The Square. L’arte e la vita
di Vittorio BOARINI, 12 novembre 2017
È uscito nelle sale in questi giorni The Square, il film dello svedese Ruben Östlund vincitore della Palma d’oro all’ultimo Festival di Cannes. Alle numerose recensioni, molte delle quali pertinenti e acute, reperibili sulla stampa e in rete, voglio aggiungerne una, brevissima, per invitare gli amici di Officina ad andarlo a vedere.
Il protagonista, Claes Bang, è il curatore di un grande museo d’arte contemporanea di Stoccolma, in procinto d’inaugurare una nuovissima opera di un’artista argentina, The Square, il quadrato appunto;
seguendo le sue intricate e assurde vicende personali, il regista ci mostra la società svedese, il Moderno, con le sue contraddizioni stridenti, compresa una sorta di corte dei miracoli di mendicanti;
sempre il protagonista, in un’intervista concessa a una giornalista (Elisabeth Moss) che non sembra saperne molto di arte, dice che se essa ponesse la propria borsa nello spazio museale, la borsa diverrebbe un’opera d’arte, fa cioè chiaro riferimento al pisciatoio di Duchamp, quindi alle avanguardie storiche;
per ricavare l’opera, Il quadrato, nella pavimentazione della piazza antistante il museo (nella realtà si tratta del Palazzo reale), si abbatte un antico monumento equestre, si cita cioè il nichilismo delle avanguardie artistico-letterarie che volevano azzerare tutta la tradizione culturale del passato;
accanto a un lato del quadrato di sampietrini viene posta una targa con la scritta: “Il quadrato è un santuario di fiducia e altruismo. Al suo interno tutti dividiamo gli stessi diritti e doveri”, vale a dire che l’arte realizza uno spazio socio-politico ideale, qualcosa di astrattamente analogo alle aspirazioni dei surrealisti (rivoluzionare insieme l’arte e la società).
Tutto ciò premesso, azzardo una considerazione sul significato profondo dell’opera, che è anche candidata all’Oscar per il miglior film non americano. Nella società del neoliberismo maturo (tanto da essere ormai marcio) l’auspicio delle avanguardie di negare l’arte in quanto merce e realizzarla come vita si è paradossalmente avverato. L’arte e la vita si identificano per caotica assurdità, irresponsabilità sociale e negazione dei valori, in altre parole per essere ambedue alienate ed eterodirette.
L’importante, infatti, non è l’oggetto artistico, ma lo spot con cui dovrà essere pubblicizzato, tanto che, essendo risultato lo spot, per l’ansia degli autori di richiamare ad ogni costo l’attenzione del pubblico (ciò che conta veramente), “politicamente scorretto”, si scatenerà una bagarre che lascerà in secondo piano l’opera da reclamizzare. Il curatore dovrà dimettersi dal museo, la cui gestione, apparentemente folle, è in realtà molto simile a quella di tanti enti pubblici contemporanei.
Il messaggio pubblicitario ha sostituito il prodotto artistico da promuovere, ne è divenuto per il contesto sociale un equivalente che contraddice la specificità dell’arte.
L’unità di arte e vita, realizzata dalla restaurazione neoliberista succeduta al sessantotto, si presenta rovesciata: l’arte, divenuta kitsch per soddisfare l’estetismo di massa, non è l’art par touts et pour touts, vagheggiata da Breton, ma la componente organica di una società lacerata dal potere nelle sue molteplici forme, anche in quelle estetiche.
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