTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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USTICA: ANCHE QUESTO GOVERNO È INADEMPIENTE da IL MANIFESTO

Anche questo governo è inadempiente

44 ANNI DOPO. Manca ancora un pezzo, ripetiamo in questo anniversario, l’ultimo pezzo di verità su Ustica, quello che ci deve dire chi nella tragica notte del 27 giugno 1980 ha provocato la […]

Daria Bonfietti  27/06/2024

Manca ancora un pezzo, ripetiamo in questo anniversario, l’ultimo pezzo di verità su Ustica, quello che ci deve dire chi nella tragica notte del 27 giugno 1980 ha provocato la morte di 81 cittadini, violando i confini e la dignità del nostro Paese.

A che punto siamo: sappiamo dalla Sentenza ordinanza del giudice Priore (1999) la verità sulla tragica notte del 27 giugno 1980: «L’incidente al Dc9 è occorso a seguito di azione militare di intercettamento, il Dc9 è stato abbattuto, è stata spezzata la vita a 81 cittadini innocenti con un’azione, che è stata propriamente atto di guerra, guerra di fatto e non dichiarata, operazione di polizia internazionale coperta contro il nostro Paese, di cui sono stati violati i confini e i diritti. Nessuno ha dato la minima spiegazione di quanto è avvenuto». Nel 2008, il presidente emerito della Repubblica, Francesco Cossiga ha affermato e testimoniato che il Dc9 Itavia è stato abbattuto da aerei francesi che volevano colpire il leader libico Gheddafi; per questo sono state riaperte le indagini dalla procura di Roma, che sono a tutt’oggi aperte. Da troppo tempo aspettiamo, vogliamo sapere cosa e come hanno risposto alle rogatorie internazionali i Paesi alleati coinvolti e non nascondiamo la preoccupazione che purtroppo, in questi anni, in qualche momento, sia mancata alla magistratura la determinazione che aveva caratterizzato altre stagioni di indagini.

Questa troppo lunga attesa, questo prolungato silenzio, contribuiscono ad assopire l’opinione pubblica, dando invece spazio a depistaggi e provocazioni. Chiedo con forza al governo Meloni una posizione coerente di verità e giustizia per le 81 vittime e per la dignità stessa del nostro paese, che voglia anche tener conto che il governo, (ministeri della difesa e dei trasporti), è stato condannato ai risarcimenti, ai parenti e all’Itavia, con più sentenze in sede civile, per non aver difeso l’incolumità dei i suoi cittadini e/o ostacolato la verità. Crediamo sia sempre più necessaria un’azione diplomatica decisa presso gli stati amici ed alleati che avevano aerei in volo quella notte attorno al Dc9 .

In questo sonno della ragione giudiziaria prosperano i mostri della menzogna, i depistaggi e addirittura in questi giorni assistiamo a richieste di censura preventiva. Siamo costretti in una sorta di insana par condicio a continuare a ripetere che la tesi della bomba è sostenuta da una perizia giudiziaria bocciata dai giudici stessi che l’avevano chiesta. Aggiungiamo che la destra, assecondando la tesi della bomba, rinnega i ben diversi percorsi che aveva fatto negli anni il Msi. E vogliamo anche in occasione di questo anniversario denunciare che il governo Meloni, dopo un’iniziale interesse, sta lasciando languire l’attuazione della direttiva Renzi per la desecretazione degli atti per gli anni del terrorismo. Quello della Direttiva è un iter di grande rilevanza storica, iniziato nel 2014, che ha portato evidentemente a risultati positivi, ma che ha sempre mostrato, per Ustica, l’aspetto negativo della mancanza di documentazione coeva ai fatti (e un certo grado di precarietà nella tenuta complessiva della documentazione dello Stato, basti pensare che non esiste più l’archivio del ministero dei trasporti per gli anni del terrorismo).

Intanto non prosegue la digitalizzazione degli atti dei processi di interesse storico e non trova attuazione il protocollo d’intesa con il ministero dell’istruzione firmato dalle associazioni delle vittime del terrorismo per la didattica nelle scuole.
Per legare l’impegno per la verità e la memoria credo sia importante segnalare che a Bologna, proprio in questo anniversario, nascerà la Fondazione museo per la memoria di Ustica, Comune e Regione Emilia Romagna si uniranno alla associazione nel percorso di memoria dentro e fuori il museo. Continuiamo a chiedere e a lottare per poter scrivere l’ultimo pezzo di verità, e continuiamo ad impegnarci ancora, anche per la dignità del nostro Paese.

*L’autrice è la presidente dell’associazione parenti delle vittime della strage di Ustica.

Le ombre francesi sul cielo di Ustica: la strage 44 anni fa

27 GIUGNO 1980- 27 GIUGNO 2024. Pochi mesi dopo la tragedia un quotidiano parla di un missile lanciato da un aero decollato da una portaerei francese. Ma a gettare sospetti su Parigi – che avrebbe tentato di uccidere il leader libico Gheddafi – ci sono anche i voli notturni da un base in Corsica

Daria Lucca, Paolo Miggiano  27/06/2024

È il 12 luglio del 1980. Due settimane prima un Dc9 Itavia da Bologna a Palermo, con ottantun civili a bordo, è stato abbattuto nel cielo di Ustica. Pochi giorni più tardi, a metà luglio, un Mig-23 libico precipiterà sui monti della Sila. Tre settimane dopo, il 2 agosto, una bomba abbatterà l’intera ala sinistra della stazione di Bologna, causando ottantacinque morti e oltre duecento feriti.

Ma è ancora il 12 luglio 1980 e Sandro Pertini, presidente della Repubblica italiana è in vacanza sui monti di Entreves, in Val d’Aosta. Va a mangiare in un ristorante frequentato anche, tre volte l’anno, dal presidente francese Valéry Giscard D’Estaing. Pertini è attorniato dalla gente del posto, che ha paura e chiede se la minaccia di terrore e guerra finirà.

«Non sono qui per predire il futuro», risponde il presidente, ma prosegue: «Noi abbiamo il terrorismo e certi governanti stranieri che guardano con disdegno all’Italia… dovrebbero chiedersi perché mai sia stata scelta l’Italia come bersaglio… l’Italia è un ponte democratico che unisce l’Europa all’Africa e al Medio Oriente. Se, per dannata ipotesi, questo ponte democratico saltasse, ci sarebbero gravi conseguenze: lo sconvolgimento degli equilibri nel bacino del Mediterraneo e un pericolo per la pace mondiale».

Una donna lo incalza: «Vai avanti». E Pertini sbotta: «Se salta il ponte democratico rappresentato dall’Italia non se ne potranno rallegrare né la Francia, né la Germania, né l’Inghilterra. Parliamoci chiaro. E ditelo al signor Giscard D’Estaing».COSA RIMPROVERA Pertini a Giscard? Solo l’ospitalità offerta ai terroristi rossi italiani fuggiti in Francia? Oppure anche qualcosa di storto successo, per colpa francese, sul cielo di Ustica, due settimane prima? Difficile saperlo.

La prima volta che la Francia viene tirata in ballo per la strage di Ustica è nell’immediatezza dei fatti. Una telefonata alla sede romana del Corriere della sera accredita Marco Affatigato come esponente dei Nar, i neofascisti dei Nuclei armati rivoluzionari, e lo racconta imbarcato sul volo Bologna – Palermo. «Lo riconoscerete per il Baume & Mercier», l’orologio di marca francese. Ma il terrorista stesso si affretta, tramite la madre, a smentire. Lui è vivo e vegeto in Francia. E’ un depistaggio, non conta.

Ma intanto l’attenzione immediata è diretta verso una bomba, i Nar sono accreditati come bombaroli e la prua geopolitica è diretta a nord ovest.

LA SECONDA VOLTA, la cosa è più seria. Il 17 dicembre 1980, il quotidiano britannico Evening Standard pubblica la notizia di «fonte romana» secondo cui il Dc9 Itavia è stato abbattuto per errore durante un’esercitazione da un missile lanciato da un aereo militare decollato da una portaerei francese: «Si pensa che il missile abbia agganciato per errore i motori del Dc9, che erano più potenti di quelli del radiobersaglio, il vero obiettivo»,il manifesto del 28 giugno 1981, un anno dopo la strage di Ustica, riporta con dovizia di dettagli l’ipotesi americana di un missile “non italiano e non americano”

In realtà, la Francia era comparsa nella vicenda fin dalla sera stessa della strage, solo che magistrati e opinione pubblica dovranno attendere anni per venirlo a sapere. La stessa notte dell’incidente il capitano Giancarlo Trinca, secondo pilota del primo elicottero di soccorso aereo decollato da Ciampino, sente chiamare a più riprese in lingua inglese la Clemenceau, portaerei dei bleus, sulla frequenza di emergenza aerea internazionale, la 6715 della rete SiprNet.

Un torrente di comunicazioni che viene ascoltato anche al sottocentro soccorso di Ciampino, prima e dopo l’abbattimento del Dc9, dal sottufficiale Massimiliano Bozicevich. Parlavano così tanto che non riuscivamo a comunicare col nostro elicottero, testimonierà anni dopo Bozicevich ai magistrati.

Il torrente di parole in inglese avremmo potuto ascoltarlo anche noi. Degli otto registratori audio del centro di controllo del traffico aereo di Ciampino, uno è dedicato proprio alle comunicazioni terra-bordo-terra del soccorso. Ma il nastro del soccorso, assieme ad altri nastri registrati quella sera a Ciampino, non sono mai arrivati a periti e magistrati. Ne sono arrivati, pare, tre su otto.

National Transportation. Safety Board di Washington, sul manifesto del 28 giugno 1981

Lo scoppio del Dc 9 della compagnia Itavia sul cielo di Ustica fu causato da «un oggetto non identificato che ha attraversato la zona dell’incidente da ovest ad est ad alta velocità e approssimativamente nello stesso momento in cui l’incidente si è verificato»…. c’è da appurare la natura dell’oggetto non identificato che è entrato in collisione con il Dc 9. Si avanza l’ipotesi di un missile partito per sbaglio da un caccia non italiano e non americano

QUANDO I GIUDICI SCOPRONO, durante l’istruttoria, l’esistenza di comunicazioni riguardanti la Clemenceau, chiedono riscontri a Parigi, che nega: le loro porte-avions, Foch e Clemenceau il 27 giugno erano in porto a Tolone. Tuttavia, i dati non coincidono alla perfezione. Ad esempio, su Cols Bleu, rivista ufficiale della marina d’oltralpe, la Foch non compare in alcuna collocazione, in porto o in mare, per la giornata del 27.

Paradossalmente, mentre gli Usa si preoccupano di smentire subito ogni coinvolgimento della Navy (ma, attenzione, la smentita non comprende l’Usaf che in quei giorni ha in corso un imponente trasferimento di uomini e aerei dagli Stati Uniti verso l’Egitto), la Francia non apre bocca.

Bisognerà arrivare al 1986, il 4 settembre, perché il direttore del Sismi chieda ufficialmente conto all’omologo francese. Due settimane dopo, lo Sdece risponde che la caduta del Dc9 non costituisce «affaire de terrorisme» e pertanto non hanno informazioni.

Non è terrorismo. E’ forse un affare di stato?

Il direttore del Sismi in quel momento è l’ammiraglio Fulvio Martini. Ascoltato in Commissione stragi, nel giugno 1990, l’ammiraglio dirà, rispondendo a una domanda, che in quell’area un missile può «essere solo americano o francese». A quel punto, i commissari chiedono se abbia svolto attività specifica su Stati Uniti e Francia e Martini dichiara: «Per farlo avrei dovuto essere attivato dai politici», intendendo che non lo fu.

PARIGI TORNA prepotentemente in ballo quando il giudice Priore mette assieme i tracciati radar di Ciampino e Poggio Ballone, che guardano ambedue sul Tirreno centrale. E allora si scoprono un gran numero di tracce in movimento, decollo e atterraggio, dalla prospiciente base di Solenzara, in Corsica.

Decolli confermati dal generale dei carabinieri Nicolò Bozzo, in vacanza, quella sera, con suo fratello, proprio nel paese di Solenzara. E a questo va aggiunto l’andamento circolare di un aereo radar Awacs sulle bocche di Bonifacio o sull’Appennino centrale. Movimenti aerei che erano stati ufficialmente negati in precedenza («La base chiude alle 17») e che non saranno mai spiegati dalle autorità d’oltralpe.

COSÌ COME non sarà risposto alla rogatoria per sapere di più su un volo di cui parlano i radaristi a ridosso dell’incidente. Si tratta di 5ADDY, un Beechcraft 200 adibito ufficialmente ad Air Ambulance, il cui nome direbbe molto se non fosse il contrario, perché in effetti è una piccola compagnia con base in Svizzera in uso all’intelligence libica e segue una rotta da Ajaccio a Tripoli. Perché occuparsi di un piccolo aereo? L’ipotesi della responsabilità francese nella strage si basa anche sull’ipotesi che quella sera Gheddafi fosse in volo e fosse l’obiettivo reale. È quindi importante cercare l’eventuale aereo su cui il leader libico avrebbe potuto viaggiare.

Che i cugini francesi non avessero all’epoca scrupoli ad agire sul territorio italiano è provato da una serie di fatti.

Il 14 agosto una serie di candelotti fanno saltare i ponti radio di una società all’Elba che serve anche Radio Corsica International. Si sospetta sia opera dei servizi di Parigi. Sempre nel 1980, a Genova la nave libica Dat Assawari subisce un attentato, rivendicato da un fantomatico FLM, cioè Fronte di Liberazione Maltese. Sigla dietro a cui sembrano muoversi i servizi segreti francese e inglese.

Ma torniamo a Pertini. Subito dopo la strage alla stazione di Bologna del 2 agosto, Gheddafi gli invia un messaggio di cordoglio che il presidente italiano decide di non rendere pubblico, con «particolare rammarico» del Colonnello. Così l’ambasciatore italiano a Tripoli, Alessandro Quaroni, descrive l’umore di Gheddafi, in un telegramma cifrato del 14 settembre 1980 inviato alla Farnesina: il «colonnello – cui stampa italiana viene abbondantemente tradotta – era rimasto colpito da mancata menzione del messaggio di cordoglio at Presidente Pertini». Anche questo è contenuto del dossier Ustica desecretato da Matteo Renzi.

Insomma gli eventi accaduti nel cielo tra Ponza e Ustica sono sicuramente complessi. Come disse Rino Formica a La Stampa nel 1990, «questo incidente copre qualcosa di più importante dell’incidente stesso… Non voglio dire che il Dc9 sia stato abbattuto intenzionalmente, ma se si è trattato di un incidente non lo si è voluto dire subito perché, evidentemente, la causa è ancora più drammatica della tragedia». Formica era il ministro dei Trasporti a cui il direttore del Registro aeronautico italiano, Saverio Rana, nell’immediatezza degli eventi, aveva mostrato il tracciato del radar di Ciampino che mostra la manovra d’attacco di un caccia e un secondo aereo che fugge.

Passano i decenni e il dito socialista sui francesi, alzato per primo da Pertini, viene di nuovo puntato da Giuliano Amato che, nel settembre dell’anno scorso, chiede al presidente francese Emmanuel Macron di riconoscere il pasticcio che sarebbe stato combinato dal suo predecessore Giscard.

Le domande di Mattarella sulla strage di Ustica

INCHIESTA, USTICA 1980. Nel 1988 l’allora ministro per i rapporti con il parlamento chiese nel corso di un consiglio dei ministri perché nessuno ammetteva che nei cieli della tragedia «si gioca troppo alla guerra»

Daria Lucca, Paolo Miggiano  25/06/2024

Il 16 dicembre 1979, sei mesi circa prima della strage di Ustica, un aereo dell’aviazione di marina americana, con a bordo un pilota e tre specialisti di guerra elettronica, precipita nel territorio del comune di Capaci, sfondando due villette estive fortunatamente vuote.

Un’aria di reticenza, confusione e segreto avvolge subito l’incidente. Le uniche cose certe sono quelle evidenti: le immagini dei tre piloti superstiti; le foto della carlinga dell’aereo col nome della portaerei Nimitz, la stella americana e il numero della 134° squadriglia VAQ della Us Navy. Poche altre informazioni filtrano col contagocce.

Alle domande del magistrato italiano Guido Lo Forte, i militari americani superstiti rispondono in modo lapidario: cognome, nome, grado. Il motore ha ceduto, abbiamo scaricato in mare il carburante. Poi abbiamo bloccato i comandi. Infine ci siamo catapultati fuori. L’esercitazione? E’ americana e non Nato. Nulla sul profilo della missione, né dettagli sull’esercitazione. Nel giro di qualche ora arriva un ufficiale della Sesta Flotta da Napoli con nove assistenti. E arrivano i marines a piantonare il relitto, già sorvegliato dai carabinieri. Da parte americana c’è una gran fretta di chiudere le indagini. La Nimitz deve uscire dal Mediterraneo a raggiungere l’Oceano Indiano.

NEL 1997, diciotto anni dopo l’incidente, grazie a documenti finalmente rilasciati dall’Aeronautica militare italiana, i magistrati svelano parte dei retroscena.

Quel fatidico giorno, la portaerei americana in navigazione un centinaio di chilometri a sud di Trapani era impegnata in un’esercitazione notturna che comprendeva i cieli del Mediterraneo centrale, della Sicilia e del Tirreno meridionale. Nell’ambito dell’esercitazione, dal nome sconosciuto, un EA-6B Prowler, aereo imbarcato da guerra elettronica e attacco antiradar, doveva compiere una missione notturna di rifornimento in volo. Oltre all’analisi e al disturbo delle emissioni elettroniche, il pilota e i tre specialisti ‘elettronici’, hanno a disposizione missili Arm antiradar e Sidewinder per l’autodifesa. Nella missione erano impegnati anche un aereo cisterna per il rifornimento in volo e un aereo radar imbarcato, un E-2A Hawkeye, che controllava l’area dall’alto.

LA SESTA FLOTTA non aveva avvisato gli enti del traffico civile italiano circa l’esercitazione che intersecava l’aerovia Ambra 13, la stessa su cui verrà abbattuto sei mesi dopo il Dc9 Itavia. I tre velivoli della US Navy (il Prowler, l’aereo cisterna e l’aereo radar) avevano tuttavia gli identificatori radio militari accesi e vennero riconosciuti e monitorati dal radar militare di Marsala.

A nord di Palermo – a causa del buio, di un temporale e del forte vento – il Prowler fallì più volte l’aggancio alla sonda dell’aereo cisterna. Col carburante agli sgoccioli e la portaerei lontana, l’ufficiale pilota Robert Dark tentò un atterraggio di fortuna. Alle nove e un quarto di sera. «Per quindici minuti», scriverà due giorni dopo Felice Cavallaro sul Corriere, «migliaia di palermitani, dalle terrazze e dai balconi, hanno visto con terrore due jet che ruotavano vicinissimi ai palazzi». Verso le nove e mezzo, i tre ufficiali ‘elettronici’ si catapultarono col paracadute. Poi, il Prowler si schiantò contro le due villette di Capaci, senza incendiarsi. La mattina dopo, il corpo del pilota, Robert Dark, fu trovato esanime su un costone del Monte Pellegrino.

COINCIDENZA: nell’ordinanza di rinvio a giudizio dei generali dell’aeronautica, il giudice Rosario Priore scriverà che il codice di allarme 7700, lanciato dai tre aerei americani della Nimitz sopra Palermo nel dicembre 1979, è lo stesso inserito dal caccia TF-104 Starfighter italiano, guidato da Ivo Nutarelli e Mario Naldini (morti poi a Ramstein) appena dopo aver incrociato, il 27 giugno 1980, la rotta del Dc9 Itavia sulla dorsale appenninica.

QUELLO CHE I MAGISTRATI non scrivono è che l’esercitazione in cui muore Robert Dark è una prova di addestramento dei velivoli della Nimitz per la futura operazione Eagle Claw, Artigli d’Aquila, con cui gli Stati Uniti tenteranno, nell’aprile 1980, di liberare gli ostaggi americani a Teheran. La missione finirà in un disastro: nessun ostaggio liberato; 8 militari americani morti in uno scontro tra un elicottero e un aereo in una località del deserto iraniano. Più Robert Dark, a Palermo.

L’aerovia Ambra 13 e il codice 7700 sono le connessioni.

Il disastro aereo di Ustica riemerge – come i vermi giganti nel deserto di Dune – più volte dal buio squassando il quadro politico italiano. Una di queste emersioni avviene otto anni dopo.

E’ il 9 novembre del 1988 e il governo, presieduto dal democristiano Ciriaco De Mita si riunisce, per la seconda volta in cinque mesi, per discutere dell’incidente aereo che, irrisolto, è diventato via via collisione, cedimento strutturale, bomba, poi evento militare.

1988, foto Ansa

La discussione è infuocata. A un certo punto, dopo il ministro della difesa Zanone, De Mita concede la parola a un democristiano di quarantasette anni, siciliano, conosciuto da tutti come persona pacata e prudente.

E’ il ministro per i rapporti con il parlamento. È molto duro, deciso. Citiamo dal resoconto di Panorama dell’epoca: «Mesi prima della sciagura di Ustica, cadde un aereo americano sul Monte Pellegrino, a nord di Palermo, e nessuno offrì la benché minima spiegazione. Poi il 27 giugno, si inabissò il Dc9 dell’Itavia con 81 persone a bordo. E ancora buio pesto. Venti giorni dopo si scoprì un Mig 23 libico sui monti della Sila. Tutti zitti. È mai possibile una cosa del genere? La verità è che in quell’area si gioca troppo alla guerra come hanno denunciato a più riprese i piloti civili…» Quel ministro è Sergio Mattarella.

Da Presidente della Repubblica, Mattarella ha continuato a chiedere verità e giustizia.

PERCHÉ RICORDARE adesso le domande che pose nel 1988 a tutto il consiglio dei ministri? Semplice, perché l’articolo di Panorama compare, allegato dal Sismi, il vecchio servizio di controspionaggio militare poi chiamato Aise, nel famoso «fascicolo Ustica» desecretato dal governo Renzi e conservato all’archivio di stato.
Ora, se il Sismi ritenne di conservare traccia della discussione di Palazzo Chigi, vien da dire che le tre domande del Presidente (la caduta del Prowler americano, il disastro di Ustica e il Mig 23) erano considerate di “interesse” dal servizio.

E dal nostro punto di vista di ricostruttori di storie, è d’obbligo segnalare che, come il Prowler del Monte Pellegrino si portava dietro l’operazione Eagle Claw, così il Dc9 Itavia precipita nelle ore in cui è in corso il trasferimento di un gruppo di volo di caccia Phantom americani, operazione Proud Phantom, all’aeroporto di Cairo Ovest, in chiara funzione anti libica.

Andiamo per analogie. Colleghiamo fatti. Ricreiamo contesti. Il nostro dito è puntato contro chi non dice quello che sa. Perché vogliamo le risposte.

La Fiat dal Sismi per il Mig libico

INCHIESTA, USTICA 1980. Dopo la tragedia del Dc9 Itavia, Tripoli spinse sull’azienda torinese per riavere l’aereo militare caduto sulla Sila. In seguito Romiti disse: «Temevamo tutti fosse stata una battaglia segreta nei cieli»

Daria Lucca, Paolo Miggiano  26/06/2024

«I due consiglieri di Lafico (Libyan Arab Foreign Investment Company, ndr) in Fiat erano Abdullah Saudi e Regeb Misellati. Li avevo sentiti, naturalmente, subito dopo l’incidente di Ustica. Incidente, poi…Temevamo tutti fosse stato un missile. Uno sconfinamento, una battaglia segreta nei cieli, l’arma che parte e colpisce l’aereo civile. Ne parlammo. Mi rassicurarono». Per concedere la propria memoria Cesare Romiti, ex amministratore delegato del gruppo torinese, aspetta di essere sollecitato. E’ il 23 febbraio 2011, di fronte a un momento storico come la caduta e morte del colonnello Gheddafi, rivela al Corriere della sera che in effetti in Corso Marconi si erano insospettiti sulle sorti del Dc9 Itavia. Un sospetto in controtendenza con le informazioni istituzionali date in pasto all’opinione pubblica, che nei giorni successivi alla disgrazia parlavano solo di cedimento strutturale.

ROMITI viene pungolato dalla giornalista Raffaella Polato: gli ha creduto, quando l’hanno rassicurata? E lui, serafico, risponde: «So che qualche settimana più tardi si scoprì il caccia libico caduto in Calabria. Misellati mi richiamò… volevano, dovevano recuperare i resti dell’aereo. E ci chiedevano una mano».Pausa. Prima di riprendere l’intervista, è opportuno dare uno sguardo d’insieme al caso Fiat-Libia che in quelle poche parole dell’ex amministratore rivela subito il doppio binario su cui viaggia: il business e le informazioni.

Gheddafi aveva cacciato gli italiani dal paese nel settembre del 1970. Tuttavia, nel 1976 decide di entrare nell’azionariato dell’azienda torinese con una partecipazione importante, un 10% che arriverà alla fine oltre il 15. Per la Fiat è un’iniezione di capitale vitale. E’ anche una mossa che infastidisce stakeholders e istituzioni, nazionali e internazionali. La Libia non è ancora stato canaglia ma è sotto osservazione americana, tanto che Agnelli sente il bisogno di chiedere il permesso a Bush senior, allora direttore della Cia, per concludere l’affare.

E tuttavia, l’innesto di capitale non salva Corso Marconi dalle difficoltà. Nel 1980, ed esattamente il 21 giugno – sei giorni prima della strage – Umberto Agnelli in qualità di presidente annuncia che a ottobre si procederà a licenziare 15 mila dipendenti. Lo stato di salute del gruppo è pessimo secondo Alan Friedman che scrive: «Nel 1980, quando Romiti ne assume il controllo, la stessa sopravvivenza della Fiat è in discussione». E calcola che, nei bilanci in rosso da anni, siano segnati debiti per settemila miliardi di lire.

DIEGO NOVELLI, sindaco di Torino, dirà poi che l’annuncio lo colse di sorpresa: tre mesi prima, a marzo, Umberto gli aveva chiesto di intercedere presso i sindacati perché l’azienda aveva molte richieste e aveva bisogno di straordinari. E Romiti lo aveva pregato di sollecitare il “collega” di Rivalta per ottenere una variante al piano regolatore e ampliare quello stabilimento. Lo scontro tra direzione aziendale e sindacati si inasprì fino all’autunno, all’occupazione di Mirafiori, con Enrico Berlinguer tra gli operai. Fino all’accordo conclusivo con migliaia di ore di cassa integrazione.

Fin qui, la Fiat come potenza economica. Nel frattempo, il Dc9 è caduto e tre settimane più tardi si annuncia la scoperta di un Mig23 libico sulla Sila. E da qui concentriamoci sulle informazioni.

TORNIAMO A ROMITI e alla telefonata di Misellati, consigliere Lafico nel Cda di Corso Marconi. I dubbi che il Mig sia davvero caduto il 18 luglio sono tuttora in piedi. In quel periodo Tripoli e Roma sono in fase di schermaglie. Come spiegherà bene più tardi il sottosegretario Giuseppe Zamberletti, l’Italia era alle battute finali della trattativa per sottrarre Malta all’influenza libica e Gheddafi non era affatto d’accordo. In questo clima di tensione, il numero uno di Fiat si precipita nell’ufficio del direttore del Sismi, Giuseppe Santovito, perorando la restituzione celere del Mig alla Libia. Lo ammette Romiti nell’intervista, lo aveva già detto ai giudici Francesco Pazienza, consulente di Santovito. L’episodio è inconsueto di per sé ma lo è ancora di più considerando che l’incontro avviene senza alcuna intermediazione: il manager direttamente dal capo dello spionaggio militare.

COME ERA NATO il sodalizio tanto intenso da meritare la richiesta di un favore agli 007 e tanto corretto («sembrano banchieri svizzeri», disse Agnelli) da essere afferrato al volo nonostante i dubbi del resto dell’Occidente? Qui Romiti regala una chicca. «Un giorno venne da me Nicolò Gioia, era stato direttore generale Fiat, era in pensione, ma continuava a girare per il mondo», aveva contatti a Tripoli e riferì dell’interesse libico a investire nel gruppo. Ma chi è, esattamente, Nicolò Gioia? Oltre a essere un gran viaggiatore, è uno degli uomini Fiat che furono condannati (anche se tutto finì poi in prescrizione) nel processo per le schedature dei dipendenti. I più giovani non lo ricorderanno, ma i vertici di Corso Marconi furono portati in tribunale negli anni Settanta dal pretore Raffaele Guariniello dopo che nell’archivio aziendale si erano scoperte 354 mila schede compilate dal servizio di informazioni interno, con l’ausilio di ufficiali dei carabinieri e funzionari di polizia compiacenti (uno di questi era Marcello Guida, trasferito poi alla questura di Milano). Come gli altri dirigenti, Gioia fu condannato in primo grado a due anni e tre mesi. Il che, come si vede, non gli impedì di fungere da intermediario per l’affare del secolo.

IN QUEL PROCESSO Gioia era in compagnia, fra gli altri, di Mario Cellerino, pilota personale di Agnelli e dirigente all’epoca dei “servizi generali”, ovvero di sicurezza. Cellerino non era solo un pilota. Era un militare, anzi un militare piuttosto particolare. Era un ex ufficiale del Sios Aeronautica: era stato anche addetto militare all’ambasciata di Berlino durante la guerra. Come ufficiale dei servizi segreti aeronautici, si era portato in azienda parecchi colleghi, tutti coinvolti nel processo per le schedature.

Di questo processo si seppe, all’epoca, poco o niente. Del resto, è noto ai giornalisti italiani che nulla viene pubblicato sulla Fiat che la Fiat non voglia, o quasi. Friedman segnala, al proposito, i ricordi di un giornalista del Wall Street Journal per cui la sala stampa di Corso Marconi riecheggiava di comportamenti da Grande Fratello.

Le buone relazioni tra Corso Marconi e le barbe finte nazionali intanto si consolidano. Decapitato da Guariniello, il “servizio generale” viene affidato, a metà degli anni ‘70, a Giorgio Castagnola, già capo del Sismi piemontese. Colonnello dei carabinieri, Castagnola in Fiat è nominato coordinatore generale della sicurezza del gruppo. Tra i suoi compiti ci sono il controllo e la protezione delle tecnologie militari strategiche a cui la Fiat ha accesso grazie alle Commesse militari collegate alla Nato. Perché nel frattempo il gruppo torinese, che talvolta appare come uno stato nello stato, tiene i piedi in varie scarpe. Se i finanziamenti arrivano da Tripoli, le commesse arrivano da Washington, ma anche dal grande affare sovietico, Togliattigrad, che permise a Mosca di passare da 200 a 800 mila veicoli l’anno (e a incamerare tecnologia).

Il rapporto con la Libia fu chiuso nel 1986 dopo il bombardamento di Tripoli, con un guadagno straordinario da parte di Gheddafi (il deputato di Democrazia Proletaria, Luigi Cipriani, sospettò irregolarità e presentò denuncia su quel riacquisto di azioni).

Tornando all’estate 1980 quando un Dc9 con ottantun italiani precipita in mare e un Mig si schianta sulla Sila, la Fiat aveva in casa notevoli risorse informative, tante da far sospettare a Romiti «una battaglia segreta nei cieli». Purtroppo a nessuno è mai venuto in mente di chiedergli su che cosa basasse questi sospetti.

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